Giustiniano e la missione imperiale
Paradiso canto 6
Nel cielo di Mercurio Dante incontra le anime che operarono per il desiderio di gloria, in particolare dialoga con l’imperatore Giustiniano e discute della missione divina affidata all’impero. Si conclude con questo canto la trilogia di canti “politici” della Commedia.
Al termine del canto precedente Dante aveva chiesto a un’anima chi fosse e perché si trovasse in quella sfera; il canto 6 inizia con la risposta dell’anima interrogata, che si rivela essere l’imperatore Giustiniano.
Anche se il canto si compone di tre parti apparentemente ben distinte, esso appare coerente e unitario, sia per la logica interna che lega le tre parti, sia per la passionalità politica e l’urgenza del problema politico religioso che costituisce il fermento sentimentale che anima tutto il canto.
Canto VI, dove, nel cielo di Mercurio, Iustiniano imperadore sotto brevità narra tutti li grandi fatti operati per li Romani sotto la ’nsegna de l’aquila, da l’avvenimento di Enea in Italia infino al tempo di Longobardi; e alcune cose si dicono qui in laude di Romeo visconte del conte Ramondo Berlinghieri di Proenza.
Sequenza 1: autopresentazione di Giustiniano (vv.1–27)
Poscia che Costantin l’aquila volse
contr’ al corso del ciel, ch’ella seguio
dietro a l’antico che Lavina tolse,cento e cent’ anni e più l’uccel di Dio
ne lo stremo d’Europa si ritenne,
vicino a’ monti de’ quai prima uscìo;e sotto l’ombra de le sacre penne
governò ’l mondo lì di mano in mano,
e, sì cangiando, in su la mia pervenne.
L’aquila è un uccello ritenuto sacro e usato come simbolo dell’impero a causa della sua maestà e della presunta capacità di fissare direttamente il sole senza restare abbagliata. Il discorso di Giustiniano, dunque, inizia con il solenne accenno al trasferimento della capitale imperiale da Roma a Costantinopoli, spostamento che Dante giudica contro l’ordine naturale e provvidenziale.
Giustiniano sottolinea nella rievocazione la continuità del potere imperiale che passa di mano in mano senza apparenti traumi. Il potere imperiale deriva direttamente da Dio, perciò non può essere detenuto illegittimamente.
Cesare fui e son Iustinïano,
che, per voler del primo amor ch’i’ sento,
d’entro le leggi trassi il troppo e ‘l vano.
Giustiniano indica il suo nome con il presente e la sua carica con il passato remoto a significare che gli onori terreni non abbiano più alcun senso quando nell’aldilà resta solo l’anima individuale, con i suoi meriti e demeriti. Interessante notare come Giustiniano indichi come sua opera maggiore la riorganizzazione delle leggi imperiali attuata seguendo la volontà di Dio, cioè adempiendo alla sua missione di imperatore.
E prima ch’io a l’ovra fossi attento,
una natura in Cristo esser, non piùe,
credea, e di tal fede era contento;ma ’l benedetto Agapito, che fue
sommo pastore, a la fede sincera
mi dirizzò con le parole sue.Io li credetti; e ciò che ’n sua fede era,
vegg’ io or chiaro sì, come tu vedi
ogni contradizione e falsa e vera.Tosto che con la Chiesa mossi i piedi,
a Dio per grazia piacque di spirarmi
l’alto lavoro, e tutto ’n lui mi diedi;e al mio Belisar commendai l’armi,
cui la destra del ciel fu sì congiunta,
che segno fu ch’i’ dovessi posarmi.
Tenendo presente che nel Paradiso i personaggi contano in quanto esempi di comportamenti di salvezza, la scelta di Giustiniano appare dettata non dal bisogno di presentare un carattere di grande spicco, ma dall’ansia di presentare un principe esemplare per la sua opera di giustizia (il Corpus Iuris Civilis) che riportò l’ordine nella legislazione imperiale.
Inoltre sotto il regno di Giustiniano l’Italia fu riportata (seppur brevemente) sotto il potere imperiale grazie alle vittorie di Belisario e Narsete.
Infine Giustiniano è esempio del corretto rapporto tra Chiesa e Impero: egli da monofisita che era, segue l’insegnamento del papa Agapito e si converte al cattolicesimo. Seguendo poi il saggio consiglio del papa, si dedica all’opera giuridica per garantire la concordia in Terra.
Storia dell’aquila. (vv. 28–111)
Il discorso di Giustiniano passa naturalmente dalla sua biografia alla storia dell’Impero, perché l’anima, avendo ricoperto la carica imperiale, non dimentica i problemi politici in cui attualmente versa l’istituzione da lui presieduta. Proprio per desiderio di indicare una via di redenzione per l’umanità l’imperatore giusto si preoccupa di additare gli errori dei Guelfi e dei Ghibellini al tempo di Dante.
Or qui a la question prima s’appunta
la mia risposta; ma sua condizione
mi stringe a seguitare alcuna giunta,perché tu veggi con quanta ragione
si move contr’ al sacrosanto segno
e chi ’l s’appropria e chi a lui s’oppone.Vedi quanta virtù l’ha fatto degno
di reverenza; e cominciò da l’ora
che Pallante morì per darli regno.
