I golosi e l’invettiva contro Firenze
Dante, Inferno, canto 6°
Tempo: venerdì 25 marzo, verso mezzanotte
Luogo: cerchio III; una pioggia incessante di acqua sporca, neve e grandine cade sulla terra che esala fetore.
Pena e peccatori: i golosi sommersi dal fango sono battuti dalla pioggia sudicia, maledetta, fredda, greve, assordati e Cerbero. Sono puniti i cinque sensi: olfatto con il puzzo, udito con i latrati, la vista con l’ambiente grigio e incolore, il gusto con la monotonia rispetto alla varietà dei cibi.
Contrappasso: i golosi vollero soddisfare il gusto, ora sono afflitti dalla pena più disgustosa; vollero saziare la gola con bevande raffinate, ora sono disgustati dall’acqua tinta. Avidi, sono preda dell’avidità di Cerbero.
Prima sequenza: il girone dei golosi e il mostro Cerbero (vv. 1- 33)
Dante utilizza l’espediente dello svenimento per omettere le circostanze del passaggio da un cerchio a quello successivo: l’inizio del canto presenta improvvisamente una nuova schiera di dannati in un ambiente completamente diverso dallo struggente racconto di Francesca e Paolo.
Al tornar de la mente, che si chiuse
dinanzi a la pietà d’i due cognati,
che di trestizia tutto mi confuse, 3novi tormenti e novi tormentati
mi veggio intorno, come ch’io mi mova
e ch’io mi volga, e come che io guati. 6
Tristezza (v.3) è usato da Dante nel senso di “dolore interiore”, mentre nel resto del poema indica la “malvagità”; Dante confessa qui di essere turbato per il dramma d’amore ma anche per la consapevolezza che il vizio della lussuria è radicato nel suo cuore.
L’andamento anaforico (novi … novi; come … come vv.4–6) serve a esprimere la meraviglia di Dante per il gran numero di coloro che si sono dedicati unicamente alla soddisfazione del vizio.
Io sono al terzo cerchio, de la piova
etterna, maladetta, fredda e greve;
regola e qualità mai non l’è nova. 9Grandine grossa, acqua tinta e neve
per l’aere tenebroso si riversa;
pute la terra che questo riceve. 12
Il cerchio si contraddistingue per l’incessante e sempre uguale pioggia etterna, maladetta, fredda e greve (v. 8); la maledizione è una caratteristica di tutte gli elementi infernali, la pesantezza delle precipitazioni opprime i dannati che soffrono nel sopportarla. La pioggia e la grandine sono sempre uguali, con la medesima intensità, senza conoscere variazioni o soste, simbolo dell’eternità della pena.
I golosi sono immersi nel fango, incapaci di risollevarsi: il poeta ha voluto così rappresentare come la gola sia origine di gravi infermità fisiche e causa di degradazione della dignità umana, tanto da ridurre il corpo a un triste spettacolo di corruzione. In questo si può vedere un contrappasso per analogia con la colpa commessa: la pena non è che un aggravamento delle condizioni in cui il vizio riduce gli stessi golosi. L’indicazione della terra maleodorante (pute la terra v.12) aggiunge un’ulteriore annotazione sulla pena dei golosi e sul contrappasso: la soddisfazione dell’odorato tramite i cibi è punita dagli opprimenti miasmi che si levano dalla terra, in cui sono costretti a rimanere sprofondati.
Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa. 15Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e ’l ventre largo, e unghiate le mani;
graffia li spirti ed iscoia ed isquatra. 18Urlar li fa la pioggia come cani;
de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo;
volgonsi spesso i miseri profani. 21
Il guardiano che tormenta i dannati è Cerbero, cane mostruoso a tre teste posto dalla mitologia classica a guardia dell’Ade. Dante lo trasforma nel simbolo di un’esagerata severità e della voracità insaziabile con i tratti dell’aspetto (occhi rossi, barba sudicia, mani unghiate, ventre obeso) delle conseguenze della golosità. Le tre gole di Cerbero rappresentano i tre modi in cui si soddisfa il vizio della gola: qualità, quantità e continuità.
In questo canto si registra un abbassamento del linguaggio, che diventa comico realistico, perché Dante sta presentando il peccato della gola, vile e spregevole, che degrada l’uomo a livelli animaleschi togliendogli ogni parvenza di umanità.
I dannati urlano come cani (v. 19) perché sono degradati, hanno perso la loro umanità, tanto che voltandosi su se stessi cercano inutilmente di trovare riparo dalla pioggia e dalle zampe di Cerbero usando i compagni di pena come schermo.
Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
le bocche aperse e mostrocci le sanne;
non avea membro che tenesse fermo. 24E ’l duca mio distese le sue spanne,
prese la terra, e con piene le pugna
la gittò dentro a le bramose canne. 27
Virgilio quieta Cerbero con una manciata di terra gettata nelle sue zanne; l’espediente da un lato riprende la focaccia che la sibilla offre al mostro nell’Eneide, dall’altro mostra la facilità nel superare questo ostacolo, che corrisponde alla facilità che Dante attribuisce al non indulgere nel vizio della gola.
Qual è quel cane ch’abbaiando agogna,
e si racqueta poi che ’l pasto morde,
ché solo a divorarlo intende e pugna, 30cotai si fecer quelle facce lorde
de lo demonio Cerbero, che ’ntrona
l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde. 33
la similitudine tratta dal mondo animale riprende i caratteri di voracità e rabbia propri dei cani, che aggravano la greve atmosfera del girone dei golosi.
Seconda sequenza: Ciacco, l’invettiva politica e la profezia (vv. 34–75)
Noi passavam su per l’ombre che adona
la greve pioggia, e ponavam le piante
sovra lor vanità che par persona. 36Elle giacean per terra tutte quante,
fuor d’una ch’a seder si levò, ratto
ch’ella ci vide passarsi davante. 39
Proseguendo nel girone Dante eVirgilio si fanno strada calpestando le anime adagiate a terra che sembrano persone (par persona v. 36), infatti le anime hanno aspetto uno, ma la loro essenza è spirituale. Ad un tratto un’anima si solleva dal fango e — riconoscendo Dante — lo interpella chiedendogli se lo riconosce. Infatti egli dice che Dante nacque (fosti fatto v. 42) prima che lui morisse (prima ch’io disfatto v. 42). Questo personaggio è Ciacco, un fiorentino contemporaneo di Dante su cui non si ha nessuna notizia se non quelle fornite dal poema. Di certo, il fatto che Ciacco, a differenza degli altri dannati del cerchio, riesca a sollevarsi dal fango, indica che nonostante il suo vizio fosse un personaggio stimato dal poeta che lo inserisce per denunciare la situazione di Firenze, rovinosamente dilaniata da lotte senza fine.
“O tu che se’ per questo ’nferno tratto”,
mi disse, “riconoscimi, se sai:
tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto”. 42E io a lui: “L’angoscia che tu hai
forse ti tira fuor de la mia mente,
sì che non par ch’i’ ti vedessi mai. 45Ma dimmi chi tu se’ che ’n sì dolente
loco se’ messo, e hai sì fatta pena,
che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente”. 48
Il v. 42 (tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto) accosta disfatto e fatto, due termini estremi della vita e della morte nella concretezza dura del “farsi” e “disfarsi” del corpo. Si collega a questo concetto la risposta di Dante, che — a causa della sofferenza (angoscia v. 43) patita dal dannato non lo riconosce. Dante non è ancora consapevole del dolore che si prova nell’Inferno, essendo solo all’inizio del suo viaggio nell’oltretomba.
Ed elli a me: “La tua città, ch’è piena
d’invidia sì che già trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena. 51Voi Cittadini mi chiamaste Ciacco
per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco. 54E io anima trista non son sola,
ché tutte queste a simil pena stanno
per simil colpa”. E più non fé parola. 57
Prima di svelare il suo nome (al v. 52), Ciacco si rammarica della situazione di Firenze, da cui la morte lo ha allontanato per sempre, ma per la quale vibra ancora di nostalgia e di profondo amore. Il rispetto che Dante dimostra per Ciacco deriva anche da questa comunanza di destino, dalla nostalgia per la patria perduta. Tramite Ciacco Dante individua nell’invidia (sentimento diabolico che ha fatto entrare il peccato e la morte nel mondo — Sapienza, 2, 24) la causa delle gravi disgrazie di Firenze, accanto alla superbia e all’avarizia, come dirà al . 74.
Ciacco rimpiange la sua vita terrena, definendola serena (v. 51), per la triste condizione di dannato che gli fa rimpiangere la vita passata, in opposizione alla sofferenza provocata dalla dannosa colpa, detta così perché Ciacco ha compreso, pur se tardivamente, il suo errore.
