Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere
Il tentativo razionale di confutare il senso comune
Leopardi scrive le Operette morali, dialoghi satirici che riprendono la tradizione classica di Luciano e Socrate, tra il 1818 e il 1837. Nelle operette il poeta espone con un tono ironico e leggero la sua teoria del pessimismo cosmico e il ruolo fondamentale della Ragione, in quanto mezzo di riscatto attraverso una sofferenza consapevole, ma dignitosa.
Gli elementi del pensiero leopardiano sono sviscerati in tutte le opere, ad esempio nel Dialogo della Natura e di un Islandese si espone il pessimismo cosmico, significativa la risposta della Natura all’islandese, che le chiede il perché dei mali del mondo: “quando io vi offendo in qualunque modo o con qualsiasi mezzo, non me ne avveggo”. Nel dialogo di F. Ruysch e delle mummie e nel dialogo del gallo silvestre si sottolinea come la morte sia l’unico piacere della vita, perché è assenza di sofferenza. La vocazione al nulla appartiene a tutto il cosmo, non solo all’uomo. Nel dialogo di Cristoforo Colombo e Pietro Gutierrez si constata la scomparsa di ogni illusione: l’uomo sfugge alla noia solo in condizioni di dolore o di rimedi momentanei come il rischio, l’amore che ci fa cara la vita. Infine nel dialogo di Plotino e Porfirio e nel dialogo di Tristano e di un amico Leopardi rivendica la dignità del poeta fatta dal coraggio di sostenere la propria condizione in assenza di speranza. In questi ultimi emerge un vincolo tra gli uomini, che si manifesta nella necessità di non creare dolore alle persone care.
Le Operette morali sono, dunque, meditazioni risolte in parabole e miti con personaggi favolosi e bizzarri. Il registro linguistico è umoresco, un’invenzione leopardiana ottenuta mescolando termini arditi e bizzarri con immagini e metafore tratte dalla vita quotidiana. Il ritmo narrativo è ampio ed elaborato redatto con uno stile lucido e brillante che esprime una limpida e amara ironia.
Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere
Il Dialogo fu composto nel 1832 e pubblicato nell’edizione del 1834 delle Operette morali. Il componimento vede contrapposti un colto passante, certo dell’infelicità della vita, e un venditore di almanacchi che, al contrario, spera nella felicità portata dal futuro.
Il dialogo è una scenetta vivace e rapida, che potrebbe essere recitata a teatro senza adattamenti. Un ingenuo venditore di calendari, che vorrebbe fare solo il suo mestiere, si imbatte in un passante filosofo che, prendendo spunto dagli oggetti messi in vendita, lo coinvolge in un ragionamento sul senso della vita.
Per comprendere meglio il significato del dialogo si tenga presente che l’almanacco nasce nel Medioevo come pubblicazione annuale simile al calendario, dotata di una serie di informazioni sull’ora in cui sorgono e tramontano il sole e la luna, e con indicazioni utili agli agricoltori (per esempio, sul momento più adatto alla semina), ai naviganti e ai mercanti. Col tempo gli almanacchi divennero sempre più ricchi di notizie: fornivano informazioni sulle festività, sui mercati e sulle sagre, rimedi di medicina, novelle, previsioni del futuro. Il “lunario”, invece, serviva a calcolare le fasi lunari, utilissime per gli agricoltori e per i naviganti e conteneva anche notizie su fiere e mercati, previsioni del futuro e l’indicazione del santo del giorno.
Venditore: Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?
Passeggere: Almanacchi per l’anno nuovo?
Venditore: Sì signore.
Passeggere: Credete che sarà felice quest’anno nuovo?
Venditore: Oh illustrissimo sì, certo.
Non appena il venditore di almanacchi e il passante (passeggere) si incontrano, il dialogo si fa subito serrato attraverso una serie di botta e risposta di sicuro effetto drammaturgico. Alla prima domanda del passeggere, il venditore si dice certo che l’anno nuovo sarà migliore di quello passato.
Passeggere: Come quest’anno passato?
Venditore: Più più assai.
Passeggere: Come quello di là?
Venditore: Più più, illustrissimo.
Passeggere: Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?
Venditore: Signor no, non mi piacerebbe.
Passeggere: Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi?
Venditore: Saranno vent’anni, illustrissimo.
Passeggere: A quale di cotesti vent’anni vorreste che somigliasse l’anno venturo?
Venditore: Io? non saprei.
Passeggere: Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?
Venditore: No in verità, illustrissimo.
Il venditore è un uomo semplice che vive del suo umile lavoro; il passante è invece una proiezione dell’io dell’autore che veste i panni del filosofo scettico. Nel dialogo dunque le domande del passeggere intendono mostrare la totale negatività della vita: all’anno nuovo infatti non corrisponde un sensibile miglioramento della condizione umana, tanto è vero che non appena viene chiesto al venditore se desidererebbe che l’anno futuro somigliasse a qualcuno del passato, egli si affretta a rispondere: Signor no, non mi piacerebbe
Passeggere: E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?
Venditore: Cotesto si sa.
