Cantico del gallo silvestre
L’ineluttabilità della morte
Il Cantico del gallo silvestre è collocato in penultima posizione nelle edizioni delle Operette morali. Il carattere dell’operetta, infatti,, trasmette al lettore un senso di inesorabilità nell’indicare il nulla verso il quale si dirige l’esistenza umana. L’idea di fondo è quella del “manoscritto ritrovato”, ossia un testo perduto e di assai difficile comprensione che riporta il vero e proprio cantico del gallo silvestre. Nella finzione dell’operetta, questo testo viene tradotto dalle antiche lingue orientali, ma — come spiegano le righe iniziali — la figura di questo gallo e le sue caratteristiche restano immancabilmente avvolte nel mistero. Chiaro invece è il messaggio che comunica ai «mortali»: la vita è un progredire costante e implacabile verso la morte.
Affermano alcuni maestri e scrittori ebrei, che tra il cielo e la terra, o vogliamo dire mezzo nell’uno e mezzo nell’altra, vive un certo gallo salvatico; il quale sta in sulla terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo. Questo gallo gigante, oltre a varie particolarità che di lui si possono leggere negli autori predetti, ha uso di ragione; o certo, come un pappagallo, è stato ammaestrato, non so da chi, a profferir parole a guisa degli uomini: perocché si è trovato in una cartapecora antica, scritto in lettera ebraica, e in lingua tra caldea, targumica, rabbinica, cabalistica e talmudica, un cantico intitolato, Scir detarnegòl bara letzafra, cioè Cantico mattutino del gallo silvestre: il quale, non senza fatica grande, né senza interrogare più d’un rabbino, cabalista, teologo, giurisconsulto e filosofo ebreo, sono venuto a capo d’intendere, e di ridurre in volgare come qui appresso si vede. Non ho potuto per ancora ritrarre se questo Cantico si ripeta dal gallo di tempo in tempo, ovvero tutte le mattine; o fosse cantato una volta sola; e chi l’oda cantare, o chi l’abbia udito; e se la detta lingua sia proprio la lingua del gallo, o che il Cantico vi fosse recato da qualche altra. Quanto si è al volgarizzamento infrascritto; per farlo più fedele che si potesse (del che mi sono anche sforzato in ogni altro modo), mi è paruto di usare la prosa piuttosto che il verso, se bene in cosa poetica. Lo stile interrotto, e forse qualche volta gonfio, non mi dovrà essere imputato; essendo conforme a quello del testo originale: il qual testo corrisponde in questa parte all’uso delle lingue, e massime dei poeti, d’oriente.
L’operetta risulta nettamente suddivisa in due parti. La sezione iniziale (costituita dal primo capoverso) è un vero e proprio preambolo nel quale lo scrittore afferma di aver ritrovato un manoscritto antico che riporta il cantico del gallo silvestre, puntualmente tradotto nella seconda parte del testo. Rispetto al cantico del gallo, che trasmette un messaggio terribile e spaventoso, il prologo funge da contrappunto ironico, con la funzione di attenuare la forza e l’inesorabilità dei rimandi simbolici e biblici che il cantico stesso vuol comunicare al lettore. Insomma, in questa parte iniziale, il cantico del gallo è presentato come una sorta di scherzo, una bizzarria, una narrazione complessa e forse inattendibile, sulla cui autenticità si sollevano addirittura dubbi. Infatti lo stesso Leopardi afferma che il testo risulta composto da un impasto di lingue diverse (caldeo, targumico, ecc.) e difficili da comprendere; che non è possibile fare congetture sulla frequenza del canto del gallo silvestre, né se vi siano degli ascoltatori, né infine quale sia l’origine del suo messaggio. L’animale stesso è del resto definito un pappagallo… ammaestrato. Il cantico originario era inoltre un testo poetico, mentre in questo volgarizzamento leopardiano esso viene presentato in prosa: nel Cantico del gallo silvestre non esiste nemmeno più uno spazio per la poesia.
utti questi elementi, come si è detto, hanno un marcato valore ironico e dissacratorio che urtano con il messaggio severo e algido del cantico. Eppure, proprio questa ironia acuisce il senso di implacabilità e terrore insiti nel cantico del gallo. Con questo artificio, Leopardi mette in bocca all’animale leggendario il proprio pensiero.
