Il precettore e il Giovin Signore

Il Giorno di Giuseppe Parini

Luca Pirola
11 min readFeb 10, 2021
Bartolomeo Nazari, ritratto di Farinelli

Il poemetto Il giorno

Il progetto di poesia civile impegna il Parini per tutta la sua vita con la composizione del poemetto Il giorno, di cui non esiste una redazione definitiva curata dall’autore, perché Parini pubblica le prime due parti Il mattino (1763) e Il mezzogiorno (1765) a cui sarebbe dovuta seguire la terza e ultima sezione dedicata a La sera. Questa non è completata, perché Parini la sdoppia in Il vespro e La notte a cui il poeta lavora fino alla morte, proseguendo nella correzione delle prime due parti.

Il giorno è un poemetto didascalico in endecasillabi sciolti di argomento eroicomico, in cui Parini si finge precettore del Giovin signore, un rampollo di una famiglia nobile, del quale celebra la vita dissoluta e corrotta; il poeta scrive così una satira della nobiltà preoccupata solo della raffinatezza e dell’eleganza, insegnando i valori e i comportamenti positivi attraverso la descrizione eroicomica del male e della dissolutezza di tutta una classe sociale.

L’opera è un esempio della poetica del sentimmo, perché Parini conduce un’analisi dettagliata delle sensazioni dei personaggi, infatti la poesia istruisce divertendo e suscita emozioni per mezzo di una struttura antifrastica.

Il precettore — identificabile con Parini — illustra in prima persona al suo discepolo, un “giovin signore” di una famiglia nobile, le “leggiadre cure” e “le alte imprese” a cui si dedicherà nel corso della giornata per ingannare “il lungo tedio” della sua vita oziosa e viziata.

In realtà le imprese sono attività insignificanti e banali, quali svegliarsi, fare colazione, incipriarsi, giocare a carte e così via, ma sono descritte come atti eroici e sublimi. Il precettore si presenta deferente, quasi adorante di fronte al suo discepolo, ma l’effetto creato nel lettore dal contrasto tra l’intonazione aulica delle lodi e la stupidità del loro oggetto risulta essere di ripulsa e condanna. La feroce ironia, infatti, è accentuata dal contrasto tra lo stile classico (la scelta degli andecasillabi sciolti richiama gli esametri dell’epica classica) e mitologico e la banalità delle azioni quotidiane dei personaggi descritti. Pertanto Parini condanna la nobiltà, perché non adempie più al suo ruolo di guida sociale che le compete ma che pretende di avere ingiusti privilegi.

Parini, tuttavia, non ha in mente una struttura sociale alternativa alla nobiltà, infatti il suo scopo sarebbe di risvegliare il senso del dovere civico degli aristocratici; per questo le attività borghesi, come il commercio, la sceinza e le professioni liberali sono presentate come argomenti da chiacchiera superficiale e salottiera. Nella società fatua descritta ne Il giorno la borghesia non compare mai, il contraltare alla nobiltà degenerata è rappresentato dal popolo contadino, modello idealizzato di sobrietà e operosità, da cui non può emergere una classe dirigente alternativa.

La struttura del poemetto

La giornata del giovin signore è descritta senza che si sviluppi una narrazione, poiché sono rappresentati i momenti di una giornata qualsiasi per la sua insignificanza. Tale effetto è ottenuto sostituendo la narrazione con la descrizione, che procede con un ritmo lento, senza alcun movimento né azione in quanto la vita dell’eroe coincide con l’inattività. Il vuoto morale del giovin signore corrisponde all’inazione, enfatizzata anche dall’uso del presente temporale.
Inoltre le minuziose descrizioni, le frequenti digressioni, che trattano di episodi secondari o di favole mitologiche, interrompono continuamente il filo narrativo, rallentando ulteriormente il ritmo del poemetto.

Le lunghe pause descrittive sono utilizzate da Parini per tradurre in versi la meccanica della ripetitività dei riti nobiliari o per catturare la realtà sensoriale delle azioni e dei movimenti.

Il Giorno, Il Mattino (1763) — vv. 1–153

L’incipit del poemetto è un testo significativo perché, da un lato, ci presenta i due protagonisti (il Giovin Signore e il precettore) e, dall’altro, perché si manifesta la forte ironia che caratterizza l’intera opera: la finzione dell’insegnamento è in realtà una condanna dello stile di vita della nobiltà, ormai degenerato e corrotto.

