Fantasticheria
Una novella programmatica
La novella Fantasticheria, che apre la raccolta Vita dei campi, è “stata definita da Leonardo Sciascia “la più vera e profonda dichiarazione di poetica che Verga abbia mai fatto”. L’interesse di Verga verso il mondo degli umili siciliani esplicita la scelta verista dello scrittore, anche se in questo racconto il mondo rurale è idealizzato e vagheggiato come il titolo stesso lascia trasparire.
Una volta, mentre il treno passava vicino ad Aci-Trezza, voi, affacciandovi allo sportello del vagone, esclamaste: — Vorrei starci un mese laggiù! -
Il narratore è un personaggio maschile — proiezione autobiografica del Verga stesso — che indirizza una lettera a un’elegante signora della buona società cittadina, ricordandole la visita che entrambi avevano fatto ad Aci Trezza, borgo di pescatori della Sicilia orientale.
Noi vi ritornammo, e vi passammo non un mese, ma quarantott’ore; i terrazzani che spalancavano gli occhi vedendo i vostri grossi bauli avranno creduto che ci sareste rimasta un par d’anni. La mattina del terzo giorno, stanca di vedere eternamente del verde e dell’azzurro, e di contare i carri che passavano per via, eravate alla stazione, e gingillandovi impaziente colla catenella della vostra boccettina da odore, allungavate il collo per scorgere un convoglio che non spuntava mai.
[…] Diceste soltanto ingenuamente: — Non capisco come si possa vivere qui tutta la vita -.
La gentildonna si accosta ai borghigiani inizialmente con interesse verso quella realtà “esotica” lontana dalla sua quotidianità urbana; tuttavia se ne distacca presto, sconvolta dall’animalesca primitività di quel mondo.
la voce narrante maschile cerca allora di spiegarle il fascino di un’umanità colta nelle sue passioni elementari, incorrotte e “vere”.
Eppure, vedete, la cosa è più facile che non sembri: basta non possedere centomila lire di entrata, prima di tutto; e in compenso patire un po’ di tutti gli stenti fra quegli scogli giganteschi, incastonati nell’azzurro, che vi facevano batter le mani per ammirazione. Così poco basta, perché quei poveri diavoli che ci aspettavano sonnecchiando nella barca, trovino fra quelle loro casipole sgangherate e pittoresche, che viste da lontano vi sembravano avessero il mal di mare anch’esse, tutto ciò che vi affannate a cercare a Parigi, a Nizza ed a Napoli.
La prospettiva del narratore e della destinataria descrive Aci Trezza e i suoi abitanti da una distanza culturale incolmabile, rendendo così l’effetto di straniamento con cui Verga vuole caratterizzare la sua narrazione.
Verga afferma di poter comprendere la vita dei poveri perché la vede da lontano, ma contemporaneamente “facendosi piccino” per poter rappresentare gli strati subalterni della popolazione non attraverso le sue categorie di intellettuale borghese, ma spogliandosi della sua mentalità per mettersi al livello dei suoi personaggi, descrivendo la loro condizione nascosto dietro il loro sguardo. Tale intendimento rafforza il senso di estraneità del lettore rispetto alle vicende dei personaggi, verso le cui vicende è difficile provare partecipazione emotiva.
È una cosa singolare; ma forse non è male che sia così — per voi, e per tutti gli altri come voi. Quel mucchio di casipole è abitato da pescatori, “gente di mare”, dicono essi, come altri direbbe “gente di toga”, i quali hanno la pelle più dura del pane che mangiano — quando ne mangiano — giacché il mare non è sempre gentile, come allora che baciava i vostri guanti… Nelle sue giornate nere, in cui brontola e sbuffa, bisogna contentarsi di stare a guardarlo dalla riva, colle mani in mano, o sdraiati bocconi, il che è meglio per chi non ha desinato. In quei giorni c’è folla sull’uscio dell’osteria, ma suonano pochi soldoni sulla latta del banco, e i monelli che pullulano nel paese, come se la miseria fosse un buon ingrasso, strillano e si graffiano quasi abbiano il diavolo in corpo.
Di tanto in tanto il tifo, il colèra, la malannata, la burrasca, vengono a dare una buona spazzata in quel brulicame, che davvero si crederebbe non dovesse desiderar di meglio che esser spazzato, e scomparire; eppure ripullula sempre nello stesso luogo; non so dirvi come, né perché.
[…]
La novella introduce l’ambiente e i personaggi che saranno poi sviluppati ne I Malavoglia. Vi sono accennati anche eventi che costituiranno lo scheletro del romanzo: dalla vicenda della “casa del nespolo” e della sua perdita, al naufragio ella Provvidenza, alla sorte infausta di di, come ‘Ntoni, partito in cerca di una vita migliore, è finito rinchiuso nelle carceri di Pantelleria. In questo senso la novella assume un funzione di “laboratorio” del romanzo, svelando le dinamiche della sua gestazione.