Quando si è presentato Ciacco si tace (E più non fé parola v. 57); la sola iniziativa che ha preso è stata quella di fermare il poeta perché lo riconosca e sottragga il suo nome e il suo volto da quella triste palude. Anche in seguito, esaurita la risposta (v. 76), interromperà bruscamente il discorso e alla fine, dopo la richiesta di ricordarlo nel dolce mondo (v. 88), si immergerà senza indugio nel pantano con un atteggiamento sdegnoso, nonostante la sua misera condizione.
Io li rispuosi: “Ciacco, il tuo affanno
mi pesa sì, ch’a lagrimar mi ’nvita;
ma dimmi, se tu sai, a che verranno 60li cittadin de la città partita;
s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione
per che l’ ha tanta discordia assalita”. 63
Per la prima volta nella Commedia Dante parla della “sua” Firenze e affronta il tema politico che svilupperà nei canti 6 di ogni cantica con una prospettiva sempre più ampia (Firenze qui, l’Italia nel Purgatorio e l’Impero nel Paradiso).
Dante chiede a Ciacco quale sarà l’esito delle lotte tra le fazioni (a che verranno/li cittadin de la città partita vv. 60–61), perché i dannati hanno una visione confusa del presente, ma sono in grado per disposizione divina di discernere il futuro. Domanda poi se c’è qualche giusto e i motivi della discordia che attanaglia Firenze). Dante, infatti, spera nell’intervento di un giusto cioè di una persona con una levatura morale e umana speciale che riuscirà a prevalere sul male.
E quelli a me: “Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà l’altra con molta offensione. 66Poi appresso convien che questa caggia
infra tre soli, e che l’altra sormonti
con la forza di tal che testé piaggia. 69Alte terrà lungo tempo le fronti,
tenendo l’altra sotto gravi pesi,
come che di ciò pianga o che n’aonti. 72
Ciacco ripercorre gli eventi storici di Firenze nella seconda metà del XIII secolo: dopo la lunga lotta contro i Ghibellini (Dopo lunga tencione v. 64) i guelfi bianchi, guidati dalla famiglia dei Cerchi — definiti parte selvaggia (v. 65) perché provenienti dalla campagna — si scontrerà (verranno al ssangue v. 65) con i guelfi neri, capeggiati dai Donati e li cacceranno dalla città. Poi entro tre anni (tre soli v. 68) la sorte cambia e i neri prenderanno il sopravvento con l’appoggio di papa Bonifacio VIII, nominato in modo spregiativo con tal (v. 69) per l’avversione provata da Dante per la politica papale. (nota storica: Bonifacio VIII inviò Carlo di Valois, re di Francia, a pacificare Firenze con l’intento di favorire il rientro dei neri). Il rientro dei neri provoca l’esilio dei bianchi, tra cui lo stesso Dante.
Giusti son due, e non vi sono intesi;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c’ hanno i cuori accesi”. 75
Al secondo quesito Ciacco risponde che ci sono due giusti, ma non sono ascoltati (v. 73); il numero ha un valore indeterminato, per indicare un esigua quantità. Infine Ciacco indica nella superbia, invidia e avarizia (v. 74) le tre cause delle lotte intestine.
Le parole di Ciacco costituiscono un’analisi amara, quasi senza passione e foga, una constatazione lucida e fredda della situaizone politica della città. Egli parla solo su invito, limitandosi a rispondere alle domande che Dante gli ha posto e, come buon politico e conoscitore della realtà interna della città, ha la capacità di prevederne il triste futuro.
Terza sequenza: il congedo da Ciacco e la condizione delle anime dopo il Giudizio (vv. 76–115)
Qui puose fine al lagrimabil suono.
E io a lui: “Ancor vo’ che mi ’nsegni
e che di più parlar mi facci dono. 78Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni,
Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca
e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni, 81dimmi ove sono e fa ch’io li conosca;
ché gran disio mi stringe di savere
se ’l ciel li addolcia o lo ’nferno li attosca”. 84
Dante chiede quale sia il destino di fiorentini illustri. Si presenta qui un altro elenco di personaggi, qui tutti di origine toscana distintisi per l’impegno politico per la propria città (che fuor sì degni, v. 79 e ch’a ben far puoser li ’ngegni, v. 81) e appartenenti alla generazione precedente a quella del poeta. Il passato, in contrasto con la degenerazione del presente, è idealizzato e tratteggiato come momento di grande concordia e buon governo.
Il v. 84 (se ’l ciel li addolcia//o lo ’nferno li attosca) è diviso in due emistichi simmetrici che mettono in antitesi il Paradiso e l’Inferno, il regno del bene e quello del male.
