Cloridano e Medoro
Ludovico Ariosto, Orlando furioso, XVIII, 165–173 e 181–192
Nell’affrontare i temi epici dell’amicizia, della devozione, del desiderio di gloria spinti fino al disprezzo della morte, Ariosto rivela il suo interesse per l’epos classico. L’episodio, infatti, è chiaramente ispirato a quello di Eurialo e Niso narrato nel libro IX dell’Eneide, rispetto al quale Ariosto opera comunque dei cambiamenti: nel poema di Virgilio è Niso, il più anziano dei due, a proporre la sortita notturna e lo scopo è raggiungere Enea per informarlo del fatto che il campo troiano è sotto assedio; i due protagonisti sono guerrieri troiani compagni di Enea, mentre qui Cloridano e Medoro sono due fanti saraceni nemici dei cristiani; la conclusione del passo dell’Eneide era tragica per entrambi i protagonisti, mentre qui Medoro sopravvive e sarà soccorso da Angelica che si innamorerà di lui, originando indirettamente la follia di Orlando.
Dopo una sanguinosa battaglia il campo tra i due schieramenti è cosparso di cadaveri, tra cui quello del re moro Dardanelli D’Almonte, pianto a notte fonda da Medoro che, in compagnia dell’amico Cloridano, è di guardi agli alloggiamenti dei mori.
165
Duo Mori ivi fra gli altri si trovaro,
d’oscura stirpe nati in Tolomitta;
de’ quai l’istoria, per esempio raro
di vero amore, è degna esser descritta.
Cloridano e Medor si nominaro,
ch’alla fortuna prospera e alla afflitta
aveano sempre amato Dardinello,
ed or passato in Francia il mar con quello.
L’epidodio di Cloridano e Medoro, dichiara Ariosto, viene narrato per esempio raro di vero amore. Pare una digressione, una storia nella storia, è invece l’occasione per introdurre Medoro, un personaggio che avrà un ruolo cruciale nello svolgimento del poema.
166
Cloridan, cacciator tutta sua vita,
di robusta persona era ed isnella:
Medoro avea la guancia colorita
e bianca e grata ne la età novella;
e fra la gente a quella impresa uscita
non era faccia più gioconda e bella:
occhi avea neri, e chioma crespa d’oro:
angel parea di quei del sommo coro.
La descrizione fisica dei due giovani anticipa le differenze morali e caratteriali. Alla robusta persona […] et isnella che indica Cloridano, si affianca il ritratto di Medoro, che pare un angel. Su di lui Ariosto indugia maggiormente, con il polisindeto con cui descrive il volto (166, 2–3), gli occhi e i capelli (166, 7).
167
Erano questi duo sopra i ripari
con molti altri a guardar gli alloggiamenti,
quando la Notte fra distanze pari
mirava il ciel con gli occhi sonnolenti.
Medoro quivi in tutti i suoi parlari
non può far che ‘l signor suo non rammenti,
Dardinello d’Almonte, e che non piagna
che resti senza onor ne la campagna.168
Volto al compagno, disse: — O Cloridano,
io non ti posso dir quanto m’incresca
del mio signor, che sia rimaso al piano,
per lupi e corbi, ohimé! troppo degna esca.
Pensando come sempre mi fu umano,
mi par che quando ancor questa anima esca
in onor di sua fama, io non compensi
né sciolga verso lui gli oblighi immensi.
Medoro, deciso a recuperare il corpo del suo re per dargli onorata sepoltura, non dà ascolto a Cloridano, che tenta di dissuaderlo dall’impresa, ma alla fine si risolve a seguirlo nel campo dei cristiani, indifeso e immerso nel sonno.
169
Io voglio andar, perché non stia insepulto
in mezzo alla campagna, a ritrovarlo:
e forse Dio vorrà ch’io vada occulto
là dove tace il campo del re Carlo.
