Il Riccetto e la rondinella
Pier Paolo Pasolini, Ragazzi di vita, cap. 1
Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini è un romanzo sul mondo delle borgate e i quartieri periferici di Roma. Pasolini visita le borgate, frequenta i ragazzi che le abitano e studia i loro comportamenti e abitudini. Lo scrittore si appassiona a questo mondo periferico, che, a suo parere, conserva ancora l’autenticità del mondo rurale, semplice e sotto certi aspetti primitivo, non ancora corrotto dal consumismo. Ciò che emerge dal romanzo è una realtà degradata, allo stesso tempo vitale, in cui i personaggi agiscono spinti dall’istinto e dalle passioni. Protagonisti del racconto pasoliniano sono i ragazzi del titolo, abitanti delle borgate, abituati a vivere di sotterfugi ed espedienti più o meno legali in questo mondo povero, caotico, in cui non esistono punti di riferimento (come la famiglia o la scuola) e dove ogni giorno i protagonisti devono confrontarsi con la noia, la miseria e la morte.
Pasolini, in una lettera all’editore Garzanti, descrive con queste parole la sua scelta poetica in Ragazzi di vita: «La mia poetica narrativa consiste nell’incatenare l’attenzione sui dati immanenti. E questo mi è possibile perché questi dati immediati trovano la loro collocazione in una struttura o arco narrativo ideale che coincide poi col contenuto morale del romanzo. Tale struttura si potrebbe definire con la formula generale: l’arco del dopoguerra a Roma, dal caos pieno di speranze dei primi giorni della liberazione alla reazione del ’50–51. È un arco ben preciso che corrisponde col passaggio del protagonista e dei suoi compagni (il Riccetto, Alduccio, ecc.) dall’età dell’infanzia alla prima giovinezza: ossia (e qui la coincidenza è perfetta) dall’età eroica e amorale all’età già prosaica e immorale. A rendere ‘prosaica e immorale’ la vita di questi ragazzi (che la guerra fascista ha fatto crescere come selvaggi: analfabeti) è la società che al loro vitalismo reagisce ancora una volta autoristicamente imponendo la sua ideologia morale. Badi che tutto questo resta ‘prima’ del libro: io come narratore non interferisco».
In questo episodio il Riccetto e i suoi compagni del momento, Agnolo e Marcello, sono riusciti a procurarsi il denaro per una gita in barca. Nella calda mattina estiva, le rive de lTevere pullulano di ragazzini festanti, e i tre amici, appena iniziata la navigazione, subiscono l’arembaggio di un’altra banda di “ragazzi di vita”. A catturare l’attenzione del Riccetto, però, è una rondine in fin di vita.
Intanto [Agnolo] continuava a sderenarsi a remare senza che la barca andasse avanti di un centimetro. Sull’altro pilone, a sinistra, c’erano degli altri fiji de na bona donna: stavano distesi tra le scanellature della pietra, come lucertoloni a prendersi il sole mezzi appennicati. Le grida dei ragazzini li risvegliarono. S’alzarono in piedi tutti bianchi di polvere, e si radunarono sull’orlo del pilone verso la barca. — A barcaroliii, — uno gridava, — aspettatece! — Mo che vole quello? — fece insospettito il Riccetto.
Il romanesco è riservato ai dialoghi, mentre il registro medio-alto del narratore domina le sequenze descrittive, pur se elementi dialettali permeano anche la voce anrrante. Ciò rende impossibile distinguere tra il punto di vista dei personaggi e quello del narratore, immerso nella realtà rappresentata. In questa prima parte del brano questa contaminazione stilistica accentua l’effetto di descrizione in presa diretta: le facce paragule, tenere la cica, a tutta callara sembrano espressioni uscite dalla bocca dei personaggi, mentre appartengono alla narrazione.
