Il gabbiano
Italo Svevo, Una vita, cap. 8
Invitato a una cena da Maller, il direttore della banca, Alfonso conosce la figlia, Annetta, e Macario, un giovane atletico e disinvolto. Una mattina Macario invita Alfonso e fare una gita in barca: i diversi destini dell’intellettuale inetto e del borghese “adatto alla vita” emergono nel monologo filosofico di Macario.
Dopo un’introduzione in cui si chiarisce il rapporto di amicizia tra i due personaggi: Macario “si trovava bene” accanto a “un uomo tanto piccolo e insignificante” mentre Alfonso apprezzava “quel giovane tanto elegante, artista inconscio, intelligente anche quando parlava di cose che non sapeva”. Il piacere della reciproca compagnia induce Macario a invitare Alfonso a passare del tempo insieme sulla barca di sua proprietà.
Quella mattina il vento impetuoso non aveva fermato Macario dal suo intento di uscire in mare: nel corso dell’uscita, alla paura di Alfonso si contrappone il coraggio spavaldo di Macario, che infierisce sull’amico con un certo sadismo, come dimostrato dalla scena iniziale.
Macario lo guardò con un leggero sorriso. Si sentiva bene nella sua calma accanto ad Alfonso e per rendere più evidente il distacco tenne il cutter sotto la piena azione del vento. Alfonso vide il sorriso e volle prendere l’aspetto di persona calma. Segnalò a Macario all’orizzonte delle punte bianche di montagne di cui non si vedevano le basi.
Passando accanto al faro poté misurare la rapidità con la quale tagliavano l’acqua; diede un balzo sembrandogli che la barca andasse a sfracellarsi sui sassi che la contornavano.
– Sa nuotare? — gli chiese Macario con tranquillità. — Alla peggio ritorneremo a casa a nuoto. Ma — e finse grande preoccupazione — anche se si sentisse andare a fondo non si aggrappi a me perché saremmo perduti in due. Penseremo a lei io e Nando. Nevvero, Nando?
Ridendo sgangheratamente, costui lo promise.
Coi suoi modi da pensatore, Macario si dilungò in considerazioni sugli effetti della paura. Ogni dieci parole alzava la mano aristocratica, l’arrotondava e tutti i sottintesi che quel gesto segnava, cui nel vuoto della mano creava il posto, Alfonso lo sapeva, dovevano andare a colpire lui e la sua paura.
– Muore maggior numero di persone per paura che per coraggio. Per esempio in acqua, se vi cadono, muoiono tutti coloro che hanno l’abitudine di afferrarsi a tutto quello che loro è vicino, — e fece una strizzatina d’occhio verso le mani di Alfonso che si chiudevano nervosamente sulla banchina.
E passarono accanto al verde Sant’Andrea senza che Alfonso potesse padroneggiarsi. Guardava, ma non godeva.
La città, quando al ritorno la rivide, gli parve triste. Sentiva un grande malessere, una stanchezza come se molto tempo prima avesse fatto tanta via e che poi non lo si fosse lasciato riposare mai più. Doveva essere mal di mare e provocò l’ilarità di Macario dicendoglielo.
– Con questo mare!
Infatti il mare sferzato dal vento di terra non aveva onde. Vi erano larghe strisce increspate, altre incavate, liscie liscie precisamente perché battute dal vento che sembrava averci tolto via la superficie. Nella diga c’era un romoreggiare allegro come quello prodotto da innumerevoli lavandaie che avessero mosso i loro panni in acqua corrente.
Alfonso era tanto pallido che Macario se ne impietosì e ordinò a Ferdinando di accorciare le vele.
Si era in porto, ma per giungere al punto di partenza si dovette passarci dinanzi due volte.
