Dante, Inferno, gli ignavi

canto III

Luca Pirola
12 min readNov 2, 2021
Gustave Doré, Caronte e gli ignavi

Luogo: antinferno, fiume Acheronte
Custode: Caronte
Peccatori: ignavi
Pena: Gli ignavi sono punti a sangue da mosconi e vespe, seguendo in folla un’insegna che si muove velocemente in giro
Contrappasso: a) per contrasto non seguirono alcun ideale, ora seguono un’insegna indistinta; non sentivano alcuno stimolo nobile, ora sono stimolati da insetti molesti.
b) per analogia evitarono scelte per paura di mettersi in mostra, ora sono in folla anonima disdegnata e dimenticata.

Prima sequenza: La porta infernale (vv. 1–21)

Dopo i primi due canti introduttivi comincia l’azione vera e propria: Dante si ritrova all’entrata dell’Inferno. Egli immagina questo accesso come una porta sempre aperta, poiché la via al peccato è larga e comoda nonostante la dannazione eterna a cui conduce. La porta è uno strumento concreto e simbolico di entrata in uno spazio diverso dalla realtà terrena.

’Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l’etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente. 3

Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapïenza e ’l primo amore. 6

Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate’. 9

L’inizio drammatico ex abrupto segna quasi l’urto con la realtà infernale. Viene presentata l’essenza terribile e sconvolgente dell’Inferno per mezzo dell’epigrafe che Dante legge sulla porta di ingresso. L’iscrizione della porta, di tono biblico, è vistosamente costruita secondo gli schemi dell’arte retorica grazie alla triplice anafora iniziale (per me, vv. 1–3), che ribadisce l’inesorabilità della condanna per chi entra nell’Inferno; l’iterazione dolente — dolore (vv.1–2) insiste sulla natura dell’Inferno come luogo di sofferenza; il chiasmo (non etterne, e io etterno duro, v. 8) sancisce l’eternità della pena. L’effetto creato è di sgomento, sensazione che intimorisce il lettore di fronte alla potenza della giustizia divina, che ha creato il Paradiso come massima remunerazione per i suoi fedeli e l’Inferno per coloro che non hanno voluto accogliere il suo messaggio d’amore. L’inferno dantesco non è un accidentale regno di dolore e pena, ma una costruzione saggiamente ordinata da un’infinita sapienza, che è definita dai vv. 5–6 che sintetizzano gli attributi della Trinità: al Padre la potenza creatrice e ordinatrice dell’universo. al Figlio la sapienza, allo Spirito l’amore tra Padre e Figlio fatto persona. L’espressione perduta gente (v. 3) indica i dannati che hanno perduto per sempre la Grazia divina; nell’eternità di disperazione che l’iscrizione annuncia (v.8) c’è l’essenza della condizione infernale, come espresso dal finale lasciate ogne speranza voi ch’entrate (v. 9) che rammenta la durate eterna dell’Inferno.

Queste parole di colore oscuro
vid’ïo scritte al sommo d’una porta;
per ch’io: “Maestro, il senso lor m’è duro”. 12

Le parole sono definite di colore oscuro (v.10) perché — secondo alcuni — sono scritte con caratteri neri, o perché — secondo altri — difficili da capire e di dubbia comprensione. Dante dice che il loro significato è duro (v. 12) che significa letteralmente difficile da comprendere, ma sottolinea anche lo smarrimento e la paura che le parole lette suscitano in lui, quindi l’aggettivo significa anche minaccioso, oscuro.

Ed elli a me, come persona accorta:
“Qui si convien lasciare ogne sospetto;
ogne viltà convien che qui sia morta. 15

Noi siam venuti al loco ov’i’ t’ ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c’ hanno perduto il ben de l’intelletto”. 18

E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond’io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose. 21

Virgilio, guida esperta (accorta), non esita a spronare con amabile rimprovero il suo discepolo, rammentandogli che il viaggio appena iniziato esige grande coraggio e decisione. Egli informa che sono giunti all’entrata dell’Inferno, dove hanno sede le anime dannate, che hanno perduto la verità di Dio (ben de l’intelletto v. 18). Alle parole fa seguire dei gesti premurosi descritti con realistica drammaticità.

