Il fu Mattia Pascal
Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, cap. 18°
La pagina conclusiva del romanzo è occupata da considerazioni su quale “frutto” o lezione si possa imparare dalla storia di Mattia Pascal.
Dopo aver inscenato il suicidio di Adriano Meis il protagonista decide di riprendere la vecchia identità, facendo “risorgere” — per così dire — Mattia Pascal. Tuttavia, tornato a Miragno, Mattia trova una situazione ben diversa da quella che aveva lasciato: sua moglie ha sposato un amico di vecchia data, Pomino; inoltre, i due hanno pure avuto una figlia. Mattia è dunque escluso anche da ciò da cui aveva provato a fuggire e che ora vorrebbe recuperare in extremis. L’ordine sociale (rappresentato dalla famiglia e dal matrimonio, oltre che dal nome e dal cognome che ci identifica di fronte agli altri) isola definitivamente Mattia, che può solo andare ad abitare con la vecchia zia Scolastica e tornare in biblioteca, dove lavora don Eligio, che lo aiuta nella stesura della sua vicenda. Mentre don Eligio afferma che senza stato civile non si può vivere, Pascal è dell’opinione contraria.
Basta. Io ora vivo in pace, insieme con la mia vecchia zia Scolastica, che mi ha voluto offrir ricetto in casa sua. La mia bislacca avventura m’ha rialzato d’un tratto nella stima di lei. Dormo nello stesso letto in cui morì la povera mamma mia, e passo gran parte del giorno qua, in biblioteca, in compagnia di don Eligio, che è ancora ben lontano dal dare assetto e ordine ai vecchi libri polverosi.
Il protagonista torna a narrare la sua situazione presente, quella da cui era partita la storia: egli fotografa una realtà di pace apparente, più simile al riposare dei morti che alla quotidianità dei vivi. Infatti Mattia Pascal di notte dorme nel letto della madre morta, quai a ricongiungersi idealmente con lei, mentre di giorno vive in un altro luogo “morto”: la biblioteca Boccamazza di cui nessuno consulta i volumi. Le sue giornate, dunque, sono vissute entro rifugi provvisori, ricavati fuori dal tempo, sono luoghi marginali, soglie tra la vita e la morte, in cui non si è morti sul piano biologico, ma lo si è di fatto sul piano anagrafico ed esistenziale.
Ho messo circa sei mesi a scrivere questa mia strana storia, ajutato da lui. Di quanto è scritto qui egli serberà il segreto, come se l’avesse saputo sotto il sigillo della confessione.
Abbiamo discusso a lungo insieme su i casi miei, e spesso io gli ho dichiarato di non saper vedere che frutto se ne possa cavare.
— Intanto, questo, — egli mi dice: — che fuori della legge e fuori di quelle particolarità, liete o tristi che sieno, per cui noi siamo noi, caro signor Pascal, non è possibile vivere.
Ma io gli faccio osservare che non sono affatto rientrato né nella legge, né nelle mie particolarità. Mia moglie è moglie di Pomino, e io non saprei proprio dire ch’io mi sia.
La sua paradossale situazione è confermata dal dialogo con don Eligio, che contesta al protagonista che si possa vivere al di fuori delle leggi e delle convenzioni. Mattia è convinto del contrario e si dichiara morto per tutti, infatti ha rinunciato alla sua identità per non far annullare il matrimonio di Romilda e Pomino, quindi non è rientrato nella legalità come sostiene don Eligio.
Nel cimitero di Miragno, su la fossa di quel povero ignoto che s’uccise alla Stìa, c’è ancora la lapide dettata da Lodoletta:
COLPITO DA AVVERSI FATI
MATTIA PASCAL
BIBLIOTECARIO
CVOR GENEROSO ANIMA APERTA
QVI VOLONTARIO
RIPOSA
LA PIETA’ DEI CONCITTADINI
QVESTA LAPIDE POSE
L’iscrizione, dettata dal giornalista che aveva scritto il necrologio di Mattia Pascal, è costruita con i consueti giri di parole (si evita di parlare esplicitamente di parlare di suicidio) con le inversioni e il lessico convenzionalmente letterario delle lapidi ufficiali, tuttavia essa esprime una verità allegorica: Mattia Pascal è ormai un morto. Quel volontario, applicato a un personaggio che non ha potuto agire liberamente ed è stato vittima del caso o di condizionamenti a lui superiori, suona amaramente ironico.
Io vi ho portato la corona di fiori promessa e ogni tanto mi reco a vedermi morto e sepolto là. Qualche curioso mi segue da lontano; poi, al ritorno, s’accompagna con me, sorride, e — considerando la mia condizione — mi domanda:
— Ma voi, insomma, si può sapere chi siete?
Mi stringo nelle spalle, socchiudo gli occhi e gli rispondo:
— Eh, caro mio… Io sono il fu Mattia Pascal.
La battuta finale rispetta la poetica dell’umorismo, infatti il gioco di parole (Io sono il fu) rivela una situazione ridicola (perciò c’è un curioso che sorride) e tragica allo stesso tempo.
L’attuale “terza vita” del protagonista nasce dall’impossibilità di vivere le prime due (quelle di Mattia e di Adriano) ed è una vita svuotata e sospesa in un limbo, intenta a guardare dall’alto le altre due senza potersi riconoscere in nessuna di esse: il suo ormai è un “vedersi vivere”.
La fine del romanzo ribalta l’inizio: nella prima pagina del romanzo, esprimendo la coscienza che aveva prima della conclusione della sua bislacca e strana storia, il protagonista poteva dire: Io mi chiamo Mattia Pascal, sottolineando così il nome della maschera, cioè la convenzione sociale che gli permetteva di essere il “cittadino” Mattia Pascal. Ora la sua esistenza è profondamente cambiata, perché il nome stesso perde la sua funzione identitaria in quanto il fu sancisce un’identità negata. Il ritorno di Mattia a Miragno coincide, perciò, con il suo fallimento e segna la sua disintegrazione dell’identità sociale del protagonista, privo di una famiglia, non riconosciuto dagli altri (che non sanno dove collocarlo) e senza una forma anagrafico-civile (è “fuori legge”).
L’unico modo che il personaggio ha per dimostrare la sua esistenza è la scrittura, la narrazione dei suoi assurdi casi, ma anche su questa attività pesano i dubbi e la sfiducia di Pascal: gli occhi socchiusi con cui Mattia si congeda sono il segno dell’umorismo tragico che svela l’illusorietà di tutte le certezze.
Inizialmente la morale del romanzo sembra risultare che è impossibile vivere al di fuori delle convenzioni sociali. In realtà, la conclusione è diversa: anche se da una parte Adriano Meis ha sperimentato sulla sua pelle che è effettivamente impossibile vivere fuori da un assetto sociale, d’altra parte è anche vero che il fu Mattia Pascal ha imparato a non vivere.