Il termine virtù è usato in senso latino di eroismo, sia nelle armi sia nell’agire politico. Dante riprende il concetto sostenuto nel Convivio (IV, 4, 8 -12) secondo cui le conquiste militari di Roma furono strumentali della sua potenza, cioè servirono a realizzare il volere di Dio di fondare l’impero.
Pallante è un personaggio dell’Eneide, ucciso da Turno in duello. La sua morte è indicata da Dante come sacrificio necessario per la futura fondazione dell’impero da parte dei Romani, discendenti da Enea.
Tu sai ch’el fece in Alba sua dimora
per trecento anni e oltre, infino al fine
che i tre a’ tre pugnar per lui ancora.
Richiamo a Iulo, figlio di Enea che fondò Albalonga e ai tre Orazi e Curiazi, che combatterono ai tempi di Tullo Ostilio.
E sai ch’el fé dal mal de le Sabine
al dolor di Lucrezia in sette regi,
vincendo intorno le genti vicine.
Il periodo monarchico è rievocato con un riferimento al primo re, Romolo, che rapì le Sabine, garantendo la sopravvivenza demografica di Roma, e all’ultimo re, Tarquinio il Superbo, che provocò il suicidio di Lucrezia, giovane da lui insidiata, inducendo il popolo romano a cacciarlo.
Sai quel ch’el fé portato da li egregi
Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro,
incontro a li altri principi e collegi;onde Torquato e Quinzio, che dal cirro
negletto fu nomato, i Deci e ’ Fabi
ebber la fama che volontier mirro.Esso atterrò l’orgoglio de li Aràbi
che di retro ad Anibale passaro
l’alpestre rocce, Po, di che tu labi.Sott’ esso giovanetti trïunfaro
Scipïone e Pompeo; e a quel colle
sotto ’l qual tu nascesti parve amaro.
La storia repubblicana è sintetizzata nella menzione delle conquiste dell’Italia, delle guerra puniche e dell’Oriente. Il colle amaro per la forza dell’aquila è quello di Fiesole, che domina Firenze.
Successivamente la fondazione dell’impero, che Dante attribuisce a Giulio Cesare, è giustificata con la volontà divina di creare una condizione di pace in tutto il mondo. Alle imprese di Cesare sono dedicati sei terzine, quasi quanto ha utilizzato per ripeilogare i settecento anni precedenti. Ciò indica l’importanza della fondazione dell’impero come istituzione.
Poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle
redur lo mondo a suo modo sereno,
Cesare per voler di Roma il tolle.E quel che fé da Varo infino a Reno,
Isara vide ed Era e vide Senna
e ogne valle onde Rodano è pieno.Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna
e saltò Rubicon, fu di tal volo,
che nol seguiteria lingua né penna.Inver’ la Spagna rivolse lo stuolo,
poi ver’ Durazzo, e Farsalia percosse
sì ch’al Nil caldo si sentì del duolo.Antandro e Simoenta, onde si mosse,
rivide e là dov’ Ettore si cuba;
e mal per Tolomeo poscia si scosse.Da indi scese folgorando a Iuba;
onde si volse nel vostro occidente,
ove sentia la pompeana tuba.
Si passa poi a celebrare Ottaviano Augusto di cui sono celebrate le punizioni inflitte ai Cesaricidi e a Cleopatra. La morte di Bruto e Cassio corrisponde alla dannazione eterna che Dio ha loro inflitto, condannandoli a essere lacerati dalle fauci di Lucifero, quindi ancora di evidenzia come l’opera di giustizia imperiale corrisponda alla giustizia divina.
Di quel che fé col baiulo seguente,
Bruto con Cassio ne l’inferno latra,
e Modena e Perugia fu dolente.Piangene ancor la trista Cleopatra,
che, fuggendoli innanzi, dal colubro
la morte prese subitana e atra.Con costui corse infino al lito rubro;
con costui puose il mondo in tanta pace,
che fu serrato a Giano il suo delubro.
La lunga digressione storica che ripercorre le vicende dell’aquila imperiale da Pallante fino a Giulio Cesare e Ottaviano evidenzia l’intervento della Provvidenza divina nella Storia: tutte le vicende imperiali sono finalizzate a creare le condizioni di pace adatte alla venuta del Cristo, al riconoscimento legale della morte di Cristo stesso con Ponzio Pilato, infine a punire la morte di Gesù con la distruzione di Gerusalemme operata da Tito.
Il salto fino a Carlo Magno serve a Dante per sottolineare la continuità tra l’Impero Romano, voluto dalla Provvidenza, e quello Carolingio altrettanto provvidenziale.
Ma ciò che ’l segno che parlar mi face
fatto avea prima e poi era fatturo
per lo regno mortal ch’a lui soggiace,diventa in apparenza poco e scuro,
se in mano al terzo Cesare si mira
con occhio chiaro e con affetto puro;ché la viva giustizia che mi spira,
li concedette, in mano a quel ch’i’ dico,
gloria di far vendetta a la sua ira.