Tu rimarrai; che quando in ciel sia sculto
ch’io vi debba morir, potrai narrarlo:
che se Fortuna vieta sì bell’opra,
per fama almeno il mio buon cor si scuopra. -
Questo episodio svolge alcuni temi epici e patetici: la leale e generosa amicizia tra due giovani guerrieri saraceni (165, 3–4) e l’assoluta fedeltà e devozione nei confronti del proprio signore. I due temi riguardano i personaggi in modo asimmetrico, in quanto la devozione caratterizza soprattutto Medoro: è lui che soprattutto soffre per la sua mancata sepoltura, è lui che prende l’iniziativa dell’impresa. Medoro ha lo slancio idealistico e irrazionale proprio della giovinezza; lo spinge il desiderio di fama e gloria, non sopito dalla possibilità di trovare la morte, che è accettata come veicolo di notorietà (169, 5–8).
170
Stupisce Cloridan, che tanto core,
tanto amor, tanta fede abbia un fanciullo:
e cerca assai, perché gli porta amore,
di fargli quel pensiero irrito e nullo;
ma non gli val, perch’un sì gran dolore
non riceve conforto né trastullo.
Medoro era disposto o di morire,
o ne la tomba il suo signor coprire.171
Veduto che nol piega e che nol muove,
Cloridan gli risponde: — E verrò anch’io,
anch’io vuo’ pormi a sì lodevol pruove,
anch’io famosa morte amo e disio.
Qual cosa sarà mai che più mi giove,
s’io resto senza te, Medoro mio?
Morir teco con l’arme è meglio molto,
che poi di duol, s’avvien che mi sii tolto. -
Cloridano, viceversa, stupito del coraggio, dell’amore e della fedeltà del giovanissimo amico, cerca di distorglielo dall’impresa che giudica folle, oltre che rischiosa. A convincere Cloridano sono l’amicizia e l’amore per Medoro, senza cui non pensa di sopravvivere. Al contrario Medoro, anche se non mette in discussione la sua amicizia per Cloridano, non ne parla.
Prudenza e realismo, dunque, connotano Cloridano.
Entrambi i personaggi sono accomunati dal desiderio della “bella morte”, una morte gloriosa che consacri eternamente il loro valore e coraggio. Il concetto è formulato esplicitamente prima da Medoro, poi da Cloridano. Amicizia, fedeltà, devozione e brama di gloria, perseguite con costanza e fermezza a dispetto della morte stessa, sono tutti temi che appartengono allo spirito epico.
172
Così disposti, messero in quel loco
le successive guardie, e se ne vanno.
Lascian fosse e steccati, e dopo poco
tra’ nostri son, che senza cura stanno.
Il campo dorme, e tutto è spento il fuoco,
perché dei Saracin poca tema hanno.
Tra l’arme e’ carriaggi stan roversi,
nel vin, nel sonno insino agli occhi immersi.173
Fermossi alquanto Cloridano, e disse:
- Non son mai da lasciar l’occasioni.
Di questo stuol che ‘l mio signor trafisse,
non debbo far, Medoro, occisioni?
Tu, perché sopra alcun non ci venisse,
gli occhi e l’orecchi in ogni parte poni;
ch’io m’offerisco farti con la spada
tra gli nimici spaziosa strada. -
La rima occasioni/occisioni sintetizza l’orrore fatale della carneficina che sta per consumarsi nel campo immerso nel sonno e nelle tenebre. “Occasione” è un termine chiave per Cloridano, uomo pragmatico, che sa plasmare la propria azione in rapporto alle circostanze.
