Dante, Paolo e Francesca

Inferno, canto V

Luca Pirola
12 min readNov 5, 2021
Gustave Dorè, Paolo e Francesca e i lussuriosi

Tempo: venerdì 25 marzo 1300, sera

Luogo: cerchio 3°, lussuriosi; una landa desolata battuta da un forte vento.

Peccatori: lussuriosi. Sono peccatori che hanno ricercato le soddisfazioni sensuali oltre ogni regola, abbandonandosi smodatamente alle passioni, tanto da sottomettere la ragione e il talento.

Pena: i peccatori sono colpiti da un vento furioso che non si acquieta, non conosce sosta e li sospinge trascinandoli rovinosamente per tutto il girone.

Contrappasso: queste anime in vita si sono lasciate portare dalla tempesta delle passioni, ora subiscono le offese di questa eterna tempesta infernale.

Custode: Minosse, mitico re di Creta, figlio di Giove e di Europa; giudice delle ombre già nella tradizione classica, per Dante è un demonio grottesco e grandioso.

Prima sequenza: discesa nel secondo cerchio e incontro con Minosse (vv.1–24)

Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia
e tanto più dolor, che punge a guaio. 3

Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia. 6

Dico che quando l’anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata 9

vede qual loco d’inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa. 12

Appena scesi nel secondo cerchio, più stretto del precedente, sono fermati da Minosse, il grottesco giudice infernale, la struttura a cono rovesciato dell’Inferno implica che, man mano che si discende, lo spazio dei gironi sia sempre più angusto; la pena invece aumenta, perché ci si allontana da Dio.

Minosse invia le anime dannate alla pena assegnata avvolgendo la coda su se stesso: il numero dei giri indica il cerchio in cui l’anima, mal nata (v. 7) sconterà per sempre la sua pena. Minosse ha l’aspetto di un cane furente, divorato dalla rabbia.
I dannati confessano le proprie colpe (v. 8), perché nessuno può ingannare la propria coscienza, infatti Minosse è allegoria della coscienza individuale che per i dannati non è più mezzo di ravvedimento, ma soltanto di rimorso. I tratti di cane attribuiti a Minosse indicano dunque il rimordere della coscienza davanti alla gravità del peccato.

Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
dicono e odono e poi son giù volte. 15

“O tu che vieni al doloroso ospizio”,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l’atto di cotanto offizio, 18

“guarda com’entri e di cui tu ti fide;
non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!”.

Mentre le anime dannate dicono le loro colpe e odono la loro condanna per essere infine spedite nel profondo inferno (v. 15), Minosse interrompe la sua azione di giudice per la meraviglia di vedere Dante, un vivente (v.18). Minosse avverte Dante di non fidarsi di Virgilio, che non ha saputo salvare se stesso; il monito è rivolto al poeta significa che non può affidare la sua salvezza solo alla propria ragione.

E ’l duca mio a lui: “Perché pur gride? 21

Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare”. 24

Virgilio placa Minosse con le stesse parole usate con Caronte (III, 94–96), e il giudice, superato dalla volontà divina, si piega e acconsente alla deroga della legge di cui egli stesso è custode.

Seconda sequenza: la bufera di vento (vv. 25–69)

Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote. 27

Io venni in loco d’ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto. 30

Il cerchio si presenta a Dante e Virgilio con un dato uditivo (il pianto v. 27) e con l’espressione d’ogne luce muto (v. 28), una sinestesia che associa l’assenza di luce al silenzio.

La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta. 33

Nella bufera infernal (v. 31) è evidente il contrappasso della pena per i lussuriosi, che in vita si sono abbandonati alla passione dei sensi che ha sovvertito l’ordine morale interiore. Per questo sono in balia di un vento incessante, travolti e percossi senza alcuna possibilità di controllarsi.

Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina. 36

Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento. 39

Quando i dannati giungono davanti alla ruina (v.34) la loro sofferenza diventa più intensa. La ruina è una frana causata dal terremoto che ha scosso l’Inferno al momento della morte di Cristo, perciò essa ricorda il loro destino di eterna pena.

Il climax del v.35 collegato dall’asindeto dà ulteriore rilievo al grido lamentevole dei dannati.

