I cristalli

Italo Calvino, Le cosmocomiche, T con zero

Luca Pirola
5 min readApr 8, 2022

Nel secondo periodo della sua produzione Calvino dimostra un vivo interesse per la scienza che frutta la pubblicazione delle Cosmocomiche nel 1965. Le teorie sull’origine del cosmo e della vita forniscono lo spunto per i racconti in cui la scienza viene mescolata a esperienze di vita quotidiana.

Le cosmicomiche possono essere considerate come una storia dell’universo dalla sua creazione e nelle sue continue modificazioni, l’opera si configura come una cosmogonia e al tempo stesso come una metafora dell’esistenza, perché ciò che intende analizzare Calvino, attraverso le storie sull’universo e sul mondo, è ancora una volta l’uomo contemporaneo.

Il racconto, come tutti quelli della raccolta Le cosmicomiche, prende il via da un enunciato scientifico che viene sviluppato in modo molto personale da Qfwfq, il protagonista-voce narrante. I cristalli fa parte dell’ultima serie di racconti, intitolati T con zero espressione che indica il “Tempo Zero”, cioè il momento iniziale di un processo, poi analizzato nella sequenza degli sviluppi successivi. I cristalli tratta in modo narrativo alcune riflessioni sul caos del mondo e sulla razionalità ordinatrice che vi si opporrebbe.

Se le sostanze che costituivano il globo terrestre allo stato incandescente avessero avuto a disposizione un tempo sufficientemente lungo per raffreddarsi e una sufficiente libertà di movimento, ognuna di esse si sarebbe separata dalle altre in un unico enorme cristallo.

L’enunciato scientifico che dà origine al racconto costituisce l’oggetto della narrazione esprime attraverso le frasi ipotetiche una possibilità potenziale che poi non si è realizzata.

Avrebbe potuto essere diverso, lo so — commentò Qfwfq, — ditelo a me: ci ho creduto tanto, in quel mondo di cristallo ce doveva venir fuori, da non rassegnarmi più a vivere in questo, amorfo e sbriciolato, gommoso, come invece ci è toccato […] non li rimpiango certo, quei tempi: se a sentirmi scontento delle cose come stanno, v’aspettate che ricordi con nostalgia il passato, vi sbagliate. Era orribile, la Terra senza crosta, un eterno inverno incandescente, un pantano minerale con neri gorghi di ferro e nichel che colavano giù da ogni crepa verso il centro del globo, e getti di mercurio che sprizzavano altissimi zampilli. Ci facevamo largo in una ribollente foschia, Vug [personaggio femminile (per quanto la natura informe dei personaggi in questa età del mondo consenta una simile designazione) che non compare altrove nell’opera] e io, e non riuscivamo mai a toccare un punto solido. Una barriera di rocce liquide che ci trovavamo di fronte evaporava d’improvviso davanti a noi, si disfaceva in un’acida nube; ci lanciavamo per superarla, e già la sentivamo condensarsi a investirci come una tormenta di pioggia metallica che gonfiava le onde dense d’un oceano d’alluminio. La sostanza delle cose cambiava intorno a noi di minuto in minuto, ossia gli atomi da uno stato di disordine passavano a un altro stato di disordine e poi ad un altro ancora: cioè in pratica tutto restava sempre uguale. Il solo vero cambiamento sarebbe stato il disporsi degli atomi in un ordine qualsiasi: era questo che Vug e io cercavamo di muoverci nella mescolanza degli elementi senza punti di riferimento, senza un prima e un dopo.

Il mondo in origine è un magma mutevole di gomma una sostanza molle, informe, vile, una sorta di fanghiglia. Questo ambiente è descritto da Qfwfq, un essere vecchio quanto il mondo e sempre in trasformazione. Nel descrivere la situazione caotica in cui la sostanza delle cose cambia di minuto in minuto la dialettica tra ordine e disordine si esplicita attraverso i desideri di Qfwfq di un mondo in cui il disporsi degli atomi avrebbe creato un ordine qualsiasi.

