Alle fronde dei salici
Dall’ermetismo alla poesia civile
Salvatore Quasimodo (1901–1968) inizia la sua esperienza letteraria aderendo all’ermetismo. Le sue liriche raccontano la ricerca personale di valori personali e religiosi nell’ambito di una società da cui il poeta si sente escluso, quasi esule. Tale condizione è rappresentata dalla descrizione del paesaggio siciliano — sua terre d’origine — lontano e mitizzato. Dal 1942 Quasimodo, impressionato dalle tragedie della guerra mondiale, scopre le sofferenze dell’umanità e rivolge la sua poesia verso l’analisi di una realtà di morte e sofferenza, cercando di dare voce al dolore collettivo. L’esilio rimane una condizione personale, che assume la funzione di paradigma della condizione umana.
La contemplazione del dolore dell’umanità permette a Quasimodo di definire la pena come condizione di tutti gli uomini oppressi dalla violenza e dalla ferocia dei propri simili. La guerra diventa così la struttura narrativa di una indagine della propria coscienza interiore allo scopo di individuare i fondamenti della vita stessa.
E con il piede straniero sopra il cuore,
E come potevamo noi cantare
La lirica inizia con la congiunzione “E” a presupporre una riflessione precedente dell’io lirico: qualcuno potrebbe rimproverare ai poeti di non aver scritto poesie negli anni più bui della Seconda guerra mondiale; a tale rimprovero il poeta replica e come potevamo noi cantare… Il termine cantare significa appunto fare poesia.
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
La repressione nazi-fascista è descritta mediante gli effetti tragici che crea: i morti fucilati non potevano essere seppelliti subito, per ordine delle SS restavano sull’erba dura e fredda quale ammonimento per le popolazioni.
L’ambiente è freddo e silenzioso, le sole voci tra tanta sofferenza sono quelle del pianto straziante dei fanciulli, simile al belato dell’agnello, e dell’urlo atroce della madre che va incontro al figlio «crocifisso».
Lo stile, evocativo, abbandona in questi versi l’aristocratica solitudine e le oscurità ermetiche per adottare un andamento più colloquiale. Prevale la paratassi, il ritmo è lento e fortemente scandito come la nenia di un Salmo corale. Le figure retoriche, inoltre, contribuiscono a descrivere la sofferenza della popolazione civile patita durante il conflitto: l’analogia erba dura di ghiaccio evoca il gelo interiore e l’angoscia provocate dalla ferocia nazista che sembra far perdere vita anche all’erba; il lamento dei bambini è simile al belato dell’agnello; l’immagine, con il suo richiamo biblico, anticipa quella dell’altra vittima innocente: il giovane partigiano impiccato; la sinestesia urlo nero che fonde la sensazione uditiva con quella visiva ed esprime evocativamente tutta la disperazione della donna; infine crocifisso è metafora dell’antico supplizio della croce e anche del sacrificio di un giovane innocente crocifisso come Cristo.
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.
Le cetre sono metafora dell’attività poetica; le cetre che oscillano al vento evocano il senso di inutilità della poesia nell’ora della guerra. La guerra, infatti, assurge alla dimensione di una tragedia biblica: come potevano cantare i poeti? Le cetre sono mute e quello dei poeti è un voto di silenzio. Essi, che hanno assistito alla barbarie della guerra, hanno appeso le cetre alle fronde dei salici, come gli antichi profeti, in segno di lutto e di partecipazione solidale, ma anche per auspicare la fine di quegli orrori.
Il silenzio del poeta è da considerare un muto rispetto dinanzi alle sofferenze provocate dalla guerra e, anche, un’implicita denuncia di quegli intellettuali che scelsero durante il ventennio fascista l’asservimento al regime. Ora, nel momento della sofferenza, i poeti non hanno più voce per cantare, così come un tempo gli Ebrei prigionieri a Babilonia.