Giovin Signore, o a te scenda per lungo
di magnanimi lombi ordine il sangue
purissimo celeste, o in te del sangue
emendino il difetto i compri onori
e le adunate in terra o in mar ricchezze
dal genitor frugale in pochi lustri,
me Precettor d’amabil Rito ascolta.

Sono presentati i due protagonisti: lo sfaccendato giovin signore e il precettore che insegnerà al giovane come trascorrere le giornate. L’incipit del poemetto chiarisce che il ruolo del precettore consiste nell’educazione del giovane aristocratico, rappresentante dell’antica aristocrazia o della nuova nobiltà di origine borghese.

Come ingannar questi nojosi e lenti
giorni di vita, cui sì lungo tedio
e fastidio insoffribile accompagna
or io t’insegnerò. Quali al Mattino,
quai dopo il Mezzodì, quali la Sera
esser debban tue cure apprenderai,
se in mezzo agli ozj tuoi ozio ti resta
pur di tender gli orecchi a’ versi miei.

Dopo aver elencato le materie oggetto dell’educazione che il precettore intende impartire al suo discepolo, con la preghiera che il nullafacente aristocratico abbia tempo di prestare attenzione, il precettore delinea le esperienza precedenti del giovin signore, che ha viaggiato in Europa ottenendo solo di avvicinarsi al gioco d’azzardo e alle prostitute. L’assenza di interessi o ambizione è poi presentata come il rifiuto di offerte sconvenienti, perciò il giovin signore non ha intrapreso la carriera militare o fondato un’impresa commerciale o — ancora — degli studi sistematici.

Già l’are a Vener sacre e al giocatore
Mercurio ne le Gallie e in Albione
devotamente hai visitate, e porti
pur anco i segni del tuo zelo impressi:
ora è tempo di posa. In vano Marte
a sé t’invita; che ben folle è quegli
che a rischio de la vita onor si merca,
e tu naturalmente il sangue aborri.
Né i mesti de la Dea Pallade studj
ti son meno odiosi: avverso ad essi
ti feron troppo i queruli ricinti
ove l’arti migliori, e le scienze
cangiate in mostri, e in vane orride larve,
fan le capaci volte echeggiar sempre
di giovanili strida. Or primamente
odi quali il Mattino a te soavi
cure debba guidar con facil mano.

Inizia la narrazione della giornata con il sorgere del sole. L’alba vede il contadino alzarsi per recarsi al lavoro in armonia con il procedere del tempo naturale. Il contadino è rappresentazione dei valori semplici e sinceri del mondo rurale, come si può evincere dagli aggettivi legati alla campagna: le caratteristiche sono tutti positive, infatti si parla del “buon villan”, che si alza dal “caro letto”, in cui giace la “ fedele sposa”, per prendere i “sacri arnesi” del proprio lavoro. Il contadino vive in armonia con la natura e le sue leggi, egli è il buon artefice del proprio benessere. Successivamente l’immagine idilliaca è arricchita dalla figura del fabbro che apre la sua officina di buon mattino.

Sorge il Mattino in compagnìa dell’Alba
innanzi al Sol che di poi grande appare
su l’estremo orizzonte a render lieti
gli animali e le piante e i campi e l’onde.
Allora il buon villan sorge dal caro
letto cui la fedel sposa, e i minori
suoi figlioletti intiepidìr la notte;
poi sul collo recando i sacri arnesi
che prima ritrovàr Cerere, e Pale,
va col bue lento innanzi al campo, e scuote
lungo il piccol sentier da’ curvi rami
il rugiadoso umor che, quasi gemma,
i nascenti del Sol raggi rifrange.

I riferimenti mitologici alle dee inventrici dell’agricoltura sono un elemento neoclassico che eleva lo stile, conferendo — insieme alle frequenti inversioni rafforzate dall’enjambement — un’intonazione alta e solenne che esprime l’intenzione del poeta di conferire dignità e sacralità al lavoro del contadino e del fabbro.

Allora sorge il Fabbro, e la sonante
officina riapre, e all’opre torna
l’altro dì non perfette, o se di chiave
ardua e ferrati ingegni all’inquieto
ricco l’arche assecura, o se d’argento
e d’oro incider vuol giojelli e vasi
per ornamento a nuove spose o a mense.

Al solo accenno alle attività manuali il giovin signore inorridisce. Tale sentimento è sottolineato da espressioni di orrore in contrasto con la futilità dell’argomento.
I valori di sobrietà e laboriosità del fabbro e del contadino si ritrovano ribaltati nella descrizione del mattino del giovin signore, il quale è sveglio quando secondo natura si dovrebbe dormire e va a dormire all’alba, quando ci si dovrebbe alzare.

