Il treno ha fischiato
la scoperta della vita
Il signor Belluca è un impiegato obbediente, un contabile mansueto e preciso. Un bel giorno però inizia a comportarsi in modo insolito, al punto tale che i colleghi e il capoufficio, credendolo pazzo, insistono perché sia ricoverato in un ospedale psichiatrico. Neppure i dottori che lo hanno in cura riescono a comprendere il significato della frase che egli continua ostinatamente a ripetere: «il treno ha fischiato». Sarà il vicino di casa a spiegare il senso di questa strana follia.
*Farneticava. Principio di febbre cerebrale, avevano detto i medici; e lo ripetevano tutti i compagni d’ufficio, che ritornavano a due, a tre, dall’ospizio, ov’erano stati a visitarlo.
La novella si apre col punto di vista dei colleghi che hanno fatto visita a Belluca. Essi riflettono sulla diagnosi che hanno fatto i medici riguardo il suo stato di salute.
Pareva provassero un gusto particolare a darne l’annunzio coi termini scientifici, appresi or ora dai medici, a qualche collega ritardatario che incontravano per via:
Frenesia, frenesia.
Encefalite.
Infiammazione della membrana.
Febbre cerebrale .
E volevan sembrare afflitti; ma erano in fondo così contenti, anche per quel dovere compiuto; nella pienezza della salute, usciti da quel triste ospizio al gajo azzurro della mattinata invernale.
Morrà? Impazzirà?
Mah!
Morire, pare di no…
Ma che dice? che dice?
Sempre la stessa cosa. Farnetica…
Povero Belluca!
E a nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in cui quell’infelice viveva da tant’anni, il suo caso poteva anche essere naturalissimo; e che tutto ciò che Belluca diceva e che pareva a tutti delirio, sintomo della frenesia, poteva anche essere la spiegazione più semplice di quel suo naturalissimo caso.
Interviene il narratore per correggere il giudizio sbagliato dei colleghi. Nella novella si alternano due punti di vista: il primo è quello dei colleghi che concordano con le autorità sulla necessità di far internare il loro compagno di lavoro; il secondo è quello della voce narrante che, progressivamente, diventa più convincente dell’altro.
Fabula e intreccio non coincidono e la tecnica narrativa contribuisce a creare nel lettore una serie di interrogativi. La novella si apre in medias res, nel cuore della storia, con un racconto in terza persona. Gli elementi per la comprensione di quanto è accaduto sono forniti, poi, in flashback. A metà racconto la parola passa al narratore interno che chiarisce al lettore i veri motivi del comportamento di Belluca (Belluca, signori, non è impazzito. State sicuri… Signori, Belluca, s’era dimenticato da tanti e tanti anni — ma proprio dimenticato che il mondo esisteva) e contrappone alle opinioni dei colleghi la sua versione dei fatti. Con il mutare della voce narrante cambia il punto di vista (focalizzazione interna variabile: compagni d’ufficio, medici, narratore, Belluca). La narrazione è quasi interamente costruita con il discorso indiretto libero che riporta i pensieri dei personaggi.
Veramente, il fatto che Belluca, la sera avanti, s’era fieramente ribellato al suo capo ufficio, e che poi, all’aspra riprensione di questo, per poco non gli s’era scagliato addosso, dava un serio argomento alla supposizione che si trattasse d’una vera e propria alienazione mentale.
Nell’ottica borghese dei colleghi, ribellarsi al capoufficio è pura follia; la stranezza con la quale si è ribellato al capoufficio, dopo anni passati a sopportarne i soprusi, testimonia la gravità del suo disturbo psichico e la necessità di farlo internare in manicomio. Per i suoi colleghi e per i medici Belluca è pazzo: non riescono a comprendere che i suoi gesti inattesi e la ribellione al capoufficio sono un modo per disfarsi della maschera impostagli dalla società, e allora gli attribuiscono una nuova «forma», quella del pazzo (Farneticava… frenesia… encefalite), che la società esclude e isola.
Perché uomo più mansueto e sottomesso, più metodico e paziente di Belluca non si sarebbe potuto immaginare.
Circoscritto… sì, chi l’aveva definito così? Uno dei suoi compagni d’ufficio. Circoscritto, povero Belluca, entro i limiti angustissimi della sua arida mansione di computista, senz’altra memoria che non fosse di partite aperte, di partite semplici o doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti e impostazioni; note, libri mastri, partitarii, stracciafogli e via dicendo. Casellario ambulante: o piuttosto, vecchio somaro, che tirava zitto zitto, sempre d’un passo, sempre per la stessa strada la carretta, con tanto di paraocchi.
Orbene, cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato senza pietà, cosi per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzire un po’, a fargli almeno drizzare un po’ le orecchie abbattute, se non a dar segno che volesse levare un piede per sparar qualche calcio. Niente! S’era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre, senza neppur fiatare, come se gli toccassero, o meglio, come se non le sentisse più, avvezzo com’era da anni e anni alle continue solenni bastonature della sorte.
Inconcepibile, dunque, veramente, quella ribellione in lui, se non come effetto d’una improvvisa alienazione mentale.
