Il canto di Ulisse
Dante, Inferno, canto XXVI
Tempo: sabato 26 marzo 1300, all’ora di mezzogiorno
Luogo: cerchio VIII; il cerchio è costituito da dieci fosse (bolge) disposte in modo concentrico attorno a un pozzo (cerchio IX). Il passaggio da una bolgia all’altra è assicurato da ponti o scogli che scendono verso il centro. L’VIII bolgia è immersa in un profondo silenzio ed è avvolta da una tenebra fittissima in cui lampeggiano le fiamme che nascondono le anime dei dannati.
Pena e peccatori: Sono puniti i consiglieri fraudolenti, cioè coloro che usarono la lingua per dare cattivi consigli, utilizzando la loro astuzia per ingannare gli altri.
Contrappasso: i cattivi consiglieri sono “lingue incendiarie”, perché accesero liti e contrasti in terra senza mettersi direttamente in vista, avvolgendosi, cioè nella frode; ora sono avvolti nelle lingue di fiamma che li tormentano senza pace, come senza pace i loro mali consigli riducevano il mondo. Furono prontissimi a usare la lingua , ora con penoso stento traducono in parole le vibrazioni della lingua di fiamma.
Prima sequenza: invettiva contro Firenze e l’ottava bolgia (vv. 1–54)
Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo ‘nferno tuo nome si spande! 3Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali. 6
L’esordio del canto è direttamente collegato all’incontro di Dante con i ladri fiorentini, avvenuto nella bolgia precedente. Il discorso sdegnoso fissa definitivamente l’opinione di Dante esule verso la sua città natale.
Il disprezzo di Dante nasce dalla constatazione della fama di Firenze, che contribuisce a popolare l’Inferno con tanti illustri cittadini
Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai, di qua da picciol tempo,
di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna. 9E se già fosse, non saria per tempo.
Così foss’ei, da che pur esser dee!
ché più mi graverà, com’ più m’attempo. 12
Il destino preannunciato della città è di rovina, come preannunciato da un sogno mattutino, ritenuto profetico da Dante; il poeta afferma che in breve tempo Prato e gli altri nemici esulteranno per le disgrazie della superba Firenze. Gli ultimi due versi, invece, esprimono l’amarezza di Dante che se da un lato si augura che il destino rovinoso presto si compia (v. 11) dall’altro rivela di non poter attendere oltre la disgrazia della sua città — cui è ancora legato sentimentalmente — perché l’attesa lo addolora più che la rovina.
Noi ci partimmo, e su per le scalee
che n’avea fatto iborni a scender pria,
rimontò ’l duca mio e trasse mee; 15e proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra ’ rocchi de lo scoglio
lo piè sanza la man non si spedia. 18
Dante e Virgilio proseguono, poi, nella discesa con difficoltà per il terreno talemente accidentato da obbligarli a procedere appoggiando le mani.
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio, 21perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi. 24
La riflessione del poeta quasi introduce l’ottava bolgia. Dante avverte la necessità di tenere a freno l’ingegno che la buona sorte (stella bona v. 23, cioè la costellazione dei gemelli sotto il cui segno è nato Dante)e la Provvidenza (miglior cosa) gli hanno donato, perché sia sempre indirizzato verso il bene, a servizio della verità e della giustizia, non come i peccatori qui puniti.
Quante ’l villan ch’al poggio si riposa,
nel tempo che colui che ’l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa, 27come la mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
forse colà dov’e’ vendemmia e ara: 30di tante fiamme tutta risplendea
l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi
tosto che fui là ’ve ’l fondo parea. 33
La prima similitudine del canto, tratta dalla vita quotidiana, è introso di rassicurante serenità domestica. Dante paragona la posizione del contadino che guarda la pianura alla sua in cima al ponte (tosto che fui là ’ve ’l fondo parea, v. 33 e cfr. v. 43) che guarda nel fosso della bolgia; contemporaneamente la luce delle lucciole rappresenta il bagliore delle fiamme scorte nella bolgia stessa.
