Carlo Emilio Gadda

Lo gnommero, il pasticciaccio e la realtà

Luca Pirola
10 min readJan 27, 2018

L’ infanzia di Carlo Emilio Gadda è caratterizzata da una serie di eventi traumatici che faranno nascere in lui l’idea di un “male oscuro” di cui parlerà in “La cognizione del dolore”e in “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” considerati come i suoi capolavori. Partecipa alla prima guerra mondiale dal 1915 al 1917, esperienza da cui nascerà un diario pubblicato a posteriori.
Laureato in ingegneria, si impegna nello studio della filosofia senza conseguire la laurea; nonostante ciò, questi anni di studio saranno fondamentli per gli sviluppi del suo pensiero e la sua produzione letteraria, la quale verrà pubblicata dalla casa editrice Garzanti in 6 volumi.
Gadda è considerato un grande scrittore sperimentale e classico, per il suo immenso patrimonio culturale umanistico, scientifico, civile, grazie ai quali rinnova profondamente la narrativa italiana del XX secolo.

Ascoltando il video annota le risposte alle seguenti domande:
1. Chi è la vittima dell’omicidio?
2. Chi è Francesco Ingravallo?
3. Che cosa significa “gnommero”?
4. Perchè l’indagine è per Gadda un espediente?
5. Che cosa indica la parola “pasticciaccio”?
6. Qual è lo scopo principale di Gadda come autore del romanzo?
7. Quali critiche muove l’autore al fascismo?
8. Quale scopo ha la molteplicità dei linguaggi?
9. Come finisce la storia? Perché?

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“Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”

Il romanzo è ambientato nella Roma fascista del 1927.
Il commissario Don Francesco Ingravallo( Don Ciccio) è incaricato di svolgere un’inchiesta su un furto di gioielli. La vittima é la sig.ra Menegazzi, veneta di origine, vicina di casa dei coniugi Balducci, una coppia di amici di Ingravallo, tutti abitanti del palazzo n.219 di via Merulana. Dopo poco tempo, la signora Balducci viene trovata senza vita. Ingravallo allora, affianca le indagini del furto a quelle dell’omicidio, i quali come si scoprirà più avanti, avranno molto in comune. Attraverso gli interrogatori e i sospettati, Ingravallo si muove tra i diversi strati della società fascista e del suo pensiero.
Conduce il lettore attraverso una visione del mondo filosofica e pessimista, in cui l’omicidio di Liliana è il diretto risultato del “male endemico” che governa il mondo e l’Italia, il quale rende qualsiasi fatto un groviglio o meglio un pasticciaccio..

Ubiquo ai casi: don Ciccio Ingravallo (cap. 1)

Tutti oramai lo chiamavano don Ciccio. Era il dottor Francesco Ingravallo comandato alla mobile: uno dei più giovani e, non si sa perché, invidiati funzionari della sezione investigativa: ubiquo ai casi, onnipresente su gli affari tenebrosi. Di statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po’ tozzo, di capelli neri e folti e crespati che gli venivan fuori dalla metà della fronte quasi a riparargli i due bernoccoli metafisici dal bel sole d’Italia, aveva un’aria un po’ assonnata, un’andatura greve e dinoccolata, un fare un po’ tonto come di persona che combatte con una laboriosa digestione: vestito come il magro onorario statale gli permetteva di vestirsi, e con una o due macchioline d’olio sul bavero, quasi impercettibili però, quasi un ricordo della collina molisana. Una certa praticaccia del mondo, del nostro mondo “latino”, benché giovine (trentacinquenne), doveva di certo avercela: una certa conoscenza degli uomini: e anche delle donne.

Dietro a un incipit apparentemente neutra e poco significante, rintracciamo una serie di spunti assai utili. Quel “tutti” con cui si apre il romanzo rimanda a quanto sopra abbiamo detto circa la “comunità fabulante”. Il fatto che questa assegni un nomignolo al personaggio, costituisce una prima complicazione del reale, un piccolo garbuglio. Immediatamente il narratore sottolinea la conoscenza limitata (non si sa il perché) e la sua inattendibilità (forse)

Fin dalle prime frasi il lettore è posto di fronte alla costante oscillazione tra registri stilistici diversi, Gadda tiene in grande considerazione le espressioni auliche e rare: l’iperbole ubiquo è un latinismo è accompagnato all’espressione ironica dei due bernoccoli metafisici con cui si canzona la propensione meditativa del personaggio. Attraverso lo stridente accostamento di voci non congruenti, di termini aulici a prosaici, degli aspetti più “bassi” della realtà ad un “sublime” pieno di sofferenza e forza contraddittoria, Gadda caratterizza il suo pastiche letterario mediante un procedimento spesso finalizzato allo humour. L’aggettivo metafisici qui è di derivazione manzoniana, come manzoniano pare l’andamento complessivo di questa prima descrizione del commissario, che prosegue poi con pochi tratti, incentrati su dettagli minimi, che sono già sufficienti a delineare tutta la figura del commissario, attraverso un tono colloquiale.