Questo passaggio è in evidente contraddizione con quanto espresso poco prima: nessuno dei vent’anni precedenti della vita del venditore è stato felice, eppure egli sostiene che la vita sia una cosa bella. Ma si tratta, per Leopardi e per il lettore che conosce il suo pensiero, di un semplice luogo comune che il ragionamento del passeggere tenderà ad erodere
Passeggere: Non tornereste voi a vivere cotesti vent’anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste?
Venditore: Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse.
Passeggere: Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati?
Venditore: Cotesto non vorrei.
Passeggere: Oh che altra vita vorreste rifare? la vita ch’ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l’appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?
Venditore: Lo credo cotesto.
Passeggere: Né anche voi tornereste indietro con questo patto, non potendo in altro modo?
Venditore: Signor no davvero, non tornerei.
Passeggere: Oh che vita vorreste voi dunque?
Venditore: Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz’altri patti.
Il passeggere fa ammettere al venditore una verità condivisa dagli uomini in virtù della loro esperienza: non si desidera tanto rifare la stessa vita tale e quale la si è vissuta, con tutti i piaceri e i dispiaceri, ma una vita “diversa”, una vita così, come Dio me la mandasse, senza altre condizioni (patti)
Passeggere: Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell’anno nuovo?
La felicità è intimamente connessa al tema della “novità”, tanto che l’aggettivo nuovo appare ripetutamente nel testo. La felicità dipende dall’ignoranza del futuro, ed è per questo che il passeggere parla di una vita a caso, della quale non sapere nulla prima. Eppure questo desiderio di novità rimane frustrato, perché l’anno che verrà non potrà essere diverso da quelli passati, portando nuova infelicità all’uomo, nonostante le sue speranze
Venditore: Appunto.
Passeggere: Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest’anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d’opinione che sia stato più o di più peso il male che gli è toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
Il tema centrale dell’operetta morale è quello della felicità dell’uomo, molto caro a Leopardi. L’attesa di qualcosa che non è ancora arrivato, come l’anno nuovo, è carica di aspettative, che inevitabilmente verranno deluse dal verificarsi dell’evento. L’uomo può solo sperare: anche se è consapevole che la sua speranza non si realizzerà mai, non può fare a meno di sperare che il domani sarà migliore del presente. Ed è per questo che alla fine il passeggere compra comunque l’almanacco dal venditore
Venditore: Speriamo.
Passeggere: Dunque mostratemi l’almanacco più bello che avete.
Venditore: Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi.
Passeggere: Ecco trenta soldi.
Venditore: Grazie, illustrissimo: a rivederla. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi.
Nonostante tutto il dialogo, il venditore non fa propria la conclusione sulla totale negatività della vita su cui l’ha portato a riflettere il passante. Infatti l’operetta si conclude con la “speranza” del venditore nella possibilità che il futuro sia migliore, speranza che si riflette nella battuta finale che ripete ciclicamente quella iniziale: Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Una scelta stilistica per indicare che nulla è cambiato e che tutto il dialogo si svolge sotto il segno dell’ironia.
Comprensione e approfondimenti
Il passante filosofo ingaggia un dibattito con l’inconsapevole venditore prendendo spunto dal fatto che il venditore offre calendari dell’anno nuovo, perciò riflette sulla speranza per il futuro, una delle illusioni che consentono agli uomini di dimenticare l’arido vero. L’ignoranza per ciò che accadrà ci illude che capiterà qualcosa di bello, anche se non abbiamo alcun motivo razionale di sperarlo, tanto che preferiremmo vivere un anno di cui non sappiamo nulla (e che quindi potrebbe anche essere pessimo) piuttosto che riviverne uno identico a quelli passati, con le sue gioie e i suoi dolori.
Il nucleo di questa operetta è già in una pagina dello Zibaldone del 1° luglio 1827: «Io ho dimandato a parecchi se sarebbero stati contenti di tornare a rifare la vita passata, con patto di rifarla né più né meno quale la prima volta. […] Quanto al tornare indietro a vivere, ed io e tutti gli altri sarebbero stati contentissimi; ma con questo patto, nessuno; […] Che vuol dir questo? Vuol dire che nella vita che abbiamo sperimentata e che conosciamo con certezza, tutti abbiam provato più male che bene; e che se noi ci contentiamo, ed anche desideriamo di vivere ancora, ciò non è che per l’ignoranza del futuro, e per una illusione della speranza […]».
Stile
Dal punto di vista formale, questo dialogo è l’unico in cui uno dei due interlocutori è il solo portatore del messaggio, mentre l’altro si limita a fare da spalla attraverso interlocuzioni che aiutano progressivamente a far emergere la verità. in questo è molto simile ai dialoghi “socratici” di Platone, le prime opere del filosofo greco, nelle quali è preponderante il ruolo di Socrate, che conduce il dialogo lasciando al suo interlocutore la funzione di movimentare il discorso e di scandire il ragionamento.
L’aggettivo nuovo è una vera parola chiave del testo, ripetuta lungo tutta l’operetta con un marcato intento ironico: la sua ripetizione quasi ossessiva è tesa a sottolineare qualcosa che nuovo non è né sarà mai. La vita è infatti regolata da una ferrea necessità che impone all’uomo di non raggiungere mai la felicità sperata