Il romanzo cortese
Il ciclo bretone
Il romanzo cortese cavalleresco (XII-XIII secolo), dapprima in versi, poi in prosa, si diffuse nell’area di lingua d’oïl. Le opere di Chrétien de Troyes(Lancillotto, Perceval) e Goffredo di Strasburgo (Tristano e Isotta), rivolte al pubblico dei cortigiani, raccontavano le avventure e le vicende sentimentali di re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda, per esaltarne le virtù e gli ideali cortesi di generosità e gentilezza. In questi romanzi il cavaliere dà prova del proprio coraggio e dell’amore per la dama intraprendendo un viaggio alla ricerca di qualcosa, una persona o un oggetto. Durante questo viaggio-ricerca (quête) affronta situazioni pericolose, spesso anche incantesimi e fenomeni soprannaturali, che ne esaltano le qualità e gli ideali. È in questo contesto che si sviluppa la concezione dell’amore cortese, espressione della nobiltà d’animo, generosità, lealtà e devozione del cavaliere.
Dalla seconda metà del XII secolo, nella Francia settentrionale i valori celebrati nelle canzoni di gesta confluirono nel romanzo cortese o cavalleresco in versi (e in prosa a partire dal XIII secolo), il cui fine era la celebrazione dell’amore e dell’avventura. L’intreccio complicato faceva sì che esso fosse destinato alla lettura più che alla declamazione e al canto.
Il romanzo cortese rispecchiava l’evoluzione della società feudale e l’elaborazione dell’ideale cortese da parte di una classe nobiliare sempre più salda nei suoi privilegi e sempre più colta e raffinata. Nelle corti anche le donne cominciarono a godere di maggiore rispetto e libertà: esse partecipavano della vita intellettuale ed erano le ispiratrici dell’amor cortese e dei romanzi cavallereschi.
L’eroe arturiano
Il romanzo cavalleresco del ciclo bretone-arturiano creò una nuova immagine di cavaliere: questi non era più il guerriero paladinodella fede cristiana, simbolo di un ideale collettivo, ma l’eroe interprete degli ideali nobiliari cortesi che compie avventure individuali.
In questi romanzi il cavaliere dà prova del proprio coraggio e dell’amore incondizionato per una dama mettendosi in viaggio alla ricerca di qualcosa, una persona o un oggetto. Nel corso di questo viaggio-ricerca (quête) affronta situazioni difficili(compresi incantesimi, fenomeni magici e soprannaturali), che esaltano le sue qualità personali, e sperimenta gli ideali a cui è stato educato. Egli perfeziona così la propria formazione e si eleva spiritualmente, per compiacere la sua dama e per incontrare se stesso: questa ricerca rende la vicenda narrata esemplare di una problematica umana universale.
L’amor cortese
Il tema centrale nel romanzo cortese è l’amore, che qui rispecchia in molti aspetti i dettami del De amore di Andrea Cappellano: non c’è amore senza nobiltà d’animo, generosità, lealtà e devozione, in una parola senza cortesia, una qualità che a sua volta non si attualizza se non c’è l’esperienza amorosa. Questa visione dell’amore è frutto dell’ambiente di corte in cui si è formata e di una concezione aristocratica della vita. L’amore di cui si parla non è quello comune, che si realizza nel matrimonio e nella procreazione. Esso mantiene il suo carattere sensuale ed erotico, è mosso dal desiderio di possedere la donna amata, ma il suo soddisfacimento è rimandato, si realizza nell’attesa e nel corteggiamento, nella devozione assoluta. L’amore del cavaliere per la dama rispecchia il rapporto del vassallo con il suo re: è per amore di una dama che il cavaliere va incontro alle avventure ed è dispostopersino a morire.
L’amore può tuttavia essere così forte da spingere il cavaliere a tradire la fiducia del proprio signore, anche se al prezzo di profondi conflitti interiori. Il giovane Tristano, per esempio, s’innamora, riamato, di Isotta, la promessa sposa dello zio, il re Marco di Cornovaglia, e da quelmomento i due vivono una contrastata passione. Il cavaliere Lancillotto, che ha giurato fedeltà a re Artù, s’innamora, riamato, di Ginevra, moglie del re, e anche in questo caso un’attrazione indomabile porta i due amanti a tradire la fiducia del sovrano.
