A se stesso

L’infinita vanità del tutto

Luca Pirola
4 min readApr 22, 2020

Le liriche appartenenti al ciclo di Aspasia rappresentano un ritorno alla poesia di Leopardi dopo il periodo dedicato alla prosa satirica delle Operette morali. Nonostante le personali difficoltà economiche, nel 1830 il poeta dà l’addio definitivo a Recanati, deluso per l’amore non corrisposto per Fanny Targioni Tozzetti e vessato da una salute sempre più precaria.
in questo contesto la sua poesia è immersa nel presente, lontana dall’idillio che rimembra il passato.

Il Ciclo di Aspasia (1831–1834) comprende cinque poesie ispirate all’amore per Fanny. L’amore è il tema centrale delle poesie, ed è vissuto e raccontato in ogni sua fase: dall’esaltazione al disinganno. La riflessione conclusiva conosste nel riconoscimento dell’amore come inganno estremo, che testimonia l’infinita vanità del tutto.

A se stesso

A se stesso venne composta probabilmente tra il 1832 e il 1833. Venne pubblicata per la prima volta nei Canti del 1835, in chiusura del “ciclo di Aspasia” a segnare la conclusione definitiva dell’inganno amoroso.

Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
l’ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l’infinita vanità del tutto.

La lirica è una esortazione che la mente del poeta rivolge al proprio cuore. Tema centrale è la definitiva caduta delle illusioni, in particolare di quella amorosa. Il testo infatti si colloca come terza poesia del “ciclo di Aspasia” e se nei due canti precedenti (Il pensiero dominante e Amore e Morte) l’amore era visto come unico inganno capace di dare valore all’esistenza, questo testo ne ribalta i toni e le argomentazioni (palinodia), sancendo l’inutilità di ogni illusione ed esperienza umana.

Il motivo del dialogo, frequentissimo nell’opera di Leopardi, questa volta si basa su uno sdoppiamento dell’ “io” del poeta: la parte razionale, consapevole, esorta il “cuore”, la parte sentimentale a riconoscere l’infinita sproporzione tra la grandezza delle sue aspirazioni e la piccolezza del mondo, a rinunciare a ogni speranza, a soffocare la sua stessa tendenza a cedere al fascino delle illusioni.

Nei versi centrali della lirica (vv.9–10) figurano ben quattro termini centrali del sistema semantico leopardiano: amaro (aggettivo sostantivato), noia, vita, nulla, condensati in una frase nominale.

Nonostante il poeta cerchi di convincere il proprio cuore a spegnersi e perire attraverso una serie serrata di imperativi, il cuore rimane sempre vitale e anzi, nonostante l’ultima illusione sia caduta, ha ancora la forza di disperarsi e, dunque, di provare sentimenti ed emozioni, per quanto non piacevoli.

Il contenuto amaro e tragico di questi imperativi non conduce, però, il poeta a un sentimento di rassegnazione passiva: la scelta definitiva di ripudiare ogni falsa illusione, di disprezzare la vanità delle cose e la malvagità della natura è compiuta da Leopardi per dimostrare la propria grandezza interiore a viso aperto, senza rifugiarsi in facili consolazioni, il destino nemico.

Nel verso conclusivo Leopardi riprende il noto incipit del libro biblico dell’Ecclesiaste: Vanità delle vanità, […], vanità delle vanità, tutto è vanità. Il poeta però va oltre e aggiunge l’aggettivo infinita, a sottolineare il nulla sconfinato dell’universo intero in cui si dibatte e affanna senza scopo lo spirito umano.

Stile
Il compito che Leopardi attribuisce alla sua poesia in questa fase non è più quello di evocare le illusioni, di solleticare l’immaginazione del lettore, ma di denunciare l’inesorabile inimicizia della natura nei confronti dell’uomo, proclamata con forza la nuda verità sulla condizione umana. Ne scaturisce un definitivo abbandono della poetica dell’indefinito e la sperimentazione di scelte linguistiche e stilistiche nuove, volte a creare effetti di tensione, durezza, scarna essenzialità, capaci di esprimere l’atteggiamento energico, combattivo, alieno da ogni illusione o abbandono sentimentale, che caratterizza la situazione psicologica dell’autore.

Il testo, a differenza degli altri Canti, è composto da un’unica strofa di endecasillabi e settenari. Può essere suddiviso in tre sezioni simmetriche, ciascuna delle quali inizia con un settenario e termina con un endecasillabo: vv.1–5; vv.6–10; vv. 11–16.
Ogni parte inizia con una allocuzione diretta al cuore del poeta: Or poserai per sempre (v. 1); Posa per sempre (v. 6); T’acqueta omai (v.11).

La poesia è caratterizzata da una marcata presenza di proposizioni coordinate (16 su 18), per lo più brevi o brevissime. È proprio tale asciutta brevità del dettato a collegare intimamente A se stesso al genere delle epigrafi sepolcrali. Le frasi sono separate da punti e non sono connesse da legami di subordinazione o coordinazione, che, unite al ricorrere di frequentissimi e forti enjambements, creano un ritmo rotto e dissonante, spezzato da pause drammatiche e profonde.

Il poeta parla al passato, a chiarire che l’amore (l’inganno estremo) è esperienza in tutto conclusa. A conferire maggiore enfasi al dettato concorre l’uso delle definizioni di durata: sempre, estremo, eterno, disposti secondo un climax ascendente. La ripetizione del verbo perì ribadisce in modo sentenziale la verità ormai raggiunta dal poeta.

Sono assenti immagini visive (gesti, oggetti, paesaggio), sostituite dalla fredda astrattezza delle affermazioni e degli imperativi che il poeta rivolge a se stesso.

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Luca Pirola
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Written by Luca Pirola

History and Italian literature teacher

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