Il pensiero dominante

L’inganno dell’Amore

Luca Pirola
7 min readApr 23, 2021

La lunga canzone è collocata nei Canti nel “Ciclo di Aspasia” ispirato dall’innamoramento per Fanny Targioni Tozzetti. Il tema affrontato è la celebrazione dell’amore, che è il vero e proprio pensiero dominante del poeta: esso è al contempo Dolcissimo e possente, un’illusione di cui il poeta è consapevole ma che è in grado di rendere la vita degna di essere vissuta.

Schema metrico: canzone di quattordici strofe di varia lunghezza composte da endecasillabie settenari. Non è presente uno schema fisso di rime ma l’ultimo verso di ogni strofa rima sempre con uno dei precedenti (spesso con il penultimo, dando così vita a una rima baciata).

La poesia può essere suddivisa in due parti di diversa lunghezza. Nella prima parte (di ben 125 versi) il poeta si riferisce al pensiero dominante, dichiarando le sue caratteristiche e gli effetti che ha sulla vita degli uomini in generale e del poeta in particolare.

Dolcissimo, possente
dominator di mia profonda mente;
terribile, ma caro
dono del ciel; consorte
ai lùgubri miei giorni,
pensier che innanzi a me sì spesso torni.

La prima strofa è caratterizzata da una serie di apposizioni del pensiero dominante, che altro non è che l’amore. Esso è definito con uno spettro di sfumature che ne suggeriscono le qualità: dominator della mente, dono del cielo, consorte(cioè “compartecipe della sorte”) della vita. Anche gli aggettivi sono significativi delle caratteristiche del pensiero amoroso, spesso antitetiche tra loro: Dolcissimo/possente, terribile/caro.

Si noti che la parola “amore” non è mai citata nella poesia, anche se questa è la natura del pensiero dominante. Probabilmente Leopardi non impiega apertamente questo vocabolo perché lo considerava troppo utilizzato dalla tradizione lirica e librettistica che lo ha logorato, mentre egli vuole descrivere un sentimento nuovo e diverso, dolce e al contempo potente, che ha avuto la capacità di cambiargli la vita.

Di tua natura arcana
chi non favella? il suo poter fra noi
chi non sentì? Pur sempre
che in dir gli effetti suoi
le umane lingue il sentir proprio sprona,
par novo ad ascoltar ciò ch’ei ragiona.

La seconda strofa inizia con due domande retoriche che pongono il pronome interrogativo (chi) in anafora.

Come solinga è fatta
la mente mia d’allora
che tu quivi prendesti a far dimora!
Ratto d’intorno intorno al par del lampo
gli altri pensieri miei
tutti si dileguàr. Siccome torre
in solitario campo,
tu stai solo, gigante, in mezzo a lei.

In questa strofa Leopardi sottolinea il materializzarsi del pensiero dominantenella sua esperienza personale con due similitudini: la prima (quella del lampo) è di tipo dinamico e comunica l’immediatezza con cui si sono dissolti tutti gli altri pensieri; la seconda (quella della torre) è di tipo statico e attesta la permanenza del pensiero dominante (cioè, dell’“amore”) nell’animo del poeta.

Che divenute son, fuor di te solo,
tutte l’opre terrene,
tutta intera la vita al guardo mio!
Che intollerabil noia
gli ozi, i commerci usati,
e di vano piacer la vana spene,
allato a quella gioia,
gioia celeste che da te mi viene!

Da quando il pensiero dominante ha preso stabile dimora nell’animo del poeta, la sua vita subisce una serie di effetti rilevanti: la consapevolezza della vanità della vita, la noia della società e il ripudio delle speranze vane. Leopardi dunque contrappone all’apparenza delle convenzioni sociali la verità conferita dal sentimento dell’amore, che fa apparire tutto il resto inutile e vano.

Come da’ nudi sassi
dello scabro Apennino
a un campo verde che lontan sorrida
volge gli occhi bramoso il pellegrino;
tal io dal secco ed aspro
mondano conversar vogliosamente,
quasi in lieto giardino, a te ritorno,
e ristora i miei sensi il tuo soggiorno.