La metafora del villan, che dall’alto del colle si riposa e osserva le lucciole nella pianura (vv. 29- 30), si incastra con altre due metafore per indicare l’estate (nel tempo che colui che ’l mondo schiara/la faccia sua a noi tien meno ascosa, vv. 26- 27) e il crepuscolo (come la mosca cede a la zanzara, v. 28); questa scelta crea una concatenazione di metafore che si incastrano a vicenda ottenendo un effetto stilistico molto raffinato.
E qual colui che si vengiò con li orsi
vide ’l carro d’Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi, 36che nol potea sì con li occhi seguire,
ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù salire: 39tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra ’l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola. 42
La seconda similitudine è di derivazione biblica: Dante paragona le fiammelle (tal si move ciascuna per la gola/del fosso, vv. 40–41) che avvolgono gli spiriti di questa bolgia al carro di fuoco che rapì il profeta Elia in cielo (vedesse altro che la fiamma sola,/sì come nuvoletta, in sù salire, v. 38- 39), sotto gli sguardi meravigliati e increduli del suo discepolo Eliseo (2 Re 2, 11–12). Eliseo, poi, è indicato con una perifrasi (E qual colui che si vengiò con li orsi, v. 34) che si basa su un altro episodio biblico. Questi riferimenti biblici conferiscono al racconto autorevolezza e importanza.
Io stava sovra ’l ponte a veder surto,
sì che s’io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù sanz’esser urto. 45E ’l duca, che mi vide tanto atteso,
disse: “Dentro dai fuochi son li spirti;
catun si fascia di quel ch’elli è inceso”. 48
Dante è tanto intento a osservare le fiamme che rischia di cadere (vv. 43–45); Virgilio, vedendolo estremamente curioso, gli spiega che ogni fiammella nasconde un’anima.
“Maestro mio”, rispuos’io, “per udirti
son io più certo; ma già m’era avviso
che così fosse, e già voleva dirti: 51chi è ’n quel foco che vien sì diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov’Eteòcle col fratel fu miso?”. 54
Dante risponde che gli era già venuto in mente che fosse sociale, perciò chiede chi è racchiuso in una fiamma con due punte di diversa grandezza, che sembra scaturire dal rogo dove furono cremati Eteocle e Polinice. Il riferimento a Eteocle riprende la tragedia greca che narra che — dopo che i due fratelli perirono in una lotta fratricida — le loro salme furono cremate insieme, ma la fiamma salita dalla pira sembrava dividersi l’una dall’altra, quasi l’odio tra i due fratelli perdurasse anche dopo la morte.
Seconda sequenza: Ulisse e Diomede (vv. 55–84)
Rispuose a me: “Là dentro si martira
Ulisse e Dïomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a l’ira; 57e dentro da la lor fiamma si geme
l’agguato del caval che fé la porta
onde uscì de’ Romani il gentil seme. 60Piangevisi entro l’arte per che, morta,
Deïdamìa ancor si duol d’Achille,
e del Palladio pena vi si porta”. 63
Inizia in questi versi l’incontro con Ulisse, personaggio omerico trasformato da Dante in un eroe magnanimo, dotato di coraggio e sapienza, ma contemporaneamente ingannatore e falso. Diomede fu suo amico e compagno. I due peccatori, il primo con l’astuzia il secondo con la forza e il coraggio, agirono insieme suscitando l’ira di Dio e insieme scontano la pena, sopportando la vendetta divina (e così insieme/a la vendetta vanno come a l’ira, vv. 56–57).
Anche l’inganno può essere strumento della Provvidenza, perché dal cavallo che permise la distruzione di Troia uscì la discendenza di Roma tramite Enea (onde uscì de’ Romani il gentil seme, v. 60). Si citano poi altre due astuzie di Ulisse: la scoperta del nascondiglio di Achille a Sciro e il furto sacrilego del Palladio.