La gita in barca dei due amici mostra l’opposizione tra “l’inetto”, il piccolo borghese frustrato con aspirazioni letterarie, e “l’adatto alla vita”, l’alto borghese disinvolto e brillante. Entrambi hanno bisogno l’uno dell’altro: Alfonso perché spera di trarre da quella gita in barca e dalla frequentazione di Macario la “solida salute” che gli manca; Macario cerca la compagnia di Alfonso poiché al cospetto di un uomo “tanto piccolo e insignificante”, può avvertire chiaramente la sua superiorità.
A ben vedere il giudizio di Svevo è negativo su entrambi i personaggi: se da una parte l’intellettuale è condannato all’inettitudine, dall’altra anche la sicurezza del borghese è solo apparente. Per sentirsi forte Macario ha bisogno di accompagnarsi a un debole.
Rientrati in porto, Macario pronuncia un monologo “filosofico” che fa emergere la sua visione della vita.
Si udivano i piccoli gridi dei gabbiani. Macario per distrarlo volle che Alfonso osservasse il volo di quegli uccelli, così calmo e regolare come la salita su una via costruita, e quelle cadute rapide come di oggetti di piombo. Si vedevano solitarii, ognuno volando per proprio conto, le grandi ali bianche tese, il corpicciuolo sproporzionatamente piccolo coperto da piume leggiere.
– Fatti proprio per pescare e per mangiare, — filosofeggiò Macario. — Quanto poco cervello occorre per pigliare pesce! Il corpo è piccolo. Che cosa sarà la testa e che cosa sarà poi il cervello? Quantità da negligersi! Quello ch’è la sventura del pesce che finisce in bocca del gabbiano sono quelle ali, quegli occhi, e lo stomaco, l’appetito formidabile per soddisfare il quale non è nulla quella caduta così dall’alto. Ma il cervello! Che cosa ci ha da fare il cervello col pigliar pesci? E lei che studia, che passa ore intere a tavolino a nutrire un essere inutile! Chi non ha le ali necessarie quando nasce non gli crescono mai più. Chi non sa per natura piombare a tempo debito sulla preda non lo imparerà giammai e inutilmente starà a guardare come fanno gli altri, non li saprà imitare. Si muore precisamente nello stato in cui si nasce, le mani organi per afferrare o anche inabili a tenere.
Nel monologo Macario si fa portavoce della teoria evoluzionistica di Darwin: ci sono specie di individui che sanno meglio adattarsi alla vita, perché sono abili e forti; e altri che sono destinati a soccombere. I gabbiani, dotati fin dalla nascita di ali, rientrano nel gruppo dei dominatori, al quale appartiene anche il brillante Macario. Di contro gli intellettuali sono associati ai pesci, preda dei volatili. L’intellettuale inetto è condannato alla sconfitta (il suo cervello è un essere inutile), mentre rimane a guardare il borghese vincente. Riprendendo Schopenhauer Svevo distingue l’umanità in “contemplatori” e “lottatori”. L’esempio del gabbiano descrive una visione deterministica dell’esistenza, per la quale la condizione di ciascuno è scritta inesorabilmente fin dalla nascita, l’insufficienza di Alfonso nei confronti della vita è, dunque, senza appello.
Alfonso fu impressionato da questo discorso. Si sentiva molto misero nell’agitazione che lo aveva colto per cosa di sì piccola importanza.
– Ed io ho le ali? — chiese abbozzando un sorriso.
– Per fare dei voli poetici sì! — rispose Macario, e arrotondò la mano quantunque nella sua frase non ci fosse alcun sottinteso che abbisognasse di quel cenno per venir compreso.
La produzione letteraria — o l’ambizione ad essa — non è simile ai voli predatori dei gabbiani, simbolo di potenza, ma sono inutili creazioni della fantasia. Il borghese liquida con disprezzo qualsiasi ambizione artistica dell’inetto.
Il racconto si conclude con l’ennesimo gesto di Macario che esprime con il linguaggio del corpo e la gestualità la sua differente corporeità. La scioltezza di Macario corrisponde al volteggiare del gabbiano, a cui si oppone il silenzio passivo di Alfonso.
Commento al romanzo Una vita. L’analisi del capitolo 8 inizia dal minuto 10.45