Su, mortali, destatevi. Il dì rinasce: torna la verità in sulla terra e partonsene le immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero.
Le prime parole del cantico segnano il brusco cambiamento di stile che si verifica al passaggio tra la prima parte del testo (il preambolo) e la seconda (il cantico del gallo). Il gallo si esprime con un tono aulico, a testimonianza di una prosa di alta qualità poetica. le forti cesure, indicate dalla presenza massiccia della punteggiatura, mimano il verso poetico anche con l’adozione di veri e propri versi (Sorgete; ripigliatevi la soma è un endecasillabo, tra l’altro ricco di allitterazioni)
Ciascuno in questo tempo raccoglie e ricorre coll’animo tutti i pensieri della sua vita presente; richiama alla memoria i disegni, gli studi e i negozi; si propone i diletti e gli affanni che gli sieno per intervenire nello spazio del giorno nuovo. E ciascuno in questo tempo è più desideroso che mai, di ritrovar pure nella sua mente aspettative gioconde, e pensieri dolci. Ma pochi sono soddisfatti di questo desiderio: a tutti il risvegliarsi è danno. Il misero non è prima desto, che egli ritorna nelle mani dell’infelicità sua. Dolcissima cosa è quel sonno, a conciliare il quale concorse o letizia o speranza. L’una e l’altra insino alla vigilia del dì seguente, conservasi intera e salva; ma in questa, o manca o declina.
Il Gallo indica nel mattino come l’ora più felice (o piuttosto meno infelice) della giornata, perché prima che l’uomo si desti rimane intatta (intera e salva) fino al risveglio (vigilia) del giorno seguente l’illusione di felicità e la possibilità di progettare la propria esistenza; ma in questo momento (cioè, quando ci si desta: in questa è riferito a vigilia) scompare o si affievolisce.
Se il sonno dei mortali fosse perpetuo, ed una cosa medesima colla vita; se sotto l’astro diurno, languendo per la terra in profondissima quiete tutti i viventi, non apparisse opera alcuna; non muggito di buoi per li prati, né strepito di fiere per le foreste, né canto di uccelli per l’aria, né susurro d’api o di farfalle scorresse per la campagna; non voce, non moto alcuno, se non delle acque, del vento e delle tempeste, sorgesse in alcuna banda; certo l’universo sarebbe inutile; ma forse che vi si troverebbe o copia minore di felicità, o più di miseria, che oggi non vi si trova? Io dimando a te, o sole, autore del giorno e preside della vigilia: nello spazio dei secoli da te distinti e consumati fin qui sorgendo e cadendo, vedesti tu alcuna volta un solo infra i viventi essere beato? Delle opere innumerabili dei mortali da te vedute finora, pensi tu che pur una ottenesse l’intento suo, che fu la soddisfazione, o durevole o transitoria, di quella creatura che la produsse? Anzi vedi tu di presente o vedesti mai la felicità dentro ai confini del mondo? in qual campo soggiorna, in qual bosco, in qual montagna, in qual valle, in qual paese abitato o deserto, in qual pianeta dei tanti che le tue fiamme illustrano e scaldano? Forse si nasconde dal tuo cospetto, e siede nell’imo delle spelonche, o nel profondo della terra o del mare? Qual cosa animata ne partecipa; qual pianta o che altro che tu vivifichi; qual creatura provveduta o sfornita di virtù vegetative o animali? E tu medesimo, tu che quasi un gigante instancabile, velocemente, dì e notte, senza sonno né requie, corri lo smisurato cammino che ti è prescritto; sei tu beato o infelice?