La resurrezione di Cristo diede a Dio la soddisfazione (vendetta) di veder sconfitto il peccato compiuto da Adamo ed Eva, che aveva provocato la sua ira e la cacciata dall’Eden. Il fatto che la crocifissione e la resurrezione di Cristo siano avvenute sotto il regno di Tiberio è una gloria per l’impero e un ulteriore conferma della missione divina da compiere nella storia.
Or qui t’ammira in ciò ch’io ti replìco:
poscia con Tito a far vendetta corse
de la vendetta del peccato antico.E quando il dente longobardo morse
la Santa Chiesa, sotto le sue ali
Carlo Magno, vincendo, la soccorse.
Tutte le precedenti sequenze storiche alternano elenchi di nomi piuttosto opachi a vividi sprazzi: la loro drammaticità risiede dal punto di vista formale nella stringatezza, nella rapidità allusiva di certi versi, nella funzione di certe iterazioni di termini. Il contenuto non ha una finalità meramente storica, ma veicola un messaggio teologico-storico che anima le terzine e le serra in una concezione unitaria.
Omai puoi giudicar di quei cotali
ch’io accusai di sopra e di lor falli,
che son cagion di tutti vostri mali.L’uno al pubblico segno i gigli gialli
oppone, e l’altro appropria quello a parte,
sì ch’è forte a veder chi più si falli.
L’aquila è simbolo della giustizia al di sopra delle fazioni. I Guelfi, identificati con lo stemma angioino dei gigli gialli, e i Ghibellini la combattono o se ne appropriano, travisandone entrambi il senso.
Faccian li Ghibellin, faccian lor arte
sott’ altro segno, ché mal segue quello
sempre chi la giustizia e lui diparte;e non l’abbatta esto Carlo novello
coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli
ch’a più alto leon trasser lo vello.Molte fïate già pianser li figli
per la colpa del padre, e non si creda
che Dio trasmuti l’armi per suoi gigli!
La storia dell’aquila termina con un’invettiva contro i Ghibellini, invitati a utilizzare un altro simbolo senza appropriarsi di quello che deve rappresentare tutta l’umanità, e contro i Guelfi, che sono ammoniti della inutilità della loro lotta, poiché l’impero ha sconfitto ben altri nemici. Dante conclude con il tema classici dei figli che scontano le colpe dei padri, probabilmente riferito a Carlo II d’Angiò che perdette la Sicilia a causa del malgoverno del padre Carlo I.
Gli spiriti attivi del cielo di Mercurio. Romeo da Villanova (vv. 112–142)
Questa picciola stella si correda
d’i buoni spirti che son stati attivi
perché onore e fama li succeda:e quando li disiri poggian quivi,
sì disvïando, pur convien che i raggi
del vero amore in sù poggin men vivi.Ma nel commensurar d’i nostri gaggi
col merto è parte di nostra letizia,
perché non li vedem minor né maggi.Quindi addolcisce la viva giustizia
in noi l’affetto sì, che non si puote
torcer già mai ad alcuna nequizia.Diverse voci fanno dolci note;
così diversi scanni in nostra vita
rendon dolce armonia tra queste rote.
Gli spiriti dei cieli della Luna, di Mercurio e di Venere sono ancora in qualche modo legati alle esperienze terrene, pe cui la loro vita, per quanto buona e virtuosa, è stata in ogni caso meno spirituale di quella dei beati delle sfere superiori. Nonostante questa minore considerazione, questi spiriti non possono che accettare lietamente il grado che Dio ha assegnato loro, perché la decisione è rispondente alla volontà divina e all’applicazione della sua giustizia. Tale mancanza di invidia è riaffermata nell’ultima terzina, dove il paragone con il coro evidenzia come la diversità delle anime, che sono in Paradiso per meriti differenti, non impedisca loro di creare l’armonia, come le diverse voci e note creano una dolce armonia.
E dentro a la presente margarita
luce la luce di Romeo, di cui
fu l’ovra grande e bella mal gradita.Ma i Provenzai che fecer contra lui
non hanno riso; e però mal cammina
qual si fa danno del ben fare altrui.Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina,
Ramondo Beringhiere, e ciò li fece
Romeo, persona umìle e peregrina.E poi il mosser le parole biece
a dimandar ragione a questo giusto,
che li assegnò sette e cinque per diece,indi partissi povero e vetusto;
e se ’l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe
mendicando sua vita a frusto a frusto,assai lo loda, e più lo loderebbe.
La figura di Romeo da Villanova (conte di Provenza, ministro di Berengario IV), a cui sono dedicate le terzine conclusive del canto, non rappresenta una deviazione o un rimpicciolimento d’orizzonte rispetto al volo dell’aquila-giustizia; dalla storia della giustizia si passa all’esempio di un giusto, che costituisce la celebrazione di chi, per aver voluto praticare la giustizia in terra, ha incontrato ingratitudine e dolore, dimostrando fermezza e forza d’animo con un trasparente richiamo all’esperienza del poeta stesso.