Ma che? tu inorridisci, e mostri in capo,
qual istrice pungente, irti i capegli
al suon di mie parole? Ah non è questo,
Signore, il tuo mattin. Tu col cadente
sol non sedesti a parca mensa, e al lume
dell’incerto crepuscolo non gisti
ieri a corcarti in male agiate piume,
come dannato è a far l’umile vulgo.
A voi celeste prole, a voi concilio
di Semidei terreni altro concesse
Giove benigno: e con altr’arti e leggi
per novo calle a me convien guidarvi.

Il rovesciamento tra ciò che il precettore dice e ciò che l’autore vuole significare si esprime frequentemente attraverso l’uso dell’ironia antifrastica: per comprendere il messaggio del Parini il lettore è chiamato a capovolgere sempre il significato delle parole del precettore. Così gli epiteti celeste prole e concilio di Semidei terreni riferiti all’aristocrazia vogliono ribadire il principio dell’uguaglianza tra tutti gli essere umani, non certo celebrare il privilegio dei nobili. Allo stesso modo la successiva immagine del giovin signore che, stanco del teatro e del gioco, si dedica al cibo e alle bevande più raffinate come se fossero gravosi impegni (novi studj) evidenzia l’oziosità di una vita che persegue solo gratificazioni superficiali.

Tu tra le veglie, e le canore scene,
e il patetico gioco oltre più assai
producesti la notte; e stanco alfine
in aureo cocchio, col fragor di calde
precipitose rote, e il calpestìo
di volanti corsier, lunge agitasti
il queto aere notturno, e le tenèbre
con fiaccole superbe intorno apristi,
siccome allor che il Siculo terreno
dall’uno all’altro mar rimbombar feo
Pluto col carro a cui splendeano innanzi
le tede de le Furie anguicrinite.

Il cenno al mito del ratto di Proserpina evidenzia qui la dissonanza tra la sublimità dello stile e la banalità del contenuto; tale contraddizione segnala al lettore che l’atteggiamento di servile ammirazione esibito dal precettore è in opposizione con il giudizio dell’autore, che deride la mollezza del giovane aristocratico.

Così tornasti a la magion; ma quivi
a novi studj ti attendea la mensa
cui ricoprien pruriginosi cibi
e licor lieti di Francesi colli,
o d’Ispani, o di Toschi, o l’Ongarese
bottiglia a cui di verde edera Bacco
concedette corona; e disse: siedi
de le mense reina. Alfine il Sonno
ti sprimacciò le morbide coltrici
di propria mano, ove, te accolto, il fido
servo calò le seriche cortine:
e a te soavemente i lumi chiuse
il gallo che li suole aprire altrui.

Anche l’immagine del sonno che sprimaticcia con le proprie mani il materasso del giovin signore , o in seguito dell’agitazione dei servi perché Febo, dio del sole, non osi infastidirlo con i suoi raggi risulta tanto sproporzionato agli eventi a cui si riferisce da capovolgere l’adulazione in derisione. Il giovin signore è al centro delle attenzioni degli dei e dei valletti al suo servizio, la cui attività e solerzia evidenziano la sua inattività.

Dritto è perciò, che a te gli stanchi sensi
non sciolga da’ papaveri tenaci
Mòrfeo prima, che già grande il giorno
tenti di penetrar fra gli spiragli
de le dorate imposte, e la parete
pingano a stento in alcun lato i raggi
del Sol ch’eccelso a te pende sul capo.
Or qui principio le leggiadre cure
denno aver del tuo giorno; e quinci io debbo
sciorre il mio legno, e co’ precetti miei
te ad alte imprese ammaestrar cantando.
Già i valetti gentili udìr lo squillo
Del vicino metal cui da lontano
Scosse tua man col propagato moto;
E accorser pronti a spalancar gli opposti
Schermi a la luce, e rigidi osservàro,
Che con tua pena non osasse Febo
Entrar diretto a saettarti i lumi.
Ergiti or tu alcun poco, e sì ti appoggia
Alli origlieri i quai lenti gradando
All’omero ti fan molle sostegno.
Poi coll’indice destro, lieve lieve
Sopra gli occhi scorrendo, indi dilegua
Quel che riman de la Cimmeria nebbia;
E de’ labbri formando un picciol arco,
Dolce a vedersi, tacito sbadiglia.
O, se te in sì gentile atto mirasse
Il duro Capitan qualor tra l’armi,
Sgangherando le labbra, innalza un grido
Lacerator di ben costrutti orecchi,
Onde a le squadre varj moti impone;

