Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
La ricerca del senso dell’esistenza
A differenza degli altri Grandi idilli centrati sul dialogo tra il poeta e il piccolo mondo di Recanati, questa lirica è ambientata in un luogo lontano e indefinito, e il suo protagonista è un anonimo pastore, portavoce degli stati d’animo di tedio e sgomento provati da ogni uomo di fronte alla vanità e all’incomprensibilità dell’esistenza.
Il canto, dunque, affida la responsabilità del discorso a un pastore nomade dell’Asia; tale idea fu suggerita a Leopardi da un resoconto di un viaggio nelle steppe dell’Asia centrale scritto dal barone von Meyendorff. In particolare l’articolo di riferiva all’attitudine poetica dei pastori poveri e analfabeti di queste regioni: “Parecchi di loro passano la notte seduti su un sasso a guardare la luna, e ad improvvisare parole molto tristi su certe arie che non lo sono di meno” Il riferimento a un canto lirico orale sgorgato spontaneamente da un popolo primitivo e ingenuo conferma a Leopardi la sua concezione di una lirica come genere poetico più d’ogni altro. Il personaggio del pastore errante, perciò, serve a universalizzare gli interrogativi e le conclusioni formulati dal poeta nei canti precedenti.
Gli interrogativi riguardano il senso dell’esistenza e la posizione dell’uomo all’interno dell’universo; e giungono qui a una radicalità inedita. Fallito il tentativo di entrare in comunicazione con la natura, simboleggiata dalla luna, al pastore non resta che avanzare ipotesi di senso, mettendole via via a confronto con i risultati sconfortanti delle proprie osservazioni dirette della realtà. Nessuna ipotesi di significato, però, regge di fronte alla verifica oggettiva. Al pastore restano così, infine, solo il conforto turbato delle proprie stesse interrogazioni e la minaccia dell’insensatezza e del dolore.
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore;
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
La ricerca di senso del pastore prende avvio dalla vita quotidiana del protagonista: la sveglia all’alba, il cammino al seguito del gregge durante la giornata, il riposo serale. Il semplice pastore ha un significato filosofico: è un personaggio ingenuo, primitivo, in costante contatto con la natura, eppure consapevole dell’infelicità universale non meno degli uomini civilizzati.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L’ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s’affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
È la vita mortale.
I rapporti tra la vita errabonda del pastore e il ciclico movimento degli atri e delle stagioni, che in un primo momento suggeriscono al pastore una somiglianza , poi si rivelano un rapporto di opposizione, infatti la figura della luna, sottolineata da una serie di epiteti che il pastore le rivolge, è tanto bella e vicina da invitare al colloquio e alla confessione intima, ma al tempo stesso è fredda e remota spettatrice, non toccta dalle miserie umane.
Il pastore, quindi, riepiloga la comune esperienza dell’esistenza umana, dapprima in una sorta di anticipazione delle conclusioni, l’insensatezza della vita è rappresentata attraverso la terribile raffigurazione allegorica del vecchierel che occupa la seconda strofa. La corsa affannosa e dolente dell’uomo si dimostra una crudele beffa del destino, rivelandosi infine indirizzata verso un abisso orrido e immenso (la morte) nel quale tutto finisce e viene dimenticato.
Nasce l’uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
L’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell’umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
Perché reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura
Perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
E` lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perché delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l’ardore, e che procacci
Il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell’innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D’ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell’esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors’altri; a me la vita è male.
Che la vita è male è evidente fin dalla nascita e si conferma con il passare del tempo, di fronte a un’esistenza segnata dal patir (v. 64) e destinata alla morte (vv. 61–68). La luna, insistentemente interrogata fin dall’inizio del canto, conosce il perché delle cose (v. 70), ma non lo rivela al pastore, costringendolo a continui interrogativi che rimangono senza risposta.
L’alternanza di endecasillabi e settenari crea delle variazioni di ritmo tra la prima parte — più mossa e incalzante — e la seconda — più rallentata e meditativa. Tutta la canzone presenta una grande varietà di scelte stilistiche, passando da momenti di calma descrizione (prima strofa) alla massima concitazione (seconda strofa), ottenuta con la sintassi ampia e distesa che enfatizza il senso di orrore e di vanità.
O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d’affanno
Quasi libera vai;
Ch’ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
Tu se’ queta e contenta;
E gran parte dell’anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
E un fastidio m’ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perché giacendo
A bell’agio, ozioso,
S’appaga ogni animale;
Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?
Il colloquio impossibile con la luna induce il pastore a cercare un nuovo interlocutore, la greggia, invidiandole la condizione libera dalla noia (il tedio nominato ai versi 112 e 132) in un tentativo di comparazione per somiglianza e contrasto tra la sorte degli uomini e quella degli animali.
Il pastore può essere assimilato solo al poeta, in quanto Leopardi vuole dimostrare che le domande sull’esistenza tormentano ogni essere dotato di ragione, in qualsiasi forma vengano espresse, e che il mistero dell’infelicità umana è destinato a rimanere senza risposta dia che venga indagato con gli strumenti della filosofia sia che venga espresso con le semplici parole di un pastore.
Un’alternativa all’insensata sofferenza umana è cercata sia verso l’alto sia verso il basso: nella luna, oppure nelle pecore. La condizione elevata dell’astro e quella umile del gregge rappresentano due possibilità di non dolore. La prima, quella della luna, consisterebbe nel perfetto sapere, cioè nella capacità di rispondere con pienezza all’umano bisogno di significato (tu forse intendi … Tu sai per certo … ma tu per certo/Giovinetta immortal conosci il tutto vv. 62–99). la seconda possibilità di non dolore, quella delle pecore, consisterebbe nell’assenza di bisogni, cioè nella pace che deriva dal semplice seguire l’istinto (vv. 105–132). Il pastore, tuttavia, non può aderire né al punto di vista superiore e distaccato della luna (vv. 100–104), né a quello infimo delle pecore (vv. 129–132). La sua esperienza non è infatti quella della luna né quella delle pecore, perché l’uomo non deve avere l’arroganza di presumere di vere già le risposte, ma neanche può negare l’esistenza degli interrogativi esistenziali.
Forse s’avess’io l’ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
È funesto a chi nasce il dì natale.
La conclusione segna un’ulteriore svolta pessimistica: forse non esistono forme di vita felici; in qualsiasi forma o condizione è funesto a chi nasce il dì natale (vv. 141–143). L’elemento comune è la noia, questo concetto ha grande importanza nel pensiero di Leopardi che lo definisce orrenda barbara malinconia e che afferma che tutto il resto è noia, intendendo che la noia è un elemento dinamico, infatti colpisce gli animi più elevati e profondi, che comprendono come tutta la realtà, per quanto immensa, è piccola rispetto al desiderio di infinito e di eternità presente nell’animo umano.
L’amara considerazione conclusiva è sottolineata dal periodare ampio che dilata lo spazio descrivibile dallo sguardo del soggetto contemplante, quasi mimando lo smarrimento davanti all’immensità priva di significato