Seconda sequenza: gli ignavi (vv. 22–69)

Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l’aere sanza stelle,
per ch’io al cominciar ne lagrimai. 24

Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle 27

facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira. 30

Il primo impatto, la prima percezione dell’ambiente infernale è costituito da dati acustici di espressione di dolore (vv. 22–23 e 25–26), che compensano la mancanza di dati visivi e cromatici di un luogo di tenebra fisica e spirituale. Infatti l’Inferno è il luogo del peccato, quindi immerso nell’oscurità (sanza stelle v. 23) per sempre (senza tempo tinta v. 29). L’opposizione luce/buio, giorno/notte è simbolica della presenza/assenza della grazia divina e indica la dramamtica lotta tra bene e male. Sospiri, pianti e guai (v.22) formano un climax ascendente che intensifica l’effetto terrificante. Altro climax si trova nei versi 25–27 Diverse … fioche. La similitudine con l’immagine della tormenta di sabbia (v. 30) è evocata come causa di timore e panico.

E io ch’avea d’error la testa cinta,
dissi: “Maestro, che è quel ch’i’ odo?
e che gent’è che par nel duol sì vinta?”. 33

Ed elli a me: “Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza ’nfamia e sanza lodo. 36

Dante si trova davanti alla prima schiera di dannati e al primo esempio di pene corporali inflitte come punizione. Gli ignavi, cioè coloro che si sono preoccupati sol odi evitare responsabilità senza mai prendere parte attiva agli avvenimenti sono qui puniti insieme agli angeli che non parteciparono alla lotta tra l’arcangelo Michele e Lucifero, tra i fedeli a Dio e i ribelli. La punizione degli ignavi, che non hanno peccato, ma non hanno fatto nulla di positivo, è dovuta al loro rifiuto verso un’azione caritatevole verso il prossimo. Dante, mentre afferma che l’inferno li respinge, assegna loro una pena che li fa invidiosi d’ogne altra sorte (v. 48), e che nella loro caratterizzazione , nel tono con cui ne parla, inserisce un elemento di personale disprezzo, che è rivelatore del suo animo energico, risoluto, incapace di comprendere chi rifiuta la responsabilità di una scelta, l’attività di un impegno.

Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro. 39

Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli”. 42

Le schiere di angeli rimasti estranei alla lotta sono menzionate nei vangeli apocrifi, leggende e tradizioni popolari che Dante sa accogliere nella sua poesia. La loro cacciata dal Paradiso è stata necessaria perché la perfezione dei cieli sarebbe stata sminuita dalla loro presenza. D’altronde i dannati potrebbe trovare quasi motivo d’orgoglio e compiacimento nel ritrovarsi insieme a peccatori così spregevoli; di fronte a loro potrebbero infatti gloriarsi di aver saputo almeno “agire”, anche se nel male.

E io: “Maestro, che è tanto greve
a lor che lamentar li fa sì forte?”.
Rispuose: “Dicerolti molto breve. 45

Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ’nvidïosi son d’ogne altra sorte. 48

Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. 51

Gli ignavi sono posti quasi più in basso dell’infimo grado di peccatori che per lo meno furono nemici e agirono umanamente, in bene o in male; ma essi non fur mai vivi perché non hanno fatto alcun uso della capacità di decidere e agire secondo ragione e volontà. Di essi non rimane alcun ricordo né buono né cattivo, nel mondo dei viventi (v. 49): questo è un ulteriore aggravio della loro pena, visto il bruciante desiderio di tutte le anime dannate di sopravvivere almento nella memoria del mondo terreno. Questi peccatori — come tutti i dannati — non possono sperare nell’annientamento totale (v. 46), anche quello dello spirito, nella seconda morte che ognuno invoca per sé, invano, per porre termine alle sofferenze.

É concisa la conclusione del discorso di Virgilio, quasi pentito di aver concesso fin troppo tempo a persone così spregevoli, immeritevoli di attenzione e memoria.

E io, che riguardai, vidi una ’nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d’ogne posa mi parea indegna; 54

e dietro le venìa sì lunga tratta
di gente, ch’i’ non averei creduto
che morte tanta n’avesse disfatta. 57

L’insegna che gli ignavi devono seguire è generica, tanto che non è possibile distinguere alcun suo significato; la colpa degli ignavi è esemplarmente punita da questo tardivo e inutile seguire, senza posa, uno stendardo privo di senso e di valore.
Dante è dolorosamente colpito non dalla pena, ma dal grande numero di ignavi puniti nell’Antinferno. Fin da questo momento, egli manifesta la sua visione pessimistica della natura umana, fragile e peccatrice.

Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto. 60

Incontanente intesi e certo fui
che questa era la setta d’i cattivi,
a Dio spiacenti e a’ nemici sui. 63

Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch’eran ivi. 66

Elle rigavan lor di sangue il volto,
che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi
da fastidiosi vermi era ricolto. 69

La pena degli ignavi è di non essere mai vissuti per un ideale, di esser sempre rimasti inerti e indifferenti, perciò Dante dice che non fur mai vivi (v.64). Gli insetti che li pungono acuiscono la pena, questi insetti nascono dai rifiuti e dalla putrefazione, perciò tormentano questi dannati.

Terza sequenza: Caronte (vv. 70–99)

E poi ch’a riguardar oltre mi diedi,
vidi genti a la riva d’un gran fiume;
per ch’io dissi: “Maestro, or mi concedi 72

ch’i’ sappia quali sono, e qual costume
le fa di trapassar parer sì pronte,
com’i’ discerno per lo fioco lume”. 75

Dante giunge sulle rive del gran fiume (v. 71), l’Acheronte che secondo la tradizione pagana segnava il confine con l’oltretomba. Gli altri fiumi dell’Inferno dantesco sono lo Stile, il Flegetonte e il Cocito.

Ed elli a me: “Le cose ti fier conte
quando noi fermerem li nostri passi
su la trista riviera d’Acheronte”. 78

Allor con li occhi vergognosi e bassi,
temendo no ’l mio dir li fosse grave,
infino al fiume del parlar mi trassi. 81

Virigilio rimanda la risposta e, in modo piuttosto brusco, consiglia a Dante di attendere. Di questo comportamento anomalo si sono cercate varie spiegazioni: si è visto un rimbotto per la curiosità eccessiva e indebita, oppure un rimprovero a Dante, in questo caso cattivo lettore dell’Eneide, per la scarsa prontezza nel rammentare l’identico e terrificante spettacolo descritto da Virgilo nel libro VI del suo poema; o infine un semplice espediente retorico per preparare la comparsa di un nuovo personaggio: Caronte.

La figura di Caronte, pur desunta dall’Eneide, acquista un rilievo e un tono dantesco: di fronte al quadro virgiliano, compiuto e particolareggiato, ma fermo ed esteriore, abbiamo una tendenza alla drammaticità con l’irrompere violento di una figura demoniaca, minacciosa, che si staglia su una folla di anime prave, con funzione attiva di punitore e demone, di partecipe alla pena (come dimostra il livore cruccioso verso Dante e nell’ammutolire di fronte al ricordo dell’onnipotenza di Dio).

Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: “Guai a voi, anime prave! 84

Non isperate mai veder lo cielo:
i’ vegno per menarvi a l’altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo. 87

E tu che se’ costì, anima viva,
pàrtiti da cotesti che son morti”.
Ma poi che vide ch’io non mi partiva, 90

disse: “Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
più lieve legno convien che ti porti”. 93

Caronte, il traghettatore delle anime, è il primo demone infernale detto di antico pelo con un’ipallage (vecchio è il pelo, invece che Caronte): egli preannuncia le pene (caldo e gelo v. 87) le punizioni che dovranno subire senza mostrare alcuna pietà. Egli rifiuta di trasportare Dante perché è anima viva (v.88) e — soprattutto — ha la vita della Grazia; tutte le anime dei tre regni si meraviglieranno di questa situazione eccezionale di vivo tra i morti, uomo tra ombre, anima salva tra i condannati alla perdizione. Caronte, con le sue rudi parole, preannuncia il destino di salvezza di Dante: dopo la morte egli compirà un viaggio diverso e con diversa destinazione rispetto ai dannati, quello sul vascello (lieve legno v. 93) che conduce le anime in Purgatorio.

E ’l duca lui: “Caron, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare”. 96

Virgilio ricorda a Caronte la volontà di Dio — cui deve obbedire qualunque essere e realtà dell’universo — con una formula usuale. Il tono della frase è di comando e, grazie al ripetuto dittongo -uo, si ha un evidente risultato sentenzioso, cui anche le potenze infernali devono inchinarsi: qui accade con Caronte, e poi accadrà con Minosse (V, 22–24) e Pluto (VII, 11–12), con l’effetto di rimuovere gli ostacoli al procedere dei pellegrini. Si ribadisce con questa frase che in Paradiso (colà v.95) non c’è limite alla volontà, dal momento che è spinta solo da buone intenzioni e si muove sempre all’unisono con la volontà divina.

Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude,
che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote. 99

Quarta sequenza: La folla delle anime (vv. 100–136)

I dannati stanno sulle rive dell’Acheronte in attesa del traghetto infernale, coscienti della sentenza di condanna e perciò ansiosi, non senza terribile presagi, di entrare nel luogo di punizione assegnato dalla giustizia divina che essi continuano a bestemmiare. La perdita definitiva della speranza del cielo, la convinzione di avere, senza possibilità di rimedio, fallito lo scopo dell’esistenza, determina in essi l’odio per l’esistenza stessa e per quelli che ne sono stati i dispensatori.

Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude,
cangiar colore e dibattero i denti,
ratto che ’nteser le parole crude. 102

Bestemmiavano Dio e lor parenti,
l’umana spezie e ’l loco e ’l tempo e ’l seme
di lor semenza e di lor nascimenti. 105

Poi si ritrasser tutte quante insieme,
forte piangendo, a la riva malvagia
ch’attende ciascun uom che Dio non teme. 108

Drammaticamente efficace la sequenza psicologica della presa di coscienza da parte delle anime di ciò che è dannazione nei successivi sentimenti di spavento, di sterile bestemmia contro il seme di lor semenza (cioè i fondatori della loro stirpe, vv. 104/105), di pianto rassegnato.
I dannati, con la forza che proviene dalla disperazione, in atteggiamento di titanica sfida, bestemmiano la bontà divina da loro misconosciuta; maledicono chi diede loro la vita che, vanamente spesa, è e sarà per sempre morte senza speranza; l’amore di Dio e l’amore umano, i due principi che reggono il mondo, diventano per essi sorgente di inesauribile odio.

Caron dimonio, con occhi di bragia
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s’adagia. 111

Caronte, figura della mitologia pagana, è chiamato con un appellativo prettamente cristiano; per Dante, e per i teologi medievali, le creature mostruose della mitologia altro non erano che incarnazioni demoniache, vere e proprie presenze del male ancora operanti nel mondo. I suoi occhi di bragia ne costituiscono il dettaglio più caratteristico, connotandone fortemente la natura violenta.

Come d’autunno si levan le foglie
l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie, 114

similemente il mal seme d’Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo. 117

Così sen vanno su per l’onda bruna,
e avanti che sien di là discese,
anche di qua nuova schiera s’auna. 120

I peccatori, il mal seme d’Adamo (v.115)sono paragonati alle foglie autunnali. L’immagine è ripresa dal canto VI dell’Eneide, in cui Virgilio descrive la medesima situazione, le anime dei morti di fronte a Caronte, tuttavia il poeta latino sottolinea soprattutto la quantità delle anime, mentre Dante insiste sul modo in cui le anime entrano nella barca.
La descrizione si conclude con un’altra schiera di dannati che si avvicina a Caronte: Dante con disposizione d’animo quasi apocalittica, insiste sulla massa innumerevole e pressante di persone che, morendo in peccato, sono dannate all’inferno.

“Figliuol mio”, disse ‘l maestro cortese,
“quelli che muoion ne l’ira di Dio
tutti convegnon qui d’ogne paese; 123

e pronti sono a trapassar lo rio,
ché la divina giustizia li sprona,
sì che la tema si volve in disio. 126

Quinci non passa mai anima buona;
e però, se Caron di te si lagna,
ben puoi sapere omai che ’l suo dir suona”. 129

Il tono familiare delle parole di Virgilio giustifica il seguente cortese (v.121), epiteto riferito al maestro che adesso si accinge a rispondere alle domande rivoltegli da Dabte ai vv. 72–75. Virglio spiega che le anime, consapevoli ormai della terribile sentenza senza appello, sospirano l’abbreviazione dell’attesa e desiderano si realizzi al più presto, seppure piene di terrore, la condanna a cui sono destinate.

Finito questo, la buia campagna
tremò sì forte, che de lo spavento
la mente di sudore ancor mi bagna. 132

La terra lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento; 135

e caddi come l’uom cui sonno piglia.

Al termine del discorso chiarificatore di Virgilio, un terremoto improvviso, seguito da un accecante bagliore, scuote la pianura in cui scorre l’Acheronte.
La terra che trema è detta lagrimosa (v. 133) per le lacrime dei dannati, essa è scossa da un vento sotterraneo, poiché Dante descrive così la causa dei terremoti, originati da vapori sotterranei.

La perdita dei sensi e il sonno sono artifici con cui Dante risolve le transizioni narrative per alleggerire il racconto. Il finale violento e improvviso si riallaccia strutturalmente alla tecnica dell’inizio e crea una drammatica e tesa aspettazione del canto seguente.

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Luca Pirola
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Written by Luca Pirola

History and Italian literature teacher

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