La sua padrona di casa lo venerava, a non dire adorava: in ragione di e nonostante quell’arruffio strano di ogni trillo e d’ogni busta gialla imprevista, e di chiamate notturne e d’ore senza pace, che formavano il tormentato contesto del di lui tempo. “Non ha orario, non ha orario! Ieri mi è tornato che faceva giorno!” Era, per lei, lo “statale distintissimo” lungamente sognato, preceduto da cinque A sulla inserzione del Messaggero, evocato, pompato fuori dall’assortimento infinito degli statali con quell’esca della “bella assolata affittasi” e non ostante la perentoria intimazione inchiusura: “Escluse donne”: che nel gergo delle inserzioni del Messaggero offre, come noto, una duplice possibilità di interpretazione. E poi era riuscito a far chiudere un occhio alla questura su quella ridicola storia dell’ammenda… sì, della multa per la mancata richiesta della licenza di locazione… che se la dividevano a metà, la multa, tra governatorato e questura . “Una signora come me! Vedova del commendatore Antonimi! Che si può dire tutta Roma lo conosceva: e quanti lo conoscevano, lo portavano tutti in parma de mano, non dico perché fosse mio marito, bon’anima! E mo me prendono per un’affittacamere! Io affittacamere? Madonna santa, piuttosto me butto a fiume”.

Il paragrafo si apre con una digressione sulla padrona di casa, orgogliosa di avere come inquilino il commissario — Il passo — che termina con “fiume” è da sottolineare come primo esempio della narrativa digressiva di Gadda. Infatti la sequenza inizia in modo originale, perché ad espressioni e ad un lessico colloquiale viene accostato periodo dalla costruzione anomala e ricercata, secondo procedimenti frequenti in Gadda, assai distanti da un procedere piano e naturale: la complicazione del costrutto è anch’essa metafora dei garbugli in cui consiste il reale.

Il brano ha un andamento indiretto libero, in cui la voce del narratore si confonde con quella della signora. Nei brevi passi e nei singoli episodi del romanzo, ogni minimo oggetto è visto come il centro di una rete di relazioni che lo scrittore non sa trattenersi dal seguire, moltiplicando i dettagli in modo che le sue descrizioni e divagazioni diventano infinite e finiscono per sommergere l’indagine stessa. Il presente passo rende bene l’idea: il rapido accenno alla padrona di casa costituisce un immediato pretesto per divergere dalla linea centrale del brano — la descrizione del commissario — in modo da addentrarsi in dettagli e circostanze che si allargano a comprendere orizzonti via via sempre più vasti: l’inserzione sul Messaggero — e la correlata ambiguità del suo significato, che poteva alludere ad una casa di appuntamento — dunque l’esigenza della vedova di rimpiazzare il marito defunto; la mancata richiesta di locazione, la conseguente multa e la relativa intercessione del commissario; un accenno al compianto marito; l’impossibilità di accettare l’idea di essere diventata un’affittacamere; si noti in quest’ultima parte il ricorso al dialetto romanesco, che contribuisce a delineare efficacemente i tratti del personaggio, sia dal punto di vista individuale che sociale. Da notare che tutta la digressione è intessuta da una carica di humour irresistibile.

Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che pareva vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come pece e riccioluta come d’agnello d’Astrakan , nella sua saggezza interrompeva talora codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica idea sui casi degli uomini: e delle donne.

Le similitudini e le metafore correlate alla capigliatura di Ingravallo risultano efficacissime, svariando dal linguaggio popolare alla citazione colta. Il narratore cambia di tono, qui si corregge, è colloquiale, inizia a parteggiare per Ingravallo e non più a canzonarlo.

A prima vista, cioè al primo udirle, sembravano banalità. Non erano banalità. Così quei rapidi enunciati, che facevano sulla bocca il crepitio improvviso d’uno zolfanello illuminatore, rivivevano poi nei timpani della gente a distanza di ore, o di mesi, dalla enunciazione: come dopo un misterioso tempo incubatorio. “Già!” riconosceva l’interessato: “il dottor Ingravallo me l’aveva pur detto”. Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dir gomitolo.

Si trova qui una vera e propria dichiarazione di poetica, su cui a questo punto non occorre insistere: in accordo con Ingravallo, Gadda vede il mondo come un “sistema di sistemi”, in cui ogni singolo elemento condiziona gli altri e ne è condizionato. Per questo motivo ricorre alle immagini del garbuglio: la stessa espressione, giocata su un’infinita varietà di sinonimi, sembra già di per sé voler rispecchiare il caos a cui intende dare una definizione, mostrare l’impossibilità di trovare una formula adeguata per definire il reale e suggerire la simultaneità degli elementi più eterogenei che concorrono a determinare ogni evento. Ciò permette anche di rilevare la pregnanza del plurilinguismo ed espressionismo della scrittura di Gadda, ben lungi dal costituire un virtuosismo fine a se stesso.

Nel paragrafo successivo i termini giuridico — burocratici (“le causali, la causale”) introducono in modo incoerente una riflessione filosofica del commissario. Senza soluzione di continuità la focalizzazione muta per tornare a esprimere il giudizio del narratore esterno che riprende lo scetticismo iniziale riguardo al commissario (una fissazione, quasi), supportata da una descrizione dei gesti e della mimica di Ingravallo contraddistinta da un andamento naturalistico, che termina con la citazione delle frasi del personaggio.