Vi ricordate anche di quel vecchietto che stava al timone della nostra barca? Voi gli dovete questo tributo di riconoscenza, perché egli vi ha impedito dieci volte di bagnarvi le vostre belle calze azzurre. Ora è morto laggiù, all’ospedale della città, il povero diavolo, in una gran corsìa tutta bianca, fra dei lenzuoli bianchi, masticando del pane bianco, servito dalle bianche mani delle suore di carità, le quali non avevano altro difetto che di non saper capire i meschini guai che il poveretto biascicava nel suo dialetto semibarbaro.
Ma se avesse potuto desiderare qualche cosa, egli avrebbe voluto morire in quel cantuccio nero, vicino al focolare, dove tanti anni era stata la sua cuccia “sotto le sue tegole”, tanto che quando lo portarono via piangeva, guaiolando come fanno i vecchi.
Egli era vissuto sempre fra quei quattro sassi, e di faccia a quel mare bello e traditore, col quale dové lottare ogni giorno per trarre da esso tanto da campare la vita e non lasciargli le ossa; eppure in quei momenti in cui si godeva cheto cheto la sua “occhiata di sole” accoccolato sulla pedagna della barca, coi ginocchi fra le braccia, non avrebbe voltato la testa per vedervi, ed avreste cercato invano in quelli occhi attoniti il riflesso più superbo della vostra bellezza; come quando tante fronti altere s’inchinano a farvi ala nei saloni splendenti, e vi specchiate negli occhi invidiosi delle vostre migliori amiche.
La vita è ricca, come vedete, nella sua inesauribile varietà; e voi potete godervi senza scrupoli quella parte di ricchezza che è toccata a voi, a modo vostro.
Quella ragazza, per esempio, che faceva capolino dietro i vasi di basilico, quando il fruscìo della vostra veste metteva in rivoluzione la viuzza, se vedeva un altro viso notissimo alla finestra di faccia, sorrideva come se fosse stata vestita di seta anch’essa. Chi sa quali povere gioie sognava su quel davanzale, dietro quel basilico odoroso, cogli occhi intenti in quell’altra casa coronata di tralci di vite? E il riso dei suoi occhi non sarebbe andato a finire in lagrime amare, là, nella città grande, lontana dai sassi che l’avevano vista nascere e la conoscevano, se il suo nonno non fosse morto all’ospedale, e suo padre non si fosse annegato, e tutta la sua famiglia non fosse stata dispersa da un colpo di vento che vi aveva soffiato sopra — un colpo di vento funesto, che avea trasportato uno dei suoi fratelli fin nelle carceri di Pantelleria — “nei guai!” come dicono laggiù.
Miglior sorte toccò a quelli che morirono; a Lissa l’uno, il più grande, quello che vi sembrava un David di rame, ritto colla sua fiocina in pugno, e illuminato bruscamente dalla fiamma dell’ellera. Grande e grosso com’era, si faceva di brace anch’esso quando gli fissaste in volto i vostri occhi arditi; nondimeno è morto da buon marinaio, sulla verga di trinchetto, fermo al sartiame, levando in alto il berretto, e salutando un’ultima volta la bandiera col suo maschio e selvaggio grido d’isolano; l’altro, quell’uomo che sull’isolotto non osava toccarvi il piede per liberarlo dal lacciuolo teso ai conigli, nel quale v’eravate impigliata da stordita che siete, si perdé in una fosca notte d’inverno, solo, fra i cavalloni scatenati, quando fra la barca e il lido, dove stavano ad aspettarlo i suoi, andando di qua e di là come pazzi, c’erano sessanta miglia di tenebre e di tempesta. Voi non avreste potuto immaginare di qual disperato e tetro coraggio fosse capace per lottare contro tal morte quell’uomo che lasciavasi intimidire dal capolavoro del vostro calzolaio.
Meglio per loro che son morti, e non “mangiano il pane del re”, come quel poveretto che è rimasto a Pantelleria, o quell’altro pane che mangia la sorella, e non vanno attorno come la donna delle arance, a viver della grazia di Dio — una grazia assai magra ad Aci-Trezza.
Quelli almeno non hanno più bisogno di nulla! lo disse anche il ragazzo dell’ostessa, l’ultima volta che andò all’ospedale per chieder del vecchio e portargli di nascosto di quelle chiocciole stufate che son così buone a succiare per chi non ha più denti, e trovò il letto vuoto, colle coperte belle e distese, sicché sgattaiolando nella corte, andò a piantarsi dinanzi a una porta tutta brandelli di cartacce, sbirciando dal buco della chiave una gran sala vuota, sonora e fredda anche di estate, e l’estremità di una lunga tavola di marmo, su cui era buttato un lenzuolo, greve e rigido. E pensando che quelli là almeno non avevano più bisogno di nulla, si mise a succiare ad una ad una le chiocciole che non servivano più, per passare il tempo.