“S’ei posson dentro da quelle faville
parlar”, diss’io, “maestro, assai ten priego
e ripriego, che ’l priego vaglia mille, 66che non mi facci de l’attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver’ lei mi piego!”. 69
L’intenso desiderio di conoscere le vicende di Ulisse e, soprattutto, l’epilogo della sua vita, è evidente fin da questa accorata richiesta di Dante a Virgilio, piena di trepidazione e impaziente attesa, resa stilisticamente dalla replicazione del verbo (assai ten priego/e ripriego, che ’l priego vaglia mille, v. 65–66).
Ed elli a me: “La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna. 72Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto”. 75
Dante deve stare in silenzio (fa che la tua lingua si sostegna, v. 72) e assistere al dialogo condotto da Virgilio, perché il poeta teme che i due Greci non lo comprendano (ch’ei sarebbero schivi,/perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto, vv. 74–75); meglio che parli Virgilio, esponente della classicità verso cui Dante si pone in rispettoso ossequio.
Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi: 78“O voi che siete due dentro ad un foco,
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
s’io meritai di voi assai o poco 81quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l’un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi”. 84
Virgilio ricorda i suoi meriti per aver cantato le gesta di Ulisse e Diomede, rinverdendo il loro ricordo. Il duca pone subito la domanda fondamentale, chiedendo che uno di loro due riveli dove è andato a morire (vv. 83–84).
Terza sequenza: il racconto di Ulisse (vv. 85–142)
Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica; 87
Ulisse è il maggior corno de la fiamma antica (v. 85) perché era superiore a Diomede nell’astuzia e nell’eloquenza; l’aggettivo antica serve a proiettare il personaggio in una dimensione mitica ed epica.
La fatica di parlare è resa dai contorcimenti della fiamma che mormora ed è affaticata dal vento.
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: “Quando 90mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse, 93né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta, 96vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore; 99ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto. 102
L’Ulisse della Commedia non torna a casa, ma dopo che riuscì a liberare i compagni dagli incanti della maga Circe fa vela verso il mare aperto accompagnato da pochi compagni.
Dante immagina che l’inquietudine di Ulisse non conosca tregua e neppure l’amore per la patria, per il vecchio padre Laerte, per la fedele Penelope e il figlio Telemaco, possa trattenerlo dal riprendere la via del mare, spinto dal desiderio di conoscere terre e genti lontane. Ulisse non appare come un eroe che irride i sentimenti umani e gli onesti affetti familiari, ma semplicemente non li sente come il valore più alto che per lui è rappresentato dal desiderio di divenire esperto del mondo.
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna. 105Io e’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi 108acciò che l’uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta. 111
Dopo un lungo girovagare nel Mediterraneo, Ulisse e i suoi compagni vecchi e tardi (v. 106) giungono allo stretto di Gibilterra, che secondo la leggenda era stato segnato da Ercole con due colonne con un avvertimento ai naviganti non plus ultra perché non si spingessero avanti. Ulisse e i suoi compagni, invece, proseguono lasciando a destra Siviglia (Sibilia, v. 110) e a sinistra Ceuta (Setta, v. 111) e addentrandosi in una regione proibita all’uomo.
“O frati,” dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia 114d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente. 117Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”. 120
L’esortazione di Ulisse ai compagni racchiude le sue motivazioni ed è espressione della dignità umana e del senso della vita. Le parole di Ulisse ne hanno fatto un precursore dell’uomo intollerante dei confini angusti che il destino ha posto alla conoscenza umana e alla scienza, perciò tenta di forzarli. Ulisse diventa così un eroe magnanimo che quasi fa dimenticare a Dante che è punito nell’Inferno tra i consiglieri fraudolenti. Il poeta, tuttavia, condanna Ulisse per la sua audacia tutta umana, quindi destinata al fallimento perché presuntuosa e arrogante, in quanto non riconosce i propri limiti o quelli imposti da Dio.