Dante definisce i lussuriosi coloro che la ragion sommettono al talento (v.39) perché il peccato significa abbandonare la guida della ragione per seguire gli impulsi; tale comportamento degrada l’uomo, che nell’uso della ragione ha la sua caratteristica specifica che lo distingue dal bruto.

E come li stornei ne portan l’ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali 42

di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena. 45

E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid’io venir, traendo guai, 48

ombre portate da la detta briga;

Per raffigurare i lussuriosi Dante predilige le similitudini aeree, poiché li paragona a stormi di uccelli (gli storni e le gru). Il paragone con gli storni, che in inverno procedono in grandi schiere indica la moltitudine dei lussuriosi; all’interno di questa, Dante distingue il gruppo — a cui è riferita la similitudine della gru — dei lussuriosi morti di morte violenta.

per ch’i’ dissi: “Maestro, chi son quelle
genti che l’aura nera sì gastiga?”. 51

Dante vuole conoscere le radici del peccato, i modi del suo manifestarsi, le inclinazioni particolari dell’animo che lo favoriscono. Egli cerca di andare oltre la registrazione etica dell’evento per penetrare come uomo entro il complesso sistema delle sensazioni, non più solo per giudicarlo ma soprattutto per capirlo.

“La prima di color di cui novelle
tu vuo’ saper”, mi disse quelli allotta,
“fu imperadrice di molte favelle. 54

A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta. 57

Ell’è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che ’l Soldan corregge. 60

L’altra è colei che s’ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussurïosa. 63

Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi ’l grande Achille,
che con amore al fine combatteo. 66

Vedi Parìs, Tristano”; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch’amor di nostra vita dipartille. 69

Dante ricorre all’enumerazione delle anime distinte da Virgilio nella schiera dei lussuriosi morti tragicamente, vittime della loro passione. La definizione finale delle anime ch’amor di nostra vita dipartille (v. 69) quasi per riconoscere l’eccezionalità della passione che ha perduto questi peccatori i quali hanno seguito fino alle estreme conseguenze gli ideali dell’amore cortese. Dante esprime lo stupore di fronte al binomio amore/morte, che lo affascina in modo inquietante.
L’elenco è arricchito da informazioni storiche sui personaggi citati, appartenenti quasi tutti alla tradizione classica. Interessante notare come — trattandosi di lussuriosi — siano poste prima le donne (Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena) e poi gli uomini (Achille, Paride, Tristano).

Terza sequenza: Paolo e Francesca (vv. 70–108)

Poscia ch’io ebbi ’l mio dottore udito
nomar le donne antiche e ’ cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito. 72

La pietà (v.72) di Dante nasce dalla riflessione sul tragico epilogo cui la passione della lussuria ha condotto questi peccatori. A questa va aggiunta la convinzione di Dante che tra i tre tipi di peccato (incontinenza, violenza, fraudolenza) il primo è il meno grave.

I’ cominciai: “Poeta, volontieri
parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggeri”. 75

Per la prima volta Dante chiede di interagire personalmente con le anime dell’oltretomba, iniziando una consuetudine che darà vita a incontri significativi. Le due anime che Dante ha individuato sembrano al vento esser leggeri (v.75), cioè abbandonate più delle altre alla bufera, perciò appaiono più sofferenti perché flagellate più intensamente. La leggerezza potrebbe essere intesa come frutto del loro amore che anche nell’Inferno le unisce (amor che i mena, v. 78).

Ed elli a me: “Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno”. 78

Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: “O anime affannate,
venite a noi parlar, s’altri nol niega!”. 81

Tutto il dialogo è strutturato secondo le più autentiche regole della cortesia; viene coinvolto anche il livello linguistico, che registra un innalzamento di tono per la presenza di molte espressioni raffinate e di ossequio.

altri (v. 81) si riferisce a Dio, la cui presenza nell’Inferno è sempre implicita pur se costante, come potenza punitrice e ordinatrice.

Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere, dal voler portate; 84

cotali uscir de la schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettüoso grido. 87

L’immagine delle colombe rappresenta la terza similitudine riferita al mondo degli uccelli ed è ripresa dall’Eneide (V, 213–217). L’immagine suscita sensazioni affettuose e prefigura l’atteggiamento compassionevole con cui Dante — unica volta nell’Inferno — si approccia alle anime. Questo sentimento del poeta è esplicitato da affettuoso grido (v.87) espressione con cui si definisce il richiamo dei due amanti.