E quelli: “Ei son tra l’anime più nere;
diverse colpe giù li grava al fondo:
se tanto scendi, là i potrai vedere. 87Ma quando tu sarai nel dolce mondo,
priegoti ch’a la mente altrui mi rechi:
più non ti dico e più non ti rispondo”. 90
Ciacco rivela che questi di cui Dante chiede informazioni sono tra le anime più nere (v. 85), cioè tra i peccatori più lontani da Dio, perché le loro colpe sono tra le più gravi. La risposta di Ciacco rende ancora più stridenti l’antitesi tra l’ansia affettiva di Dante e il crudo destino di questi personaggi.
Ciacco conclude il suo discorso con la richiesta di esser ricordato ai viventi, misera consolazione per chi è condannato all’eternità infernale.
Li diritti occhi torse allora in biechi;
guardommi un poco e poi chinò la testa:
cadde con essa a par de li altri ciechi. 93
Infine Ciacco ricade nella melma, ma i suoi occhi continuano a guardare Dante e, nello sforzo diventano biechi (v. 91) Il peccatore ha mantenuto sempre una decorosa fierezza, anche nella richiesta di esser ricordato nel mondo, e la sua caduta nel luogo di tormento avviene senza parole. Ciacco passa dalla condizione di quasi umanità del dialogo con Dante allo stato di animalità dei dannati, mentre nel suo sguardo si spegne poco a poco ogni traccia di umanità, poi china la testa e privo di ogni traccia di umanità cade finalmente all’ingiù tra gli altri ciechi (v. 93), senza vista perché privi della luce di Dio. La cecità è intesa in senso morale, come dannazione dell’anima.
E ’l duca disse a me: “Più non si desta
di qua dal suon de l’angelica tromba,
quando verrà la nimica podesta: 96ciascun rivederà la trista tomba,
ripiglierà sua carne e sua figura,
udirà quel ch’in etterno rimbomba”. 99
L’intervento di Virgilio ha un tono solenne, quasi minaccioso e profetico, per il ripetersi dei tempi all’infinito. Virgilio descrive il giorno del giudizio, annunciato dalla tromba (v. 95)che annuncia la resurrezione dei morti. Cristo (nimica potesta v. 96 dalla prospettiva dei dannati) come giudice supremo verrà per distinguere i dannati dai salvati. In quel momento ogni anima si ricongiungerà con il corpo materiale (ripiglierà … figura v. 98) per condividere il castigo eterno.
Sì trapassammo per sozza mistura
de l’ombre e de la pioggia, a passi lenti,
toccando un poco la vita futura; 102per ch’io dissi: “Maestro, esti tormenti
crescerann’ei dopo la gran sentenza,
o fier minori, o saran sì cocenti?”. 105
Dante prende spunto dalle parole di Virgilio per una digressione teologica e dottrinale sul problema della riunificazione del corpo e dell’anima dopo il giudizio universale e della definitiva condizione dei dannati. Infatti chiede — secondo il metodo della quaestio se dopo quel momento cresceranno le pene e i tormenti (v. 105).
Ed elli a me: “Ritorna a tua scïenza,
che vuol, quanto la cosa è più perfetta,
più senta il bene, e così la doglienza. 108Tutto che questa gente maladetta
in vera perfezion già mai non vada,
di là più che di qua essere aspetta”. 111
Il maestro invita Dante a rifarsi alla filosofia scolastica (tua scienza v. 106) che afferma che più ci si accosta alla perfezione più si è sensibili al bene, ma anche al male, più si è in grado di provare gioia, ma anche dolore. L’anima, ricongiungendosi al corpo, raggiunge la perfezione: i beati accresceranno la loro felicità, i dannati la loro sofferenza, anche se questi ultimi non perverranno mai alla vera perfezion (v. 110) che consiste nel vedere e contemplare Dio.
Noi aggirammo a tondo quella strada,
parlando più assai ch’i’ non ridico;
venimmo al punto dove si digrada: 114quivi trovammo Pluto, il gran nemico.
Proseguendo il cammino a tondo (v. 112), perché la struttura dell’Inferno è quella di una cono rovesciato, arrivano a una discesa dove scorgono Pluto, il gran nemico (v. 114). Pluto è il guardiano del cerchio successivo, dove sono puniti gli avari e i prodighi; egli è il gran nemico perché tenterà di impedire il viaggio di Dante e Virgilio, ma specialmente perché è il simbolo dell’attaccamento al denaro e alla ricchezza e rappresenta un grave ostacolo per ogni cristiano che voglia raggiungere la salvezza.