L’imitazione virgiliana è invece stretta quando i due Mori si inoltrano nel campo cristiano e fanno strage dei nemici (ottave 173–181), come fanno Eurialo e Niso tra le file dei Latini, inoltre anche qui Cloridano-Niso fugge dai nemici credendo di avere accanto Medoro-Eurialo, che invece è rimasto indietro (nell’Eneide il giovane troiano era impacciato dal peso dei trofei saccheggiati ai nemici, qui Medoro regge sulle spalle il corpo di Dardinello). Quasi identica è poi la sequenza in cui Cloridano trafigge con le frecce i nemici, per poi gettarsi nella mischia quando crede che Medoro sia morto (nel poema latino Niso raggiunge Volcente, il capo dei nemici che ha ucciso Eurialo, uccidendolo a sua volta). Come nel passo di Virgilio vi è una celebrazione del coraggio e del valore dei due guerrieri pagani, oltre che della fedeltà estrema che i due (soprattutto Medoro) dimostrano per il loro defunto re, mentre nell’Eneide vi era anche la condanna della guerra come atto insensato che causa il sacrificio di giovani vite, uno dei temi portanti del poema latino.
Tra i cadaveri i due giovani disperano di trovare il corpo per loro re, quando la Luna, in risposta alle preghiere di Medoro, illumina le spoglie di Dardanelli; caricato il cadavere sulle spalle, i due mori vengono sorpresi, sul fare del giorno, dalle truppe del principe cristiano Zerbino che tornano al campo; una fitta selva nelle vicinanze del campo appare l’unica via di salvezza.
181
Gl’insidiosi ferri eran vicini
ai padiglioni che tiraro in volta
al padiglion di Carlo i paladini,
facendo ognun la guardia la sua volta;
quando da l’empia strage i Saracini
trasson le spade, e diero a tempo volta;
ch’impossibil lor par, tra sì gran torma,
che non s’abbia a trovar un che non dorma.182
E ben che possan gir di preda carchi,
salvin pur sé, che fanno assai guadagno.
Ove più creda aver sicuri i varchi
va Cloridano, e dietro ha il suo compagno.
Vengon nel campo, ove fra spade ed archi
e scudi e lance in un vermiglio stagno
giaccion poveri e ricchi, e re e vassalli,
e sozzopra con gli uomini i cavalli.183
Quivi dei corpi l’orrida mistura,
che piena avea la gran campagna intorno,
potea far vaneggiar la fedel cura
dei duo compagni insino al far del giorno,
se non traea fuor d’una nube oscura,
a’ prieghi di Medor, la Luna il corno.
Medoro in ciel divotamente fisse
verso la Luna gli occhi, e così disse:184
- O santa dea, che dagli antiqui nostri
debitamente sei detta triforme;
ch’in cielo, in terra e ne l’inferno mostri
l’alta bellezza tua sotto più forme,
e ne le selve, di fere e di mostri
vai cacciatrice seguitando l’orme;
mostrami ove ‘l mio re giaccia fra tanti,
che vivendo imitò tuoi studi santi. -
La preghiera alla Luna aggiunge a Medoro un carattere insolito: dimostra che il giovane è colto e poetico, tratti insoliti per un guerriero. Egli dimostra di conoscere la natura “triforme” della Luna, venerata nel mondo classico, in cielo come Lun, in terra come Artemide-Diana e negli inferi come Ecate.
Ariosto non ama portare il pathos all’estremo limite, perciò introduce elementi ironici che abbassano lo stile e ricordino al lettore che, in fondo, si tratta solo di una bella storia. L’autore, fedele all’ideale di equilibrio e dominio delle passioni, non si vuole dimostrare troppo emotivamente coinvolto, per questo sceglie un tono medio di commento ironico e disincantato ai personaggi della storia.
La ripresa della narrazione dopo il racconto della strage dei Franchi addormentati è segnata dall’orrore e dal pathos, in quanto le ottave descrivono il campo di battaglia cosparso di cadaveri, il tono tragico è rafforzato dalla invocazione di Medoro alla luna (184). Subito nell’ottava successiva interviene una smorzatura del tono grazie all’inserimento di un inciso ironico e malizioso del narratore (185, 2), che pone in dubbio che fosse la fede di Medoro a intenerire la luna, come pensa il giovane guerriero.
185
La luna a quel pregar la nube aperse
(o fosse caso o pur la tanta fede),
bella come fu allor ch’ella s’offerse,
e nuda in braccio a Endimion si diede.