“O animal grazïoso e benigno
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno, 90

A parlare è Francesca da Rimini, inseparabile dall’amato Paolo Malatesta. Francesca riprende il tono affettuoso con cui Dante si è rivolto a lei e a Paolo. Il suo discorso, tuttavia, evidenzia anche la raffinatezza del personaggio, la gentilezza del carattere e la dolcezza del suo animo femminile, al di là di ogni formale cortesia cavalleresca, infatti esse esprimono l’assenza di ogni sentimento di odio o vendetta.
Dante è chiamato animal (v.88) perché il poeta è presente con il corpo animato e sensitivo e non solo con l’anima; grazioso perché in grazia di Dio.
Con l’espressione aere perso (v. 89) Dante ribadisce spesso l’assoluta oscurità dell’ambiente, perché il lettore capisca che il riconoscere e il distinguere le anime è frutto di un intervento miracoloso di Dio, che ha voluto questo viaggio straordinario.
Il v. 90 allude alla morte violenta con spargimento di sangue delle anime di questa seconda schiera, che si sono date la morte (Didone, Cleopatra) oppure sono state uccise (Semiramide, Elena, Paride, Achille, Tristano, gli stessi Paolo e Francesca).

se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’ hai pietà del nostro mal perverso. 93

Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che ’l vento, come fa, ci tace. 96

L’ipotesi che il re dell’universo sia amico è irrealizzabile e razionalmente assurda; ma Francesca continua a proseguire con la logica dell’amore, dove tutto viene superato dal sentimento e viene visto in una dimensione profondamente diversa dal reale. Nonostante ciò riconosce che il loro peccato è perverso (v.93) poiché il loro amore è nato ed è stato consumato tra parenti (erano cognati).
Il vi piace (v.94) è un’altra espressione di cortesia, di disponibilità a superare il naturale riserbo nell’affrontare argomenti drammatici e personali. Francesca ha inteso che Dante è persona gentile che conosce le regole dell’amore cortese.
Il dialogo è consentito dall’attenuarsi della tempesta, che temporaneamente si tace (v.96).

Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ’l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui. 99

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende. 102

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona. 105

Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense”.
Queste parole da lor ci fuor porte. 108

Le tre terzine (vv. 100–108) sono la dichiarazione dei principi sentimentali che ispirano tutta la cultura cortese medievale. La triplice anafora di Amor (vv. 100, 103 e 106) conferma l’assoluta signoria d’Amore e la completa sudditanza di Francesca alle sue leggi. La donna si rifà alla dottrina stilnovistica dell’amore cortese tramite l’uso della citazione. Riprende infatti il concetto base dello Stil Novo secondo cui il trionfo dell’amore avviene soltanto nel cuore gentile, nobile non di stirpe ma di sentimenti, mentre rifugge dall’animo volgare (v.100).

Paolo non è mai chiamato con il proprio nome, ma Francesca continuamente accenna all’amato: costui (v.101 e 104) ha fatto innamorare dapprima per l’aspetto fisico (bella persona v.101), che poi le fu tolta violentemente. In seguito si è accesa la passione incontrollabile, che li ha condotto a una morte comune (una morte v. 106).

Sono, inoltre, ripresi i dettami di Andrea Cappellano esposti nel trattato De Amore, secondo cui nessuno può amare se non è spinto dalla forza dell’Amore oppure nessuno può rifiutare di ricambiare l’amore (v. 103).

Il tono della prima terzina (100–102) è malinconico per i pochi accenni ai luoghi in cui Francesca è stata felice in contrasto con la sofferenza presente. per tutto il dialogo ricorrono termini che indicano pace, quiete, riposo (ad esempio per aver pace v. 99) quasi a sottolineare il sommo desiderio inappagato dei due amanti.

Il racconto termina con la profezia di condanna di Gianciotto Malatesta, marito di Francesca e fratello di Paolo, nonché assassino dei due. Caina (v. 107) è la prima delle quattro zone in cui è diviso l’ultimo e più basso cerchio dell’Inferno, dove vengono puniti i traditori dei parenti.