La lunga similitudine paragona l’io lirico toccato dall’amore a un viaggiatore bramoso di raggiungere un luogo fertile che vede da lontano. Nella similitudine però Leopardi paragona anche la vita mondana e le convenzioni sociali alla “scabrezza” del paesaggio appenninico: una realtà che si rivela dunque sterile e che non può produrre nulla di positivo per l’animo umano.

Quasi incredibil parmi
che la vita infelice e il mondo sciocco
già per gran tempo assai
senza te sopportai;
quasi intender non posso
come d’altri desiri,
fuor ch’a te somiglianti, altri sospiri.

Leopardi impiega efficacemente lo stilema dell’antitesi per creare una netta distinzione tra l’io poetico e il mondo degli altri uomini, che appaiono due mondi decisamente divisi.

Giammai d’allor che in pria
questa vita che sia per prova intesi,
timor di morte non mi strinse il petto.
Oggi mi pare un gioco
quella che il mondo inetto,
talor lodando, ognora abborre e trema,
necessitade estrema;
e se periglio appar, con un sorriso
le sue minacce a contemplar m’affiso.

A un’antitesi di tipo tematico ne segue una di tipo temporale (Giammai/Oggi, Sempre/Or). L’arrivo dell’amore nell’animo del poeta divide la sua vita in due parti: la prima (prima della scoperta dell’amore), nella quale il poeta viveva nell’insensatezza delle convenzioni e della ricerca di piaceri vani.

Sempre i codardi, e l’alme
ingenerose, abbiette
ebbi in dispregio. Or punge ogni atto indegno
subito i sensi miei;
move l’alma ogni esempio
dell’umana viltà subito a sdegno.
Di questa età superba,
che di vote speranze si nutrica,
vaga di ciance, e di virtù nemica;
stolta, che l’util chiede,
e inutile la vita
quindi più sempre divenir non vede;
maggior mi sento. A scherno
ho gli umani giudizi; e il vario volgo
a’ bei pensieri infesto,
e degno tuo disprezzator, calpesto.

Nella seconda parte dell’esistenza (dopo la scoperta dell’amore) l’io poetico è ormai indifferente a ogni altro pensiero, affronta la morte senza paura, si sente addirittura superiore agli altri uomini del suo tempo. Il profondo disprezzo che nutre il poeta non è rivolto solo alla massa del popolo senza adeguata istruzione, ma anche ai nobili e agli intellettuali.

A quello onde tu movi,
quale affetto non cede?
Anzi qual altro affetto
se non quell’uno intra i mortali ha sede?
Avarizia, superbia, odio, disdegno,
studio d’onor, di regno,
che sono altro che voglie
al paragon di lui? Solo un affetto
vive tra noi: quest’uno,
prepotente signore,
dieder l’eterne leggi all’uman core.

L’adozione di una sequenza di domande retoriche tende a marcare l’irrevocabilità del pensiero leopardiano che in questo passaggio è sostenuto da un tono sentenzioso con frasi di notevole enfasi e forza assertiva.

Pregio non ha, non ha ragion la vita
se non per lui, per lui ch’all’uomo è tutto;
sola discolpa al fato,
che noi mortali in terra
pose a tanto patir senz’altro frutto;
solo per cui talvolta,
non alla gente stolta, al cor non vile
la vita della morte è più gentile.

Il pensiero dominante è tanto possente da spazzare via ogni altro pensiero, da rivelare tutta la vanità della vita; eppure è tanto dolce da renderla degna di essere vissuta.

Per còr le gioie tue, dolce pensiero,
provar gli umani affanni,
e sostener molt’anni
questa vita mortal, fu non indegno;
ed ancor tornerei,
così qual son de’ nostri mali esperto,
verso un tal segno a incominciare il corso:
che tra le sabbie e tra il vipereo morso,
giammai finor sì stanco
per lo mortal deserto
non venni a te, che queste nostre pene
vincer non mi paresse un tanto bene.

