Epistula posteritati

Un’autoritratto ufficiale del poeta

Luca Pirola
8 min readJan 15, 2022

La lettera contiene il racconto della vita di Petrarca, presentandosi come un’autobiografia ideale. Questo testo, tuttavia, è rimasto incompiuto, fermandosi agli eventi del 1351.

Petrarca ha voluto presentare se stesso agli occhi dei lettori e del pubblico futuro, in funzione del proprio lavoro di scrittore, come a sottolinearne l’eccezionalità e l’importanza. Petrarca — con questo testo — si inserisce nel solco di una tradizione classico, infatti come negli scrittori greci o romani, in Petrarca l’impegno non è volto solo alla ricostruzione delle proprie vicende biografiche, quanto ad offrire un ritratto in cui risaltino le proprie caratteristiche morali.

Si considera qui la prima parte, in cui il poeta traccia il proprio ritratto morale di scrittore libero, disinteressato, amante della solitudine e degli studi. Questi paragrafi presentano un elenco dei peccati capitali, da cui Petrarca ritenne di essere stato immune: disprezzò la ricchezza e non si lasciò tentare dalla gola; soffrì per amore in gioventù, ma, giunto alla soglia dei quarant’ anni, decise di rendersi immune dalla lussuria; non fu superbo, né si lasciò mai prendere dall’ira; di invidia patì solo quella che gli altri provavano nei suoi confronti.

Ti verrà forse all’orecchio qualcosa di me; sebbene sia dubbio che il mio povero, oscuro nome possa arrivare lontano nello spazio e nel tempo. E forse ti piacerà sapere che uomo fui o quale la sorte delle opere, soprattutto di quelle la cui fama sia giunta sino a te e di cui tu abbia sentito vagamente parlare. Sul primo punto se ne diranno indubbiamente di varie: perché quasi tutti parlano non come vuole la verità, ma come vuole il capriccio; e non c’è misura giusta né per lodare né per biasimare. Sono stato uno della vostra specie, un pover’uomo mortale, di classe sociale né elevata né bassa; di antica famiglia, come dice di se stesso Cesare Augusto; di temperamento per natura né malvagio né senza scrupoli, se non fosse stato guastato dal contatto abituale con esempi contagiosi.

La lettera si apre con un contatto diretto con il lettore (Ti verrà…), ovvero con i posteri ai quali l’autore intende rivolgersi per chiarire loro che tipo di uomo egli sia stato. Petrarca, tuttavia rimane sul vago fornendo solo alcune informazioni introduttive piuttosto generiche (classe sociale né elevata né bassa; di antica famiglia, … di temperamento per natura né malvagio né senza scrupoli) sul suo temperamento e sul suo aspetto fisico.

L’adolescenza mi illuse, la gioventù mi traviò, ma la vecchiaia mi ha corretto, e con l’esperienza mi ha messo bene in testa che era vero quel che avevo letto tanto tempo prima: che i godimenti dell’adolescenza sono vanità; anzi me lo insegnò Colui che ha creato tutti i secoli e tutti i millenni, e che di quando in quando permette ai miseri mortali, pieni di presunzione, d’andare fuori strada, perché possano conoscere se stessi, ricordando — sia pure tardi — i propri peccati. Da giovane m’era toccato un corpo non molto for- te, ma assai agile. Non mi vanto d’aver avuto una grande bellezza, ma in gioventù potevo piacere: di colore vivo tra bianco e bruno, occhi vivaci e per lungo tempo di una grandissima acutezza, che contro ogni aspettativa mi tradì passati i sessanta, in modo da costringermi a ricorrere con riluttanza all’aiuto delle lenti. La vecchiaia prese possesso d’un corpo che era stato sempre sanissimo e lo circondò con la solita schiera di acciacchi.

Dopo un breve excursus sulle età della sua vita, Petrarca si dedica a delineare il suo ritratto spirituale; il poeta segue il modello della trattatistica medievale, infatti sono passati in rassegna i peccati capitali e l’atteggiamento del poeta nei confronti di ognuno. L’autoanalisi — come un esame di coscienza — considera come il poeta abbia affrontato le tentazioni terrene: avarizia, gola, lussuria, superbia, ira, invidia e accidia.