Se non apparisse alcuna opera (attività, azione) sotto l’astro diurno (il sole), languendo (dal momento che languiscono, si esauriscono) tutti i viventi per la terra in profondissima quiete il mondo sarebbe inutile. Quindi senza la vita degli uomini e degli animali, l’universo intero rivela la propria inutilità.
Il gallo chiede conto di questo al Sole della presenza della felicità sotto la sua luce e chiede allo stesso Sole se lui è felice o infelice.
Mortali, destatevi. Non siete ancora liberi dalla vita. Verrà tempo, che niuna forza di fuori, niuno intrinseco movimento, vi riscoterà dalla quiete del sonno; ma in quella sempre e insaziabilmente riposerete. Per ora non vi è concessa la morte: solo di tratto in tratto vi è consentita per qualche spazio di tempo una somiglianza di quella. Perocché la vita non si potrebbe conservare se ella non fosse interrotta frequentemente. Troppo lungo difetto di questo sonno breve e caduco, è male per sé mortifero, e cagione di sonno eterno. Tal cosa è la vita, che a portarla, fa di bisogno ad ora ad ora, deponendola, ripigliare un poco di lena, e ristorarsi con un gusto e quasi una particella di morte.
La vita è vista come un male dal quale è bene “liberarsi”, fatto che avverrà inesorabilmente, perché verrà il momento in cui nessun movimento interno all’uomo, ossia né materiale, né sentimentale desterà la coscienza degli esseri viventi, lasciandoli in un sonno perpetuo. Il sonno stesso preannuncia la condizione di morte, perché poiché la vita (che nel discorso del gallo è male) non sarebbe sopportabile se non fosse interrotta molto spesso da stati di incoscienza, ossia dal sonno.
Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obbietto il morire. Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturirono le cose che sono. Certo l’ultima causa dell’essere non è la felicità; perocché niuna cosa è felice. Vero e che le creature animate si propongono questo fine in ciascuna opera loro; ma da niuna l’ottengono: e in tutta la loro vita, ingegnandosi, adoperandosi e penando sempre, non patiscono veramente per altro, e non si affaticano, se non per giungere a questo solo intento della natura, che è la morte.
L’unico scopo della vita è il morire: dal momento che ciò che non esisteva non poteva morire, ciò che esiste è nato dal nulla. In questo passaggio risiede l’approdo leopardiano al nichilismo. L’essere è visto negativamente e non ha altro fine se non il nulla. L’uomo, nonostante tutte le sue attività, esiste solamente per morire. Egli cerca invano la felicità, poiché il fine dell’essere non è nel soddisfacimento dei desideri dell’uomo, ma nella morte. L’errore è dunque nell’uomo, che si propone un fine diverso da quello che è il suo destino.
A ogni modo, il primo tempo del giorno suol essere ai viventi il più comportabile. Pochi in sullo svegliarsi ritrovano nella loro mente pensieri dilettosi e lieti; ma quasi tutti se ne producono e formano di presente: perocché gli animi in quell’ora, eziandio senza materia alcuna speciale e determinata, inclinano sopra tutto alla giocondità, o sono disposti più che negli altri tempi alla pazienza dei mali. Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, trovavasi occupato dalla disperazione; destandosi, accetta novamente nell’animo la speranza, quantunque ella in niun modo se gli convenga. Molti infortuni e travagli propri, molte cause di timore e di affanno, paiono in quel tempo minori assai, che non parvero la sera innanzi. Spesso ancora, le angosce del dì passato sono volte in dispregio, e quasi per poco in riso come effetto di errori, e d’immaginazioni vane. La sera è comparabile alla vecchiaia; per lo contrario, il principio del mattino somiglia alla giovanezza: questo per lo più racconsolato e confidente; la sera trista, scoraggiata e inchinevole a sperar male. Ma come la gioventù della vita intera, così quella che i mortali provano in ciascun giorno, è brevissima e fuggitiva; e prestamente anche il dì si riduce per loro in età provetta.
