Chi sono?

Aldo Palazzeschi, Poemi

Luca Pirola
3 min readFeb 12, 2024
Auguste Macke, Ballet russes, 1912

La lirica assolve al ruolo di poesia manifesto, Chi sono?, infatti Palazzeschi la pone in apertura della raccolta Poesie del 1909 per spiegare la sua idea di poetica. La lirica è composta appena prima dell’adesione dell’autore al futurismo, tuttavia, i versi prendono già le distanze dai modelli e dalle influenze derivanti dall’esperienza crepuscolare, da cui Palazzeschi deriva il tema malinconico di interrogarsi sulla propria identità, trattandolo però con ironia e un senso del grottesco teso alla dissacrazione. Alla desolazione dei crepuscolari Palazzeschi oppone la consapevolezza della propria perdita di ruolo storico e di identità, ma scherza malinconicamente sulla propria condanna alla marginalità.

Son forse un poeta?
No, certo.
Non scrive che una parola, ben strana,
la penna dell’anima mia:
“follia”.
Son dunque un pittore?
Neanche.
Non ha che un colore
la tavolozza dell’anima mia:
“malinconia”.
Un musico, allora?
Nemmeno.
Non c’è che una nota
nella tastiera dell’anima mia:
“nostalgia”.
Son dunque… che cosa?
Io metto una lente
davanti al mio cuore
per farlo vedere alla gente.
Chi sono?
Il saltimbanco dell’anima mia.

Domandandosi chi è il poeta, Palazzeschi rovescia il rito sacro della poesia, agendo anche sul piano stilistico e formale attraverso la apparente semplicità della lirica. Anche se non marcate esplicitamente, nel componimento sono presenti cinque strofe, formate da cinque versi ciascuna, tutte aperte da una domanda (Son forse poeta? v.1, Son dunque un pittore? v.6, Un musico, allora? v.11, Son dunque … che cosa? v.16 e Chi sono? v.20). Le prime tre domande, che occupano un verso e sono seguite dall’argomentazione, hanno risposta negativa. Solo a partire dalla qurta interrogativa (Son dunque … che cosa?) si apre l’autoritratto positivo del poeta che viene sigillato dalla sintetica, quasi epigrafica, definizione finale.

La struttura razionale del testo è confermata dalla ripetizione dell’espressione anima mia, collocata sempre nella stessa posizione (vv. 4, 9 e 14), che rima con follia (v.5), malinconia (v.10) e nostalgia (v.15), parole isolate in un unico verso, introdotte da formule parallele ed evidenziate dalle virgolette e dai due punti che le precedono. Il lessico predilige i termini quotidiani accompagnato da una sintassi scandita da frasi brevi.

La semplicità, tuttavia, è solo apparente: la condizione del poeta vi è sintetizzata, prima ancora che nell’immagine del saltimbanco, in tre parole rima: follia (v.5) malinconia (v.10) e nostalgia (v.15). Mettendo infine una lente davanti al suo cuore, il poeta fa spettacolo della sua anima e dei sentimenti che la abitano, pur proponendo la sua personale soluzione al problema del dolore: il ribaltamento nel riso attraverso il gioco e l’ironia (anche su se stesso). Al tempo stesso, se pure ha perduto il suo ruolo di guida, attraverso l’immagine del saltimbanco (v.21), figura libera e marginale, il poeta rivendica la propria irriducibile libertà inventiva. La dimensione clownesca del poeta-saltimbanco colloca definitivamente Palazzeschi in antitesi con il Superpoeta dannunziano e il disincanto ironico nei riguardi del modello del poeta vate si traduce in malinconico scherzo sulla propria marginalità. Infatti dietro la malinconica insignificanza del gioco bizzarro e l’infantile ingenuità si celano la libertà estrema e l’irriverente protesta del folle e del malinconico, che rifiutano e irridono le convenzioni della civiltà borghese. Le persone “normali”, integrate nel meccanismo sociale, non hanno più nulla da chiedere a questo buffo funambolo, condannato allo sradicamento; ma di questa dimensione di esclusione il poeta fa un punto di forza, per cantare la propria distanza dagli ipocriti conformismi dettati dal senso comune.

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