Con Parigi a quel lume si scoperse
l’un campo e l’altro; e ‘l monte e ‘l pian si vede:
si videro i duo colli di lontano,
Martire a destra, e Lerì all’altra mano,
Il ritrovamento notturno del cadavere, favorito dalla luce lunare, ricalca il libro X della Tebaide di Stazio, che ha a sua volta l’Eneide di Virgilio come punto di riferimento. Ariosto rielabora creativamente la materia, in quanto la descrizione del taglio di luce che si posa sul corpo del re conferisce al testo una visibilità e una concretezza quasi pittoriche, che costituiscono l’elemento di maggior fascino del canto.
186
Rifulse lo splendor molto più chiaro
ove d’Almonte giacea morto il figlio.
Medoro andò, piangendo, al signor caro;
che conobbe il quartier bianco e vermiglio:
e tutto ‘l viso gli bagnò d’amaro
pianto, che n’avea un rio sotto ogni ciglio,
in sì dolci atti, in sì dolci lamenti,
che potea ad ascoltar fermare i venti.187
Ma con sommessa voce e a pena udita;
non che riguardi a non si far sentire,
perch’abbia alcun pensier de la sua vita,
più tosto l’odia, e ne vorrebbe uscire:
ma per timor che non gli sia impedita
l’opera pia che quivi il fe’ venire.
Fu il morto re sugli omeri sospeso
di tramendui, tra lor partendo il peso.188
Vanno affrettando i passi quanto ponno,
sotto l’amata soma che gl’ingombra.
E già venìa chi de la luce è donno
le stelle a tor del ciel, di terra l’ombra;
quando Zerbino, a cui del petto il sonno
l’alta virtude, ove è bisogno, sgombra,
cacciato avendo tutta notte i Mori,
al campo si traea nei primi albori.189
E seco alquanti cavallieri avea,
che videro da lunge i dui compagni.
Ciascuno a quella parte si traea,
sperandovi trovar prede e guadagni.
- Frate, bisogna (Cloridan dicea)
gittar la soma, e dare opra ai calcagni;
che sarebbe pensier non troppo accorto,
perder duo vivi per salvar un morto. -190
E gittò il carco, perché si pensava
che ‘l suo Medoro il simil far dovesse:
ma quel meschin, che ‘l suo signor più amava,
sopra le spalle sue tutto lo resse.
L’altro con molta fretta se n’andava,
come l’amico a paro o dietro avesse:
se sapea di lasciarlo a quella sorte,
mille aspettate avria, non ch’una morte.
La separazione tra i due guerrieri è un calco virgiliano: mentre Niso si dilegua velocemente nei boschi, Eurialo arranca rallentato dalla “preda onerosa” che lo “impaccia” (Eneide, IX, 384–385); tuttavia, come Niso nel racconto latino, Cloridano non si accorge dell’attardarsi del compagno, finché non si trovano presi in trappola dai cavalieri nemici (Eneide, IX, 379–380).
191
Quei cavallier, con animo disposto
che questi a render s’abbino o a morire,
chi qua chi là si spargono, ed han tosto
preso ogni passo onde si possa uscire.
Da loro il capitan poco discosto,
più degli altri è sollicito a seguire;
ch’in tal guisa vedendoli temere,
certo è che sian de le nimiche schiere.192
Era a quel tempo ivi una selva antica,
d’ombrose piante spessa e di virgulti,
che, come labirinto, entro s’intrica
di stretti calli e sol da bestie culti.
Speran d’averla i duo pagan sì amica,
ch’abbi a tenerli entro a’ suoi rami occulti.
Ma chi del canto mio piglia diletto,
un’altra volta ad ascoltarlo aspetto.
La novità della rielaborazione ariostesca consiste nella diversa sorte dei due amici: laddove Eurialo e Niso muoiono al termine della loro impresa, ne Furioso solo Cloridano perirà, Medoro, creduto morto, si salverà e diventerà il protagonista del più clamoroso colpo di scena dell’intero poema. In lui si imbatte Angelica, che curandolo e accudendolo se ne innamora.