Un secondo s’arrampicò per gli anelli fino a metà pilone, e con un urlo, fece il caposotto: gli altri si tuffarono da dove si trovavano, e tutti cominciarono a attraversare nuotando a mezzobraccetto il fiume. Dopo pochi minuti erano lí coi capelli sugli occhi, le facce paragule, e le mani strette ai bordi della barca. — Che volete? — fece Marcello. — Vení in barca, fecero quelli, — perché, nun ce vorresti? — Erano tutti piú grossi, e gli altri si dovettero tenere la cica. Salirono, e senza perder tempo uno disse a Agnolo: — Da’ — e gli prese i remi. — Annamo de là der ponte, — aggiunse, guardando fisso Agnolo negli occhi come per dirgli: «Te va bbene?» — Annamo de là der ponte, — disse Agnolo. Subito quello si mise a remare a tutta callara: ma sotto il pilone la corrente era forte, e la barca era carica. Per fare quei pochi metri ci volle piú d’un quarto d’ora.
Borgo antico
dai tetti grigi sotto il cielo opaco
io t’invoco…cantavano i quattro di vicolo del Bologna, sbragati sulla barca, a voce piú alta che potevano per farsi sentire dai passanti di Ponte Sisto e dei lungoteveri.
La citazioni dei canti dei borgatari rafforza l’effetto realistico della narrazione e documenta la cultura popolare della Roma degli anni Cinquanta.
Il “risvegliarsi” di ragazzini della banda di via Bologna con le loro grida, i tuffi, la nuotata, e il rumoroso esibizionismo dei nuovi “barcaioli”, che cantano a voce alta più che possono per farsi sentire dai passanti di ponte Sisto e dei lungoteveri è una rappresentazione di un potente vitalismo. Ciò è enfatizzato dalla incontrovertibile legge del più forte che domina il confronto fra i due gruppi di ragazzi (Erano tutti piú grossi, e gli altri si dovettero tenere la cica).
La barca, troppo piena, andava avanti affondando nell’acqua fino all’orlo.
Il Riccetto continuava a starsene disteso, senza dar retta ai nuovi venuti, ammusato, sul fondo allagato della barca, con la testa appena fuori dal bordo: e continuava sempre a far finta di essere al largo, fuori dalla vista della terraferma. — Ecco li pirata! — gridava con le mani a imbuto sulla sua vecchia faccia di ladro uno dei trasteverini, in piedi in pizzo alla barca: gli altri continuavano scatenati a cantare. A un tratto il Riccetto si rivoltò su un gomito, per osservare meglio qualcosa che aveva attratto la sua attenzione, sul pelo dell’acqua, presso la riva, quasi sotto le arcate di Ponte Sisto. Non riusciva a capir bene che fosse. L’acqua tremolava, in quel punto, facendo tanti piccoli cerchi come se fosse sciacquata da una mano: e difatti nel centro vi si scorgeva come un piccolo straccio nero.
– Che d’è, — disse allora rizzandosi in piedi il Riccetto. Tutti guardarono da quella parte, nello specchio d’acqua quasi ferma, sotto l’ultima arcata. — È na rondine, vaffan…, — disse Marcello. Ce n’erano tante di rondinelle, che volavano rasente i muraglioni, sotto gli archi delponte, sul fiume aperto, sfiorando l’acqua con il petto. La corrente aveva ritrascinato un poco la barca indietro, e si vide infatti ch’era proprio una rondinella che stava affogando. Sbatteva le ali, zompava. Il Riccetto era in ginocchioni sull’orlo della barca, tutto proteso in avanti. — A stronzo, nun vedi che ce fai rovescià? — gli disse Agnolo. — An vedi, — gridava il Riccetto, — affoga! — Quello dei trasteverini che remava restò coi remi alzati sull’acqua e la corrente spingeva piano la barca indietro verso il punto dove la rondine si stava sbattendo. Però dopo un po’ perdette la pazienza e ricominciò a remare.