L’ironia che accompagna costantemente i gesti del giovin signore assume diverse sfumature, infatti la descrizione dello sbadiglio come un gentile atto … dolce a vedersi o quando esprime preoccupazione per l’eccesso di grasso (il troppo adipe) sulle vezzose membra il tono è di scherzosa presa in giro; quando, invece, Parini fa riferimento alle sofferenze causate ai popoli d’America dalle violenze dei conquistadores (vv. 117–120) l’ironia si fa più amara e dissonante per trasmettere l’indignazione del poeta. Ciò contrasta con l’inconsapevolezza del giovin signore, la cui unica preoccupazione al risveglio è di scegliere se bere la cioccolata o il caffè.

Se te mirasse allor, certo vergogna
Avria di sè più che Minerva il giorno
Che, di flauto sonando, al fonte scorse
Il turpe aspetto de le guance enfiate
Ma già il ben pettinato entrar di novo
Tuo damigello i’ veggo; egli a te chiede
Quale oggi più de le bevande usate
Sorbir ti piaccia in preziosa tazza:
Indiche merci son tazze e bevande;
Scegli qual più desii. S’oggi ti giova
Porger dolci allo stomaco fomenti,
Sì che con legge il natural calore
V’arda temprato, e al digerir ti vaglia,
Scegli ‘l brun cioccolatte, onde tributo
Ti dà il Guatimalese e il Caribbèo
C’ha di barbare penne avvolto il crine:
Ma se nojosa ipocondrìa t’opprime,
O troppo intorno a le vezzose membra
Adipe cresce, de’ tuoi labbri onora
La nettarea bevanda ove abbronzato
Fuma, ed arde il legume a te d’Aleppo
Giunto, e da Moca che di mille navi
Popolata mai sempre insuperbisce.

La lunga perifrasi che indica il caffè rallenta l’andamento della narrazione, che impiega più di cento versi per descrivere il risveglio del protagonista, d’altronde le particolareggiate descrizioni danno modo al Parini di aderire alle poetiche sensiste che richiedevano l’evocazione di nitide immagini visive, capaci di imprimersi incisivamente nella mente del lettore, interrompendo il filo del racconto.

Nei versi conclusivi l’ironia dell’autore si fa spietata nella legittimazione delle stragi che hanno portato all’acquisizione di piantagioni di cacao e caffè solo perché rendono possibile la soddisfazione delle voglie del giovin signore. Fu necessario e opportuno che i conquistadores rovesciassero troni e cancellassero civiltà per portare le nuove delizie al suo palato. L’enorme sproporzione tra la futilità dei picari aristocratici e le sofferenze delle vittime del colonialismo serve a Parini per denunciare le atrocità che derivano dal mancato riconoscimento del principio illuminista dell’uguale dignità di tutti gli esseri umani.

Certo fu d’uopo, che dal prisco seggio
Uscisse un Regno, e con ardite vele
Fra straniere procelle e novi mostri
E teme e rischi ed inumane fami
Superasse i confin, per lunga etade
Inviolati ancora: e ben fu dritto
Se Cortes, e Pizzarro umano sangue
Non istimàr quel ch’oltre l’Oceàno
Scorrea le umane membra, onde tonando
E fulminando, alfin spietatamente
Balzaron giù da’ loro aviti troni
Re messicani e generosi incassi,
Poiché nuove così venner delizie,
O gemma degli eroi, al tuo palato.

la mattina del Giovin Signore è ironicamente densa di imprevisti e molestie, perchè un servo annuncia al nobile l’arrivo del sarto che pretende di esser pagato per gli abiti confezionati. Ciò causa una fastidiosa indigestione al Giovin Signore, che provocherà poco nobili rutti tutto il giorno.

Cessi ‘l Cielo però, che in quel momento
Che la scelta bevanda a sorbir prendi,
Servo indiscreto a te improvviso annunzj
Il villano sartor che, non ben pago
D’aver teco diviso i ricchi drappi,
Oso sia ancor con pòlizza infinita
A te chieder mercede: ahimè, che fatto
Quel salutar licore agro e indigesto
Tra le viscere tue, te allor farebbe
E in casa e fuori e nel teatro e al corso
Ruttar plebejamente il giorno intero!

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Luca Pirola
Luca Pirola

Written by Luca Pirola

History and Italian literature teacher

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