L’idea che Leopardi vuole comunicare è quella di una vita intesa come fatica (penando sempre), e dunque di una continua, estenuante battaglia placata di tanto in tanto dalla quiete del sonno. Infatti ’uomo si rende conto del trascorrere del tempo da vari segnali. Come già il precedente mortali riferito agli uomini, anche questo vivente ha un carattere impersonale, quasi ad assimilare l’umanità alle altre specie animali o vegetali.
Il fior degli anni, se bene e il meglio della vita, è cosa pur misera. Non per tanto, anche questo povero bene manca in sì piccolo tempo, che quando il vivente a più segni si avvede della declinazione del proprio essere, appena ne ha sperimentato la perfezione, né potuto sentire e conoscere pienamente le sue proprie forze, che già scemano. In qualunque genere di creature mortali, la massima parte del vivere è un appassire. Tanto in ogni opera sua la natura e intenta e indirizzata alla morte: poiché non per altra cagione la vecchiezza prevale sì manifestamente, e di sì gran lunga, nella vita e nel mondo. Ogni parte dell’universo si affretta infaticabilmente alla morte, con sollecitudine e celerità mirabile. Solo l’universo medesimo apparisce immune dallo scadere e languire: perocché se nell’autunno e nel verno si dimostra quasi infermo e vecchio, nondimeno sempre alla stagione nuova ringiovanisce. Ma siccome i mortali, se bene in sul primo tempo di ciascun giorno racquistano alcuna parte di giovanezza, pure invecchiano tutto dì, e finalmente si estinguono; così l’universo, benché nel principio degli anni ringiovanisca, nondimeno continuamente invecchia. Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi.
Ogni cosa finirà nel nulla; questo concetto è espresso dalla metafora impostata sul paragone luce-vita. All’idea di “spegnersi” è legata anche l’immagine della luce del sole, cui il gallo si era rivolto nelle righe precedenti e di cui l’animale stesso è simbolo. Le conquiste dell’uomo sono destinate all’oblio e come è accaduto in passato per i grandi regni e gli antichi imperi degli uomini e le loro rivoluzioni che destano meraviglia, che furono degni di fama ed oggi non ne resta nemmeno il ricordo.
Allo stesso modo lo stesso mistero (arcano), tale da destare stupore e smarrimento (mirabile e spaventoso), dell’esistenza universale, prima ancora di poter essere spiegato o compreso intimamente, svanirà e si perderà (perderassi) nel nulla. «Questa è conclusione poetica, non filosofica. Parlando filosoficamente, l’esistenza, che non è mai cominciata, non avrà mai fine» (Nota di Leopardi).
L’intero discorso del gallo, dunque, contiene una lunga metafora del cammino della vita umana. Il mattino è come la giovinezza dell’uomo, piena di speranze e attese che però non vengono soddisfatte nel corso della giornata (cioè, della vita), né tantomeno sul far della sera. Questa sovrapposizione tra la natura e l’uomo è però solo apparente: se la natura infatti potrà godere di una nuova rinascita a ogni successivo giorno, all’uomo questo non è concesso: la ciclicità del tempo della natura contrasta con la linearità del tempo dell’uomo. Questa idea era già stata espressa da Leopardi in vari testi poetici e in prosa, ma qui il poeta va oltre: egli ipotizza infatti che anche l’intero universo, nonostante la ripetitività di manifestazioni dalle quali è regolato, si diriga a poco a poco verso la propria estinzione, come i regni e gli imperi umani, e procede verso il Nulla, che dunque rappresenta il fine di tutte le cose (esso universo, e la natura medesima, sarà spenta). Il cantico del gallo termina dunque con il silenzio nudo cui si rivolge la vita dell’uomo e delle cose stesse, che si dilegueranno prima ancora di poter essere comprese fino in fondo. L’esistenza resta dunque per l’uomo un mistero mirabile e spaventoso.