Ho avuto sempre un grande disprezzo del danaro; non perché non mi piacesse essere ricco, ma perché detestavo le preoccupazioni e le seccature che sono compagne inseparabili dell’essere ricchi.
Non ebbi la possibilità di lauti banchetti, e perciò non ebbi da fissarci il pensiero: ma io mangiando poco e semplicemente passai la vita più contento che con le loro raffinatissime tavole tutti i successori di Apicio. I banchetti — li chiamano così, ma sono gozzoviglie, nemiche della moderazione e del vivere costumato — non mi sono mai piaciuti, ed ho giudicato una fatica inutile invitarvi gli altri e dagli altri esservi invitato. Ma pranzare con gli amici mi è sempre piaciuto, tanto che nulla mi è stato più gradito che averli come commensali, e mai di mia volontà ho mangiato senza compagnia.
Nulla mi ha tanto infastidito quanto il lusso; non soltanto perché è peccaminoso e contrario all’umiltà, ma perché è complicato e non lascia in pace.
Mi travagliò, quand’ero molto giovane, un amore fortissimo; ma fu il solo, e fu puro; e più a lungo ne sarei stato travagliato se la morte, crudele ma provvidenziale, non avesse spento definitivamente quella fiamma quand’ormai era languente. Vorrei davvero poter dire d’essere assolutamente senza libidine; ma se lo dicessi mentirei. Posso dir questo con certezza: d’aver sempre in cuor mio esecrato quella bassezza, quantunque vi fossi spinto dai calori dell’età e del temperamento. Ma tosto che fui presso ai quarant’anni, quando ancora avevo parecchia sensibilità e parecchie energie, ripudiai siffattamente non soltanto quell’atto osceno, ma il suo totale ricordo, come se mai avessi visto una donna. E questa la pongo tra le mie principali felicità, ringraziando il Signore d’avermi liberato, ancor sano e vigoroso, da una servitù così bassa e per me sempre odiosa.

È singolare il distacco con cui Petrarca parla qui dell’amore per Laura, che appare assai lontano dai tormenti espressi nelle Rime: la morte, crudele ma provvidenziale, spegne la fiamma quando già era languente. Ma anche questo ridimensionamento è coerente con l’immagine idealizzata che egli vuol lasciare ai posteri.

Ma passiamo ad altro. La superbia l’ho riscontrata negli altri, ma non in me stesso; e sebbene sia stato un piccolo uomo, sempre mi sono giudicato ancor più trascurabile. La mia ira danneggiò assai di frequente me stesso, mai gli altri.

Nella sua autoanalisi emerge come Petrarca voglia costruire di sé un ritratto ideale. Innanzitutto trascura i fatti strettamente privati e si concentra soprattutto sui suoi rapporti pubblici coi potenti, sulla sua carriera letteraria e sulle sue opere. In secondo luogo insiste sul suo disprezzo del denaro, sulla ricerca di una vita modesta e appartata, tutta dedita all’attività intellettuale, sulla mancanza di superbia (e difatti le professioni di modestia sono frequentissime), sulla castità e sul trionfo sopra le passioni, che l’han portato a lasciare i vani piaceri della giovinezza, sul rapporto di indipendenza nei confronti dei potenti, visti come amici più che come signori: è l’immagine ideale del letterato, colui che dedica tutta la sua vita all’attività intellettuale disinteressata, e si offre ai contemporanei e ai posteri come modello di saggezza.

Successivamente Petrarca si presenta come poeta vicino ai potenti, ma libero.