L’autore: Chretién de Troyes
Chrétien de Troyes svolse la sua attività di scrittore alla corte di Troyes, nella regione francese della Champagne. Tra il 1160 e il 1190 compose cinque romanzi cavallereschi in versi. I suoi romanzi ebbero larga diffusione presso il pubblico delle corti feudali.
Nei romanzi cortesi cavallereschi sono presenti sia il tema dell’amor cortese, sia quello della quête, della ricerca della perfezione: l’eroe affronta delle prove per divenire un perfetto cavaliere, degno dell’amore della dama.
Yvain e il gigante
“Il cavaliere del leone”, detto anche “Yvain”, è un romanzo cavalleresco, che parla di uno dei cavalieri della tavola rotonda, Sir Yvain; il romanzo prende fonte dalla materia letteraria della Britannia.
Yvain e il leone giungono in un paese distrutto, dove vengono accolti dal castellano con grandi pianti. Gli abitanti del castello si dimostrano cortesi e ospitali nei confronti di Yvain, ma allo stesso tempo è evidente il loro turbamento. Yvain domanda il motivo di tanta tristezza e il signore del castello gli racconta che un gigante gli ha ucciso due suoi figli, ha preso prigionieri altri quattro e ora minaccia di uccidere anche loro se non gli verrà consegnata la figlia.
Messer Yvain ascoltò ogni parola del racconto dell’ospite, e quando questi ebbe tutto narrato, egli parlò a sua volta così come gli piacque:
“Signore” disse “la vostra pena mi ha turbato e afflitto, ma di una cosa mi meraviglio: che non abbiate chiesto soccorso alla corte del nobile re Artù. Nessun uomo è tanto ardito da non trovare alla sua corte un cavaliere che voglia cimentare il proprio valore contro il suo.”
Allora quell’uomo nobile gli svela e gli spiega che avrebbe ricevuto valido soccorso, se avesse saputo dove trovare monsignor Galvano.
Il nobiluomo spiega a Yvain che avrebbe chiesto volentieri aiuto a suo cognato Galvano, se questi non fosse partito per difendere la regina Ginevra, portata via da un cavaliere sconosciuto e straniero. Allora Yvain decide di aiutarlo.
“Bello e caro signore” gli risponde “ben volentieri affronterei il pericolo di quest’avventura, se il gigante si presentasse con i vostri figli domani a una ora tale ch’io non avessi da attenderlo troppo, ché a mezzogiorno sarò altrove, così come ne ho fatto promessa”.
“Bel signore” dice il valentuomo “vi ringrazio mille volte di seguito del vostro intento”. E tutte le genti del castello gli dicevano altrettanto.Uscì allora da una camera una pulzella dal corpo leggiadro e dal viso bello e avvenente. Si avanzò umile, silenziosa e quieta, il capo chinato verso terra perché il dolore che l’opprimeva non aveva mai fine.
La descrizione della fanciulla risponde ai dettami della dama cortese: umile, silenziosa e quieta sono aggettivi che indicano un comportamento riservato, timido e gentile, secondo quanto richiesto a una donna, specie se giovane e non sposata. le giovani donne non dovevano farsi notare, né intromettersi nel mondo maschile con discorsi fuori luogo.
I personaggi hanno i caratteri tipici della cultura cortese: sono tutti nobili, gentili e affabili verso il cavaliere nonostante la situazione dolorosa che stanno vivendo; Yvain stesso esita turbare il loro dolore, ma si dichiara pronto a battersi in loro difesa, in quanto deboli.
Tutta la prima parte del racconto si svolge nel castello e in essa dialoghi, racconti e commenti rimandano a valori, comportamenti e gesti tipici del mondo cortese. Il ritmo lento e i fitti dialoghi i personaggi esprimono, anche sul piano verbale, la loro cortesia. Il linguaggio è sempre di registro molto alto, ricco di formule cortesi e di aggettivi fioriti.
La madre procedeva al suo fianco, ché il signore aveva mandate a chiamarle per presentarle all’ospite. Giunsero avvolte in mantelli per nascondere le lacrime, ma il signore ordinò di aprirli e di sollevare il capo.