*Tanto più che, la sera avanti, proprio gli toccava la riprensione; proprio aveva il diritto di fargliela, il capo ufficio. Già s’era presentato, la mattina, con un’aria insolita, nuova; e cosa veramente enorme, paragonabile, che so? al crollo d’una montagna era venuto con più di mezz’ora di ritardo.
Il narratore assume il punto di vista dei colleghi, producendo un effetto straniante. Il variare dei punti di vista nel corso del racconto esprime la problematica esistenziale del come si è e del come invece si appare, oltre che la concezione pirandelliana di una realtà mai univoca, sempre interpretabile in vari modi.
Pareva che il viso, tutt’a un tratto, gli si fosse allargato. Pareva che i paraocchi gli fossero tutt’a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalancato d’improvviso all’intorno lo spettacolo della vita. Pareva che gli orecchi tutt’a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta voci, suoni non avvertiti mai.
Così ilare, d’una ilarità vaga e piena di stordimento, s’era presentato all’ufficio. E, tutto il giorno, non aveva combinato niente.
La sera, il capo ufficio, entrando nella stanza di lui, esaminati i registri, le carte:
E come mai? Che hai combinato tutt’oggi?
Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un’aria d’impudenza, aprendo le mani.
Che significa? aveva allora esclamato il capo ufficio, accostandoglisi e prendendolo per una spalla e scrollandolo. Ohé, Belluca!
Niente, aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra d’impudenza e d’imbecillità su le labbra. Il treno, signor Cavaliere.
Il treno? Che treno?
- Ha fischiato.
Ma che diavolo dici?
Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L’ho sentito fischiare…
Il treno?
Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia… oppure oppure… nelle foreste del Congo… Si fa in un attimo, signor Cavaliere!
Inizia il discorso frammentario di Belluca, che esprime come prima affermazione il desiderio di evadere da una situazione oppressiva.
La spiegazione di quanto è successo è fornita anche dal protagonista:
- l’improvviso fischio notturno del treno ha messo in moto il suo viaggio liberatorio;
- la vastità indefinita dello spazio aperto, simbolo della «vita» (C’era, ah! c’era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c’era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s’avviava… Firenze, Bologna, Torino, Venezia…, rr. 175–177), irrompe nell’angustia della «forma» e dello spazio chiuso della casa e dell’ufficio;
- la fuga nella fantasia è occasione di riscatto dalla grettezza e dalle umiliazioni quotidiane, cui ora può ribellarsi ritrovando l’autenticità del proprio essere.
Belluca ritornerà alla sua computisteria, ma ora che il treno ha fischiato… sarà un uomo nuovo e potrà evadere dallo squallore della vita attraverso l’immaginazione.
Gli altri impiegati, alle grida del capo ufficio imbestialito, erano entrati nella stanza e, sentendo parlare così Belluca, giù risate da pazzi.
Allora il capo ufficio che quella sera doveva essere il malumore urtato da quelle risate, era montato su tutte le furie e aveva malmenato la mansueta vittima di tanti suoi scherzi crudeli.
Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di tutti, s’era ribellata, aveva inveito, gridando sempre quella stramberia del treno che aveva fischiato, e che, perdio, ora non più, ora ch’egli aveva sentito fischiare il treno, non poteva più, non voleva più esser trattato a quel modo.
Lo avevano a viva forza preso, imbracato e trascinato all’ospizio dei matti.*Seguitava ancora, qua, a parlare di quel treno. Ne imitava il fischio. Oh, un fischio assai lamentoso, come lontano, nella notte; accorato. E, subito dopo, soggiungeva:
Si parte, si parte… Signori, per dove? per dove?
E guardava tutti con occhi che non erano più i suoi. Quegli occhi, di solito cupi, senza lustro, aggrottati, ora gli ridevano lucidissimi, come quelli d’un bambino o d’un uomo felice; e frasi senza costrutto gli uscivano dalle labbra. Cose inaudite; espressioni poetiche, immaginose, bislacche, che tanto più stupivano, in quanto non si poteva in alcun modo spiegare come, per qual prodigio, fiorissero in bocca a lui, cioè a uno che finora non s’era mai occupato d’altro che di cifre e registri e cataloghi, rimanendo come cieco e sordo alla vita: macchinetta di computisteria. Ora parlava di azzurre fronti di montagne nevose, levate al cielo; parlava di viscidi cetacei che, voluminosi, sul fondo dei mari, con la coda facevan la virgola. Cose, ripeto, inaudite.
Chi venne a riferirmele insieme con la notizia dell’improvvisa alienazione mentale rimase però sconcertato, non notando in me, non che meraviglia, ma neppur una lieve sorpresa.