Mi vanto francamente — perché so di dire la verità — d’aver un animo molto suscettibile, ma facilissimo a dimenticare le offese, ed al contrario saldissimo nel ricordo dei benefici ricevuti. Fui desiderosissimo delle amicizie oneste e le coltivai con assoluta fedeltà. Ma il supplizio di chi a lungo invecchia è appunto di dover sempre più spesso piangere la morte dei propri cari. Ebbi la fortuna di godere la familiarità dei principi e dei re, e l’amicizia dei nobili, tanto da esserne invidiato. Tuttavia da parecchi di coloro che più amavo mi tenni lontano: fu sì radicato in me l’amore della libertà, da evitare con ogni attenzione coloro che sembravano esserle contrari anche nel nome solo. I più grandi re del mio tempo mi vollero bene e mi onorarono — il perché non lo so; è cosa che riguarda loro — e con certuni ebbi rapporti tali che in certo qual modo erano loro a stare con me; e dalla loro grandezza non ebbi noie, ma molti vantaggi.

Fui d’intelligenza equilibrata piuttosto che acuta; adatta ad ogni studio buono e salutare, ma inclinata particolarmente alla filosofia morale ed alla poesia. Quest’ultima con l’andare del tempo l’ho trascurata, preferendo le Sacre Scritture, nelle quali ho avvertito una riposta dolcezza (che un tempo avevo spregiata), mentre riservavo la forma poetica esclusivamente per ornamento.

Tra le tante attività, mi dedicai singolarmente a conoscere il mondo antico, giacché questa età presente a me è sempre dispiaciuta, tanto che se l’affetto per i miei cari non mi indirizzasse diversamente, sempre avrei preferito d’esser nato in qualunque altra età; e questa mi sono sforzato di dimenticarla, sempre inserendomi spiritualmente in altre. E perciò mi sono piaciuti gli storici; altrettanto deluso, tuttavia, per la loro discordanza, ho seguito nei casi dubbi la versione a cui mi traeva la verisimiglianza dei fatti o l’autorità dello scrittore.

Petrarca confessa il suo amore per gli autori classici, preferibili ai contemporanei. l’amore per Roma e la sua civiltà si collega alla sua ammirazione per l’antichità, al desiderio di trasferirsi idealmente in essa, a cui si contrappone il disprezzo per l’età presente

La conclusione della prima parte della lettera è dedicata a una considerazione sul proprio stile, definito chiaro e efficace, che non interessa — a suo dire — molto il poeta, che rivolge la sua attenzione ai contenuti più che alla forma.

Nel parlare, secondo hanno detto alcuni, chiaro ed efficace; ma a mio vedere fiacco ed oscuro. Ed in realtà nella conversazione quotidiana con gli amici e con i familiari non ho mai avuto preoccupazione di parlar forbito; e mi stupisco che Cesare Augusto l’abbia avuta.
Ma dove l’argomento o la sede o la persona che m’ascoltava parevano richiedere diversamente, mi ci sono provato un poco; con quanta efficacia, non so; l’hanno da giudicare coloro di fronte ai quali parlai. Per mio conto, purché abbia vissuto rettamente, poco mi curo di come abbia parlato: gloria vana è cercare la fama unicamente nel luccicare delle parole. […]

Petrarca si rivela molto attento al registro di comunicazione, infatti dichiara di adeguare il suo linguaggio all’interlocutore (nelle familiari non si è mai preoccupato di parlar forbito, ma dove ciò era richiesto si è premurato di farlo); inoltre sottolinea la bellezza formale dei suoi scritti, ma contemporaneamente la sminuisce, perché è un pregio riconosciuto da tutti, perciò vuole sottolineare la ricchezza e la profondità del messaggio. Dunque Petrarca afferma che la validità della sua opera è sancita dal fatto che superi il suo tempo e sia letta dai posteri.
Nella Posteritati Petrarca, infatti, non si sofferma a lungo sulle sue opere, dedicando solo alcuni cenni alle opere latine, quelle che, secondo il suo progetto culturale, avrebbero dovuto dargli maggiore fama presso i posteri. Al contrario, esclude tutta la propria produzione in volgare, assegnando cioè ai Rerum vulgarium fragmenta come dice il titolo stesso della raccolta — un ruolo decisamente secondario e quasi marginale. Ciò che sta a cuore a Petrarca nell’epistola è presentare e chiarire la propria immagine di intellettuale e di esponente di una nuova cultura di stampo umanista.

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Luca Pirola
Luca Pirola

Written by Luca Pirola

History and Italian literature teacher

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