“Non vi deve affliggere quanto vi esorto a fare” dice “Dio e la buona sorte ci hanno inviato un uomo nobile e leale, che mi assicura che si opporrà al gigante. Dunque non tardate oltre a gettarvi ai suoi piedi!”
“Dio non mi conceda mai tale vista!” Dice subito messer Yvain. “Invero non sarebbe acconcio che la sorella e la nipote di monsignor Galvano si ponessero ai miei piedi per alcuna ragione. Dio mi salvi! Non mi prenda mai tale orgoglio da permetterlo, ché invero non dimenticherei mai l’onta che ne deriverebbe. Ma sarei loro grato se si riconfortassero fino a domani, quando vedranno se Dio vorrà soccorrerle. Non conviene pregarmi oltre. Purché il gigante giunga presto, io non verrò meno alla mia parola, ché nulla al mondo tralascerei di essere domani, a mezzo giorno, là dove mi attende la più grande impresa che invero io possa affrontare.”
Yvain ha giurato di liberare una fanciulla prigioniera; non è certo un’impresa maggiore di sconfiggere un gigante, ma dal punto di vista narrativo l’enfasi ha la funzione di creare attesa e tensione nel lettore.
Yvain non ha voluto rassicurarle appieno, perché teme che il gigante non si presenti all’ora che gli consenta di giungere per tempo dalla fanciulla rinchiusa nella cappella. Pure, quella sua promessa induce alla speranza: tutti e tutte lo ringraziano perché confidano molto in lui e sono certi ch’egli è un prode cavaliere come testimonia il leone che l’accompagna e che gli resta accucciato innanzi, mansueto come un agnello. La speranza che che ripongono in lui li riconforta, così fanno festa tralasciando il dolore.
Il leone, oltre a mostrare l’eccezionale valore del cavaliere servito da un animale tanto nobile e orgoglioso, simboleggia Yvain stesso: ne indica il coraggio e la lealtà. L’animale ha un posto particolare tra i personaggi, poiché l'animale è, in questo romanzo, amico fedele pronto a servire il suo cavaliere con coraggio e lealtà.
Yvain è poi accompagnato in camera per la notte e al mattino attende che il gigante arrivi, deciso a sconfiggerlo; ma questi tarda e il cavaliere, che deve andare a liberare la fanciulla prigioniera, vorrebbe partire. Il terrore serpeggia nei cuori del castellano e della figlia, così Yvain, impietosito, indugia fino quasi a mezzogiorno, quando finalmente il gigante si presenta.
Tuttavia non parte ancora, ma indugia e attende che il gigante giunge al gran galoppo, conducendo con sé i cavalieri. Appeso al collo, teneva un palo enorme, quadrato, appuntito in cima, con il quale li pungolava senza posa. Quanto ai prigionieri, indossavano vesti che non valevano un fuscello, non avendo altro che le camicie, lacere e sporche; le mani e i piedi erano legati ben stretti da corde, e per cavalcatura avevano quattro ronzini zoppicanti, magri, meschini e sfiancati.
Così cavalcando, giunsero ai margini del bosco; un nano, brutto come un rospo enfiato, aveva legato i ronzini coda a coda, e procedeva a alto dei quattro non cessando di percuoterli con una correggia a sei nodi; credeva con ciò di compiere una grande prodezza. Li batteva così forte che i quattro sventurati ne sanguinavano, avanzando in quel modo indegno tra il gigante e il nano.
Nei romanzi cavallereschi i nani sono servi malvagi di signori malvagi. La cultura medievale vedeva in un corpo segnato da minorazioni o deformità un “segno del Signore” che connotava malvagità morale; qui il paragone con un rospo enfiato riporta il nano al mondo animale (secondo i bestiari medievali, il rospo è velenoso, malvagio e diabolico). Contrapposta alla deformità maligna sta la bellezza e la grazia degli abitanti del castello e di Yvain; questi è spesso chiamato bello e caro signore, bella è la figlia e belli sono i fratelli prigionieri. Nobiltà, gentilezza e bellezza si intrecciano nei personaggi positivi.