Il silenzio e la concentrazione pensierosa del Riccetto risaltano per contrasto con il comportamento degli altri ragazzi; il protagonista si estrania dal gruppo e si immerge a sua volta nel fiume, trascinato dal rischio di morte che una povera rondine sta subendo. Tra il fracasso dei suoi compagni e dei gradassi dell’altra banda, il Riccetto manifesta una vitalità istintiva, senza pensare al pericolo che corre tuffandosi nel fiume per salvare la rondinella. Il personaggio sembra mosso dal senso di una profonda comunione con l’umile creatura in lotta per la vita e che un attimo prima volava con le sue compagne rasente i muraglioni, sotto gli archi delponte, sul fiume aperto, sfiorando l’acqua con il petto. Lo stormo svolazzante sul fiume rispecchia il gruppo dei ragazzi sulla barca troppo piena e proprio per questo intrisa di gioia di vivere.
– Aòh, a moro, — gli gridò il Riccetto puntandogli contro la mano, — chi t’ha detto de remà? —L’altro fece schioccare la lingua con disprezzo e il piú grosso disse: — E che te frega –. Il Riccetto guardò verso la rondine, che si agitava ancora, a scatti, facendo frullare di botto le ali. Poi senza dir niente si buttò in acqua e cominciò a nuotare verso di lei. Gli altri si misero a gridargli dietro e a ridere: ma quello dei remi continuava a remare contro corrente, dalla parte opposta. Il Riccetto s’allontanava, trascinato forte dall’acqua: lo videro che rimpiccioliva, che arrivava a bracciate fin vicino alla rondine, sullo specchio d’acqua stagnante, e che tentava d’acchiapparla. — A Riccettooo, — gridava Marcello con quanto fiato aveva in gola, — perché nun la piji? — Il Riccetto dovette sentirlo, perché si udí appena la sua voce che gridava: — Me púncica! — Li mortacci tua, — gridò ridendo Marcello. Il Riccetto cercava di acchiappare la rondine, che gli scappava sbattendo le ali e tutti due ormai erano trascinati verso il pilone dalla corrente che lí sotto si faceva forte e piena di mulinelli. — A Riccetto, — gridarono i compagni dalla barca, — e lassala perde! — Ma in quel momento il Riccetto s’era deciso ad acchiapparla e nuotava con una mano verso la riva.
La rondinella che sta per morire introduce nella scena festosa un nuovo elemento, che rappresenta il risvolto della vitalità: la morte, vissuta con disincanto, come se fosse uno spettacolo da guardare senza coinvolgimento. Quando il Riccetto si espone al pericolo della corrente, i suoi compagni reagiscono mettendosi a ridere e a gridare.
In questa sezione del brano l’uso del dialetto è differente, poiché il salvataggio viene descritto con un tono più nettamente distinto dal dialetto dei dialoghi: solo i personaggi, infatti, continuano a parlare in dialetto (nun la piji, Me pùncica), al contrario il narratore si distacca dalla loro prospettiva per assumere un tono più riflessivo.
— Tornamo indietro, daje, — disse Marcello a quello che remava. Girarono. Il Riccetto li aspettava seduto sull’erba sporca della riva, con la rondine tra le mani. — E che l’hai sarvata a ffà, — gli disse Marcello, — era cosí bello vedella che se moriva! — Il Riccetto non gli rispose subito. — È tutta fracica, — disse dopo un po’, — aspettamo che s’asciughi! — Ci volle poco perché s’asciugasse: dopo cinque minuti era là che rivolava tra le compagne, sopra il Tevere, e il Riccetto ormai non la distingueva piú dalle altre.
Al resto del gruppo importa poco il destino della rondine. Cinico e immorale o, meglio, amorale, Marcello guarda la rondine con distacco: il gesto del Riccetto riscatta l’innocenza del mondo sommerso a cui tanto i ragazzi quanto le rondini appartengono. Il cinismo crudo e naturale dei ragazzi esalta la nobiltà, altrettanto inconsapevole, del gesto del Riccetto, salvifico e insieme provocatorio rispetto alle spietate consuetudini del “branco”. Il ragazzo e la rondine sono entrmbi esempi di “pora creatura” che esprime il realismo di Pasolini pieno di compassione e tenerezza.