Leopardi sostiene poeticamente il suo pensiero da un lato con la figura dell’iperbole (ed ancor tornerei) che indica la sua volontà di ritornare indietro a rivivere le propria vita; dall’altra con la lunga metafora che sovrappone la vita all’immagine del deserto (attivando l’area semantica della fatica e della desolazione) e delle sofferenze, efficacemente simboleggiati dall’immagine del vipereo morso. Entrambe le figure conferiscono incisività e forza al dettato.

Che mondo mai, che nova
immensità, che paradiso è quello
là dove spesso il tuo stupendo incanto
parmi innalzar! dov’io,
sott’altra luce che l’usata errando,
il mio terreno stato
e tutto quanto il ver pongo in obblio!
Tali son, credo, i sogni
degl’immortali. Ahi finalmente un sogno
in molta parte onde s’abbella il vero
sei tu, dolce pensiero;
sogno e palese error. Ma di natura,
infra i leggiadri errori,
divina sei; perché sì viva e forte,
che incontro al ver tenacemente dura,
e spesso al ver s’adegua,
né si dilegua pria, che in grembo a morte.

Leopardi è perfettamente cosciente che l’amore altro non è che un’illusione, tanto che lo definisce un incanto e poi più precisamente un sogno. Nella vita umana secondo il poeta non c’è spazio per la felicità, ma solo per il vero, ossia la crudele realtà dell’esistenza. Tuttavia l’amore è un sogno potente, al punto da avere la stessa forza del vero, al quale resiste nonostante tutto. In sostanza l’amore, pur essendo un’illusione, ha la capacità di ammantare il vero di felici illusioni che aiutano l’uomo a vivere.

L’amore non è nulla più di un pensier, ma è vitale, cioè “in grado di dare vita e di infondere forza e coraggio”. Il poeta si aggrappa all’illusione dell’amore pur rimanendo consapevole della sua inconsistenza, della sua irrealtà. Siamo dunque di fronte a un paradosso.

E tu per certo, o mio pensier, tu solo
vitale ai giorni miei,
cagion diletta d’infiniti affanni,
meco sarai per morte a un tempo spento:
ch’a vivi segni dentro l’alma io sento
che in perpetuo signor dato mi sei.
Altri gentili inganni
soleami il vero aspetto
più sempre infievolir. /

La seconda parte della poesia è molto più breve e si estende solo per gli ultimi venti versi. In essi Leopardi non si riferisce più al pensiero dominante dell’amore, ma alla donna che ha suscitato in lui quel sentimento. Tuttavia questa donna non è semplicemente una persona reale, ma una presenza ideale, “la” donna che è l’unica vera beltà (v. 135) e che è fonte (v. 133) di ogni altra bellezza.

/ Quanto più torno
a riveder colei
della qual teco ragionando io vivo,
cresce quel gran diletto,
cresce quel gran delirio, ond’io respiro.
Angelica beltade!
Parmi ogni più bel volto, ovunque io miro,
quasi una finta imago
il tuo volto imitar. Tu sola fonte
d’ogni altra leggiadria,
sola vera beltà parmi che sia.

Da che ti vidi pria,
di qual mia seria cura ultimo obbietto
non fosti tu? quanto del giorno è scorso,
ch’io di te non pensassi? ai sogni miei
la tua sovrana imago
quante volte mancò? Bella qual sogno,
angelica sembianza,
nella terrena stanza,
nell’alte vie dell’universo intero,
che chiedo io mai, che spero
altro che gli occhi tuoi veder più vago?
Altro più dolce aver che il tuo pensiero?

Il poeta sa bene che la donna cui si riferisce è una figura ideale, tanto da essere un sogno, e da condividere con il pensiero dominante la sua meravigliosa dolcezza, concetto con il quale si apre e si chiude la poesia in una perfetta struttura circolare: Dolcissimo… pensier… Altro più dolce aver che il tuo pensiero?

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Luca Pirola
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Written by Luca Pirola

History and Italian literature teacher

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