Innanzi alla porta, in mezzo a uno spiazzo, il gigante si arresta e grida al nobile signore che sfiderà i suoi figli in uno scontro mortale, se non gli accorderà la figlia ch’egli gli consegnerà e prostituirà ai suoi garzoni, dacché non la ama e non la stima tanto da degnarsi di abbassarsi fino a lei. A tenerle compagnia, avrà sempre un buon migliaio di garzoni pidocchiosi e pezzenti come sono gli sguatteri e i ribaldi, e tutti pagheranno lo scotto.
Per poco il valent’uomo non è sopraffatto dall’ira quando sente che quell’infame gli prostituirà la figlia o sull’istante metterà a morte i suoi quattro figli sotto i suoi stessi occhi. Ne ha tale afflizione che preferirebbe la morte alla vita. Più volte si chiama meschino e infelice, piange a dirotto e sospira.
Il gigante rappresenta la “scortesia malvagia”: egli è fellone e arrogante, cioè vigliacco e superbo, simbolo di una crudeltà assolutamente inumana e gratuita, tesa a distruggere ogni bellezza.
Il suo arrivo segna un cambio di stile narrativo poiché ora predomina il gusto per la descrizione vivace, fatta di particolari realistici: il grosso palo appuntito, le condizioni dei quattro prigionieri, i ronzini che essi cavalcano sono elementi di realismo.
Allora messer Yvain, che è nobile e gentile, inizia a dire:
“Signore, quel gigante che sotto le vostre mura mostra tanto orgoglio, è invero fellone e arrogante; ma Dio non voglia tollerare ch’egli abbia vostra figlia in proprio potere! La disprezza e la oltraggia troppo! Sarebbe una sventura invero crudele se una creatura di sì grande bellezza e nobiltà fosse abbandonata a dei garzoni. Presto, le mie armi e il mio cavallo! Fate abbassare il ponte, così che possa uscire. Bisogna che uno dei due sia vinto, non so se io o lui. Se potessi umiliare quell’infame, quello scellerato che ci va qui tormentando, sì da costringerlo a liberare i vostri figli e a venire a riparare in questo stesso luogo le ingiurie che vi ha rivolto, allora vi direi addio e me ne partirei per la mia avventura”.Traggono fuori il suo cavallo e gli consegnano tutte le armi; si adoprano a servirlo con cura, ed eccolo subito pronto e rivestito, ché ad armarlo non hanno perso tempo, se non quello ch’era dovuto!
Quando l’hanno equipaggiato di tutte le armi, non resta che abbassare il ponte e lasciarlo partire. Il ponte è calato e Yvain esce, ma per nulla al mondo il leone rimarrebbe indietro senza di lui. Quelli che sono rimasti nel recinto lo raccomandano al Salvatore: sono per lui in grande sgomento e pregano che quel demonio malvagio, che aveva ucciso tanti prodi davanti ai loro occhi, non riservi a Yvain la stessa sorte in quello spiazzo. Così implorano Dio che lo protegga dalla morte e lo faccia tornare da loro sano e salvo, dopo avergli concesso di uccidere il gigante. Ciascuno prega Dio con grande fervore, secondo il propri talento.Ora il gigante è venuto incontro a Yvain con fiero ardire e lo ha minacciato con queste parole:
“Per i miei occhi, colui che ti inviò qui non ti aveva caro! Invero non avrebbe potuto prendere su di te maggiore vendetta. Come ha sputo punire il male che gli hai fatto!”
“Cessa i tuoi vani discorsi” risponde Yvain che non lo teme “Fa’ del tuo meglio, ed io farò altrettanto, ché sono stanco delle tue sciocche parole.”
Al contrario del linguaggio cortese dei suoi nemici, il gigante si esprime in modo sprezzante, volgare e aggressivo, come sottolineato dalle espressioni vani discorsi, sciocche parole usate da Yvain per definirlo; le parole del gigante diventeranno un suono animalesco quando questi verrà ferito (muggisce e grida come un toro).