Quarta sequenza: Il libro “galeotto” (vv. 109–142)

Quand’io intesi quell’anime offense,
china’ il viso, e tanto il tenni basso,
fin che ’l poeta mi disse: “Che pense?”. 111

Il turbamento di Dante, che si protrarrà fino alla fine del canto, è causato dal drammatico conflitto interiore tra il poeta e il cristiano. Anche lui ha cantato l’Amore cortese inteso come mezzo di perfezionamento interiore, ma come cristiano non può non considerare che proprio questo amore può diventare occasione di peccato e di morte.

Quando rispuosi, cominciai: “Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!”. 114

L’esclamazione (Oh lasso v. 112) iniziale rivela lo stato di perplessità in cui si trova il poeta che ha ascoltato il dramma di Paolo e Francesca e ne è rimasto profondamente scosso a livello sentimentale ma anche intellettuale. L’adulterio è definito doloroso passo (v. 114) perché è il momento culminate della latente passione che ha portato alla morte spirituale, poiché ha condotto i due amanti alla dannazione eterna, e materiale, perché ha stroncato le loro vite.

Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: “Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio. 117

Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?”. 120

Dante chiede informazioni sulla nascita del sentimento amoroso (dubbiosi disiri v. 120) per avere ulteriori ragguagli per comprendere le parole di Francesca e fugare i dubbi che lo attanagliano. Dante, infatti, è turbato di fronte al contrasto fra la forza, l’intensità e la nobiltà del sentimento amoroso e la sua possibile degenerazione in peccato.

E quella a me: “Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore. 123

La condizione di tristezza nel ricordare la vita terrena di Francesca è ben conosciuta da tutte le anime dell’Inferno, quindi anche da Virgilio (v.123).

Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice. 126

Nella seconda parte del suo discorso Francesca accentua il tono commosso della rievocazione in un crescendo continuo fino all’interruzione causata più dall’impedimento del pianto che dall’esaurimento del racconto.

La narrazione è strutturata come i racconti in cui il protagonista è il “folle amor”, con partecipazione emotiva (come colui che piange e dice v. 126): il dramma si consuma tra marito e moglie e amante appartenenti alla stessa famiglia; l’intervento d’Amor spinge all’adulterio, cui segue la scoperta da parte del marito e l’interruzione violenta della relazione.

Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto. 129

Per più fïate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse. 132

Quando leggemmo il disïato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso, 135

la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante”. 138

La lettura del romanzo cortese rappresenta un exemplum, quello di Lancillotto e Ginevra, quasi a ricondurre il caso a una situazione più generale, già codificata dalla letteratura, per chiedere maggiore comprensione e fornire un alibi alla sua colpa. Anche nella vicenda esemplare l’amore trascina gli amanti in un vortice, mentre la loro volontà resta estranea.

L’innamoramento avviene secondo le regole dello stilnovo: attraverso gli occhi (li occhi ci sospinse v.130) si comunicano i sentimenti, il bacio — espresso dalla metonimia efficace disiato riso (v.133) è un ineluttabile conseguenza, che suggella ciò che Francesca ribadisce come quella che nel tragico destino sembra, ai suoi occhi innamorati, una grande vittoria, esser per sempre unita all’amante (mai …diviso v.135). Anche il tremore (tutto tremante v.136) è un segno della malattia d’amore.

L’espressione Galeotto fu il libro e chi lo scrisse (v.137) riprende il personaggio del romanzo di Lancillotto, che ottenne per il cavaliere un convegno amoroso con la regina Ginevra; il suo ruolo fu dunque quello di intermediario, lo stesso ruolo che nella vicenda di Paolo e Francesca è assunto dal romanzo e dal suo autore.

La conclusione del racconto è reticente (più non leggemmo avante v.138) perché Francesca è un animo sensibile e discreto.

Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangëa; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse. 141

E caddi come corpo morto cade.

Dante sviene, cade per la pietà (v.140), cioè per il turbamento sentimentale di fronte alla vicenda e alle sofferenze dei due amanti. É il segno del dramma interiore irrisolto del poeta. Dante non si immedesima soltanto nel dramma umanissimo dei due giovani, ma rivive in se stesso il conflitto tra amore sensuale e amore spirituale.

--

--

Luca Pirola
Luca Pirola

Written by Luca Pirola

History and Italian literature teacher

No responses yet