L’iperbole iniziale (cento milia/perigli, vv. 112–113) indica le innumerevoli insidie e pericoli del viaggio verso la conoscenza, permettendo loro di giungere a l’occidente (v. 113), cioè il luogo dove tramonta il sole, ma anche metaforicamente la fine della propria esistenza. Il tempo rimanente da vivere (a questa tanto picciola vigilia/d’i nostri sensi ch’è del rimanente, vv. 114–115) è considerato da Ulisse una breve attesa della morte; si può, tuttavia, scorgere in queste parole la convinzione — tipica dell’inquieto — che la vita sia una “veglia” dei sensi e che, in quanto tale, si deve realizzare nell’impegno, in una intensa attività senza soste.
La litote non vogliate negar l’esperïenza (v.115) ha quasi il tono della supplica a proseguire nell’inseguimento del sole (di retro al sol) alla ricerca di nuove esperienza, mai vissute da alcuno in un mondo senza gente (v. 117).
L’esortazione finale di Ulisse (fatti non foste a viver come bruti,/ma per seguir virtute e canoscenza, vv. 119–120) identifica l’essere umano con la ricerca della conoscenza. Il cristiano, però, non disgiunge mai da questa profonda e nobile aspirazione alla conoscenza la consapevolezza della sua limitatezza, la sua subordinazione al disegno della Provvidenza che circoscrive il campo di ricerca alla ragione umana. Quando l’indagine razionale non riconosce i limiti morali diventa folle, condannata a un tragico fallimento.
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti; 123e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino. 126Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo. 129
Il discorso di Ulisse convince i compagni che lo seguono senza più esitazione nel folle volo (v. 125). La metafora indica che la nave solca veloce, quasi con frenetico corso il mare. Le acque e i remi diventano ali del volo verso l’ignoto. Il viaggio è definito folle da Ulisse perché giudica la sua impresa a posteriori, quando alla luce dell’eternità ha compreso l’inutilità del suo proposito.
Ulisse si è spinto tanto avanti nel suo ardimentoso viaggio da superare l’equatore (Tutte le stelle già de l’altro polo/vedea la notte, vv. 127–128) Dante, infatti dice che la notte mostrava tutte le stelle dell’altro emisfero. Da questo punto in poi la navigazione di Ulisse è senza punti di riferimento e il peccatore perde completamente l’orientamento.
Dopo cinque mesi il viaggio arduo e disperato (alto passo, v. 132) volge al termine: all’orizzonte appare una montagna indistinta (bruna, v. 133) che inizialemnte riaccende la speranza dei naviganti di giungere a una meta.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo, 132quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna. 135Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto. 138Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque, 141infin che ’l mar fu sovra noi richiuso”.
La gioia per l’avvistamento di una terra dura poco, perché immediatamente subentra la disperazione per un nuovo fatale pericolo: un gorgo trascina la nave di Ulisse a fondo, ponendo fine alla loro impresa. Il gorgo deve essere considerato un intervento prodigioso di Dio (com altrui piacque, v. 141) che intende far valere le sue leggi. La descrizione del naufragio ricorda l’evento che nell’Eneide ha portato i Troiani a naufragare sulle coste di Cartagine, ma si caratterizza per l’essenzialità incisiva e l’assenza di ogni elemento descrittivo.
La morte sopraggiunge ineluttabile per Ulisse e per lo sparuto gruppo di compagni che lo hanno seguito, affascinati dalle promesse e sottomessi dalla sua loquela, quando hanno varcato i confini del mondo allora conosciuto, oltre le colonne d’Ercole, dove mai un uomo era riuscito ad arrivare.
La frase conclusiva infin che ’l mar fu sovra noi richiuso (v. 142) sembra riflettere la restaurazione dell’ordine contro cui era andata a infrangersi la temeraria ansia dell’eroe: il mare che “si richiude” sopra Ulisse e i suoi compagni restituisce l’eterna solitudine sulla spiaggia inviolata del Paradiso terrestre. L’immagine ricorda il richiudersi del Mar Rosso sull’esercito del faraone.