Subito messer Yvain, che è impaziente di andarsene, si slancia contro il gigante e lo coplpisce in mezzo al petto ch’era protetto da una pelle d’orso. Da parte sua l’altro gli corre addosso con il bastone, ma messer Yvain gli ha assestato tal colpo in pieno petto che gli ha trapassato la pelle; e il sangue, come fosse salsa, gli bagna il ferro della lancia. Ma il gigante lo percuote col bastone con tal furore che lo fa piegare sotto l’urto.
Come vuole il codice cavalleresco Yvain combatte con armi adeguate al suo rango (spada e lancia) e indossa la corazza, mentre il gigante usa un bastone, con cui percuote con furore, e indossa una pelle d’orso, non l’armatura che solo un cavaliere consacrato può vestire.
Messer Yvain estrae allora la spada con cui sa infliggere grandi colpi: ha trovato scoperto il gigante che tanto confidava nella propria forza da disdegnare ogni armatura. Tratta la spada, Yvain lo attacca, di taglio, non già di piatto, e lo raggiunge alla gota, trinciando via un bel pezzo di carbonata [sottogola, parte dell’armatura che protegge il collo]; ma a sua volta il gigante replica con una tal percossa che lo fa piegare fino all’incollatura del destriero. A quel colpo il leone drizza la criniera e si appresta a soccorrere il padrone: l’ira gli fa spiccare un balzo possente. Spacca la pelle villosa del gigante come una corteccia, e strappa un gran pezzo dell’anca, sì che gli ha reciso muscoli e nervi.
Il gigante riesce a liberarsi, e muggisce con grida come un toro, ché il leone l’ha invero straziato. Ha alzato il bastone con entrambe le mani: crede di colpire l’animale, ma lo manca perché la fiera ha fatto un balzo di lato. Il colpo si perde e si abbatte a vuoto accanto a monsignor Yvain, senza sfiorare né l’uno né l’altro.
Ma messer Yvain ha misurato il proprio colpo e per ben due volte gli mette la spada nella carne. Prima che l’avversario si sia ripreso, col filo della spada gli ha spiccato la spada da busto, e con l’altro gli ha conficcato tutta la spada sotto la mammella, fino al fegato. Il gigante cade a terra e la morte lo serra: se si abbattesse una grossa quercia, credo che non produrrebbe un rumore più forte di quello che fece il gigante nella sua caduta.
La scena del combattimento ha un ritmo incalzante: il narratore descrive le armi, i colpi, le ferite, senza trascurare i particolari più crudi, come l’immagine del sangue che scende come fosse salsa.
L’intervento del narratore (credo) serve a sottolineare il momento emozionante del racconto e a renderlo più credibile al lettore, quasi che il narratore fosse presente al duello.
Tutti quelli che erano ai merli del castello vogliono vedere l’effetto di quel colpo. Allora ben si vede chi è il più agile, ché tutti accorrono alla curée, come quei cani che hanno catturato la preda dopo averla tanto inseguita. Così accorrevano tutti e tutte, senza risparmio e a gara, là dove il gigante giaceva con il viso in aria.
Chretién usa una similitudine tratta dal mondo nobiliare facilemnte comprensibile per i suoi lettori: la curée e il momento in cui, dopo la caccia, si danno ai cani le viscere delle prede. Chretién vuole esprimere la bramosia con cui tutti gli abitanti del castello corrono verso il gigante morto.
Accorre persino il castellano con tutte le genti della corte; accorre la figlia e accorre la madre. I quattro fratelli, che prima avevano patito gran male, ora fanno festa. Tutti sono certi che non potranno trattenere monsignor Yvain, qualsiasi cosa accada, così si limitano a pregarlo di tornare per il suo diletto e soggiorno appena avrà portato a termine la sua avventura, là dove deve andare. ed egli risponde che non osa fare tale promessa, ché non può prevedere se avrà esito infausto o felice. Ma intanto dice al signore del castello che vuole che la figlia e i quattro figli prendano il nano e vadano da monsignor Galvano, appena avranno saputo del suo ritorno, e gli riferiscano e gli narrino quanto ha fatto, poiché non tiene in alcun conto il proprio valore colui che vuole che resti sconosciuto.
Secondo l’etica cortese una bella avventura deve essere narrata e Yvain chiede che questa sua lo sia, anche se con modestia non dirà al castellano il suo vero nome, pensando che Galvano potrà indovinarlo da sé.