Ma il termine giuridico “le causali, la causale” gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia. L’opinione che bisognasse “riformare in noi il senso della categoria di causa” quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi: che gli evaporava dalle labbra carnose, ma piuttosto bianche, dove un mozzicone di sigaretta spenta pareva, pencolando da un angolo, accompagnare la sonnolenza dello sguardo e il quasi-ghigno, tra amaro e scettico, a cui per “vecchia” abitudine soleva atteggiare la metà inferiore della faccia, sotto quel sonno della fronte e delle palpebre e quel nero pìceo della parrucca.

Così, proprio così, avveniva dei “suoi” delitti. “Quanno me chiammeno!… Già. Si me chiammeno a me… può stà sicure ch’è nu guaio: quacche gliuommero… de sberretà…” diceva, contaminando napoletano, molisano, e italiano.

Gadda qui rende esplicita la motivazione della scelta dialettale, che spesso connoterà il personaggio, anche e soprattutto grazie all’indiretto libero. Spia evidente del plurilinguismo che contribuisce alla generale deformazione linguistica. Più del molisano, un ruolo fondamentale nel romanzo è giocato dal romanesco.

La causale apparente, la causale principe, era sì, una. Ma il fattaccio era l’effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a mulinello e avevano finito per strizzare nel vortice del delitto la debilitata “ragione del mondo”. Come si storce il collo a un pollo . E poi si soleva dire, ma questo un po’ stancamente, “ch’i femmene se retroveno addó n’i vuó truvà”. Una tarda riedizione italica del vieto “cherchez la femme”. E poi pareva pentirsi, come d’aver calunniato ‘e femmene, e voler mutare idea. Ma allora si sarebbe andati nel difficile. Sicché taceva pensieroso, come temendo d’aver detto troppo. Voleva significare che un certo movente affettivo, un tanto o, direste oggi, un quanto di affettività, un certo “quanto di erotia”, si mescolava anche ai “casi di interesse”, ai delitti apparentemente più lontani dalle tempeste d’amore.

Prevalgono le immagini attinte da un linguaggio “tecnico” (depressione ciclonica, rosa dei venti, vortice), e suggerite dalla precedente similitudine della rosa dei venti; immediatamente sono seguite da metafore non ricercate, ma appartenenti ad un linguaggio popolare (come si storce il collo di un pollo) e dal francese cherchez la femme, alla lettera “cercate la donna”, espressione proverbiale francese che indica che le donne stanno dovunque, specie dietro i guai, i delitti: evidentemente lo scrittore sta seguendo da vicino le riflessioni del protagonista, senza elevarle di tono attraverso le digressioni filosofiche operate precedentemente. Il groviglio linguistico si complica con erotia, espressione appositamente creata dall’autore — che fa riferimento alla psicoanalisi, alla “medicina dei matti” come poco oltre dirà, che per prima aveva individuato nelle pulsioni sessuali le forze che muovono l’inconscio. Gadda vuole qui (e più oltre) ironizzare sui termini psicoanalitici che, come Azzeccagarbugli, gli ignoranti con uno sfoggio di scienza: in questo caso il latinorum di Ingravallo è la terminologia psicoanalitica.

Qualche collega un tantino invidioso delle sue trovate, qualche prete più edotto dei molti danni del secolo, alcuni subalterni, certi uscieri, i superiori, sostenevano che leggesse libri strani: da cui cavava tutte quelle parole che non voglion dir nulla, o quasi nulla, ma servono come non altre ad accileccare gli sprovveduti, gli ignari. Erano questioni un po’ da manicomio: una terminologia da medici dei matti. Per la pratica ci vuol altro! I fumi e le filosoficherie son da lasciare ai trattatisti: la pratica dei commissariati e della squadra mobile è tutt’un latro affare: ci vuole della gran pazienza, della gran carità: uno stomaco pur anche a posto: e, quando non traballi tutta la baracca dei taliani, senso di responsabilità e decisione sicura, moderazione civile; già: già: e polso fermo. Di queste obiezioni così giuste lui, don Ciccio, non se ne dava per inteso: seguitava a dormire in piedi, a filosofare a stomaco vuoto, e a fingere di fumare la sua mezza sigheretta, regolarmente spenta.

La descrizione si conclude con subalterni, certi uscieri, i superiori, la definizione di una delle “comunità fabulanti”, le vere protagoniste del romanzo, che si esprimono con il discorso indiretto libero (Erano questioni un po’ da manicomio: una terminologia da medici dei matti. Per la pratica ci vuol altro!) in cui risuonano gli echi delle parole del coro, con cui Gadda riporta direttamente le obiezioni operate dalla comunità costringendo il lettore a compiere una riflessione sull’attendibilità del narratore: qui assimila evidentemente il punto di vista della comunità e non quello di Ingravallo — oppure è un “giusto” (obiezioni così giuste) ironico?

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Luca Pirola
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Written by Luca Pirola

History and Italian literature teacher

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