Qfwfq segue il corso dei suoi ricordi, passando dal passato primordiale al presente: dopo aver rievocato l’universo indeterminato, assume i panni di un impegnato uomo d’affari di New York, proiettando la narrazione in una dimensione contemporanea

Adesso la situazione è diversa, lo ammetto: ho un orologio da polso, confronto l’angolo con le sue lancette con quello di tutte le lancette che vedo; ho un’agenda in cui è segnato l’orario dei miei impegni di lavoro; ho un libretto degli assegni sulle cui matrici sottraggo e addiziono numeri. A Penn Station scendo dal treno, prendo il subway, sto in piedi reggendomi con una mano al sostegno e con l’altra tenendo alzato il giornale ripiegato su cui scorro i numeri delle quotazioni di borsa: sto al gioco, insomma, al gioco di fingere che ci sia un ordine nel pulviscolo, una regolarità nel sistema, o una compenetrazione di sistemi diversi ma comunque misurabili sebbene incongrui, tale da far combaciare ogni granulosità nel disordine la sfaccettatura di un ordine che subito si sbriciola. […]

Anche nelle vesti dell’agente di borsa di Manhattan Qfwfq riflette sul rapporto tra l’ordine e il disordine, pensiero che regge tutta la narrazione; qui definisce la sua esistenza una finzione di stare al gioco di fingere un ordine nel pulviscolo dell’universo.

Dal mondo “liquido” originario finalmente cominciano a spuntare forme solide e definite di cristalli: un rigoglio naturale, una gelida primavera di quarzo. Qfwfq ritorna quindi alle remotissime origini, rievocando il desiderio di un ordine universale concretizzato in un cristallo totale di berillio, minerale costituito da cristalli prismatici regolari.
La contrapposizione tra il mondo cristallizzato in rigorose forme geometriche e la natura composita e informe delle rocce e dei minerali rappresenta la contrapposizione tra due opposte visioni del mondo: quella maschile e quelle femminile, incarnate dai due personaggi Qfwfq e Vug. La drammatica antitesi tra le due visioni è continuamente ripetuta, fino al prevalere di quella del personaggio femminile: nel mondo ha prevalso ciò che è amorfo, sbriciolato e gommoso.

Una vallata di berillio s’apriva allo scoperto, circondata da crinali di ogni colore, dall’acquamarina allo smeraldo. Io tenevo dietro a Vug con l’animo diviso tra felicità e timore: felicità a vedere come ogni sostanza che componeva il mondo trovasse una sua forma definitiva e salda, e un timore ancora indeterminato che questo trionfare dell’ordine in fogge tanto varie potesse riprodurre su un’altra scala il disordine che c’eravamo appena lasciati alle spalle. Un cristallo totale, io sognavo, un topazio-mondo, che non lasciasse fuori niente: ero impaziente che la nostra Terra si separasse dalla ruota di gas e polvere in cui vorticano tutti i corpi celesti, fosse la prima a sfuggire a quel disperdimento inutile che è l’universo.
Certo, volendo, uno può anche mettersi in testa di trovare un ordine nelle stelle, nelle galassie, nelle finestre illuminate dei grattacieli vuoti dove il personale della pulizia tra le nove e mezzanotte dà la cera agli uffici. Giustificare, il gran lavoro è questo, giustificare se non volete che tutto si sfasci. Stasera ceniamo in città, in un ristorante sul terrazzo di un ventiquattresimo piano. É una cena d’affari; siamo in sei, c’è anche Dorothy, e la moglie di Dick Bemberg. Mangio delle ostriche, guardo una stella che si chiama (se è quella) Betelgeuse. Conversiamo, noi, di produzione; le signore, di consumo. Del resto, vedere il firmamento è difficile: le luci di Manhattan si dilatano in un alone che s’impasta con la luminosità del cielo.

Qfwfq ha, tuttavia, la consapevolezza del prevalere del disordine cosmico, perché concepisce la realtà del mondo come un ordine provvisorio (un timore ancora indeterminato che questo trionfare dell’ordine in fogge tanto varie potesse riprodurre su un’altra scala il disordine che c’eravamo appena lasciati alle spalle). Nell’irrealizzabile desiderio di Qfwfq di ricondurre il caos a un ordine razionale, Calvino esprime il compito morale della letteratura di interpretare il disordine della realtà al fine di comprendere la finalità dell’umanità: Giustificare, il gran lavoro è questo, giustificare se non volete che tutto si sfasci.

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Luca Pirola
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Written by Luca Pirola

History and Italian literature teacher

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