Voi, stringendovi al petto il manicotto di volpe azzurra, vi rammenterete con piacere che gli avete dato cento lire, al povero vecchio.
La distanza tra la gentildonna e i poveri pescatori rappresenta la contrapposizione tra un mondo di valori semplici e autentici, in qualche misura “eterni” perché naturali, e il mondo falso e superbo della borghesia urbana. I due mondi sono descritti come inconciliabili e irrimediabilmente distanti. Le qualità positive che Verga attribuisce agli abitanti di Aci Trezza nascono dal confronto quotidiano con una realtà di miseria e precarietà. A differenza della giovane signora borghese, distratta da pensieri artificiosi, la povera gente del paesino siciliano per affrontare le difficoltà quotidiane deve aggrapparsi ai valori essenziali dell’esistenza: coraggiosa e tenace lotta per la vita, fedeltà ai luoghi e alle tradizioni, solidi legami di affetto e di solidarietà.
Non manca una nota ironica nella descrizione della incapacità di comprensione delle difficoltà della vita dei poveri da parte della gentildonna, la quale osserva la vita dei pescatori come se fosse uno spettacolo teatrale.
Ora rimangono quei monellucci che vi scortavano come sciacalli e assediavano le arance; rimangono a ronzare attorno alla mendica, e brancicarle le vesti come se ci avesse sotto del pane, a raccattar torsi di cavolo, bucce d’arance e mozziconi di sigari, tutte quelle cose che si lasciano cadere per via, ma che pure devono avere ancora qualche valore, poiché c’è della povera gente che ci campa su; ci campa anzi così bene, che quei pezzentelli paffuti e affamati cresceranno in mezzo al fango e alla polvere della strada, e si faranno grandi e grossi come il loro babbo e come il loro nonno, e popoleranno Aci-Trezza di altri pezzentelli, i quali tireranno allegramente la vita coi denti più a lungo che potranno, come il vecchio nonno, senza desiderare altro, solo pregando Iddio di chiudere gli occhi là dove li hanno aperti, in mano del medico del paese che viene tutti i giorni sull’asinello, come Gesù, ad aiutare la buona gente che se ne va.
- Insomma l’ideale dell’ostrica! — direte voi. — Proprio l’ideale dell’ostrica! e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo, che quello di non esser nati ostriche anche noi -.
Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere, mentre seminava principi di qua e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che la circondano, mi sembrano — forse pel quarto d’ora — cose serissime e rispettabilissime anch’esse.
Anche il narratore è lontano dal mondo e dai valori del popolo, perché ha una vena di paternalismo nel suo racconto: egli pur vicino alla sofferenza dei poveri, sembra idealizzare il loro mondo. Coglie il disagio sociale dei pescatori e la loro lotta per la sopravvivenza, ma è allo stesso tempo attratto dalla semplicità primordiale che viene contrapposta al mondo borghese. Il narratore si delinea come l’autoritratto dell’intellettuale cittadino, che trova riposo dalle inquietudini del pensiero vagabondo presso i ritmi eterni della tradizione popolare.
Verga, quindi, denuncia la sofferenza dei poveri, ma non prevede un loro riscatto sociale. Anzi, se qualcuno cercasse di migliorare la propria condizione economica, andrebbe incontro a una fatale rovina, perché il progresso comporterebbe la rinuncia alla semplicità e alla genuinità dei valori tradizionali. Questo atteggiamento è espresso dall’ideale dell’ostrica, che indica come valore più alto la rassegnazione coraggiosa a una vita di stenti su cui si fonda la la “religione della famiglia che si riverbera sul mestiere, sulla casa e sui sassi”.
Sembrami che le irrequietudini del pensiero vagabondo s’addormenterebbero dolcemente nella pace serena di quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione. — Sembrami che potrei vedervi passare, al gran trotto dei vostri cavalli, col tintinnìo allegro dei loro finimenti e salutarvi tranquillamente.
Forse perché ho troppo cercato di scorgere entro al turbine che vi circonda e vi segue, mi è parso ora di leggere una fatale necessità nelle tenaci affezioni dei deboli, nell’istinto che hanno i piccoli di stringersi fra loro per resistere alle tempeste della vita, e ho cercato di decifrare il dramma modesto e ignoto che deve aver sgominati gli attori plebei che conoscemmo insieme. Un dramma che qualche volta forse vi racconterò, e di cui parmi tutto il nodo debba consistere in ciò: — che allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo; il mondo, da pesce vorace ch’egli è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui. — E sotto questo aspetto vedrete che il dramma non manca d’interesse. Per le ostriche l’argomento più interessante deve esser quello che tratta delle insidie del gambero, o del coltello del palombaro che le stacca dallo scoglio.
Il mondo esterno al borgo è rappresentato come un “pesce vorace”, pronto a ingoiare quanti si staccano dal ventre protettivo della comunità sotto la spinta della brama del meglio.