Il narratore diventa un personaggio della storia. La reazione di Belluca è per lui una cosa normale, pertanto promette di avere una spiegazione “normale” da Belluca stesso. La voce narrante descrive e spiega il comportamento di Belluca in modo convincente e appropriato dei giudizi convenzionali e affrettati dei colleghi, delle autorità e del capoufficio. La voce narrante si scopre essere quella del vicino di casa, che svolge così la duplice funzione di contestare l’opinione di chi si affida a delle verità riferite senza verificarle, e di attivare il meccanismo dell’inchiesta, che permette di contrapporre alla falsità delle opinioni correnti motivazioni più profonde del comportamento umano. La ricerca della realtà nascosta dietro l’apparenza, perciò, è affidata alla voce narrante, che all’inizio è imprecisata e poi assume l’identità di un vicino di casa di Belluca. Questi conosce la sua situazione familiare e perciò ipotizza che la vicenda, una volta ricostruita, possa essere considerata del tutto naturale: la pazzia di Belluca è come la coda di un mostro, ossia il risultato finale (la coda) della sua esistenza alienata (il mostro).
Difatti io accolsi in silenzio la notizia.
E il mio silenzio era pieno di dolore. Tentennai il capo, con gli angoli della bocca contratti in giù, amaramente, e dissi:
Belluca, signori, non è impazzito. State sicuri che non è impazzito. Qualche cosa dev’essergli accaduta; ma naturalissima. Nessuno se la può spiegare, perché nessuno sa bene come quest’uomo ha vissuto finora. Io che lo so, son sicuro che mi spiegherò tutto naturalissimamente, appena l’avrò veduto e avrò parlato con lui.*Cammin facendo verso l’ospizio ove il poverino era stato ricoverato, seguitai a riflettere per conto mio:
“A un uomo che viva come Belluca finora ha vissuto, cioè una vita “impossibile”, la cosa più ovvia, I’incidente più comune, un qualunque lievissimo inciampo impreveduto, che so io, d’un ciottolo per via, possono produrre effetti straordinarii, di cui nessuno si può dar la spiegazione, se non pensa appunto che la vita di quell’uomo è “impossibile”. Bisogna condurre la spiegazione là, riattaccandola a quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà allora semplice e chiara. Chi veda soltanto una coda, facendo astrazione dal mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per se stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà più tale; ma quale dev’essere, appartenendo a quel mostro.
Una coda naturalissima.”
La riflessione del narratore vede come la vita di Belluca abbia generato una “coda naturalissima” nel suo strano atteggiamento. Il narratore esprime un approccio umoristico alla vicenda di Belluca, perché va oltre le apparenze. Inizia subito dopo il flashback del narratore che spiega la condizione familiare vissuta da Belluca.
Non avevo veduto mai un uomo vivere come Belluca.
Ero suo vicino di casa, e non io soltanto, ma tutti gli altri inquilini della casa si domandavano con me come mai quell’uomo potesse resistere in quelle condizioni di vita.
Aveva con sé tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera: queste due, vecchissime, per cataratta; I’altra, la moglie, senza cataratta, cieca fissa; palpebre murate.
Tutt’e tre volevano esser servite. Strillavano dalla mattina alla sera perché nessuno le serviva. Le due figliuole vedove, raccolte in casa dopo la morte dei mariti, l’una con quattro, l’altra con tre figliuoli, non avevano mai né tempo né voglia da badare ad esse; se mai, porgevano qualche ajuto alla madre soltanto.
Con lo scarso provento del suo impieguccio di computista poteva Belluca dar da mangiare a tutte quelle bocche? Si procurava altro lavoro per la sera, in casa: carte da ricopiare. E ricopiava tra gli strilli indiavolati di quelle cinque donne e di quei sette ragazzi finché essi, tutt’e dodici, non trovavan posto nei tre soli letti della casa.
Letti ampii, matrimoniali; ma tre.
Zuffe furibonde, inseguimenti, mobili rovesciati, stoviglie rotte, pianti, urli, tonfi, perché qualcuno dei ragazzi, al bujo, scappava e andava a cacciarsi fra le tre vecchie cieche, che dormivano in un letto a parte, e che ogni sera litigavano anch’esse tra loro, perché nessuna delle tre voleva stare in mezzo e si ribellava quando veniva la sua volta.
Alla fine, si faceva silenzio, e Belluca seguitava a ricopiare fino a tarda notte, finché la penna non gli cadeva di mano e gli occhi non gli si chiudevano da sé.
Andava allora a buttarsi, spesso vestito, su un divanaccio sgangherato, e subito sprofondava in un sonno di piombo, da cui ogni mattina si levava a stento, più intontito che mai.
Ebbene, signori: a Belluca, in queste condizioni, era accaduto un fatto naturalissimo.
Quando andai a trovarlo all’ospizio, me lo raccontò lui stesso, per filo e per segno. Era, sì, ancora esaltato un po’, ma naturalissimamente, per ciò che gli era accaduto. Rideva dei medici e degli infermieri e di tutti i suoi colleghi, che lo credevano impazzito.
Magari! diceva Magari!
Signori, Belluca, s’era dimenticato da tanti e tanti anni ma proprio dimenticato che il mondo esisteva.
Il narratore, portavoce del protagonista, spiega che la sua apparente follia è in realtà una forma di conoscenza più profonda e naturale.
Assorto nel continuo tormento di quella sua sciagurata esistenza, assorto tutto il giorno nei conti del suo ufficio, senza mai un momento di respiro, come una bestia bendata, aggiogata alla stanga d’una nòria o d’un molino, sissignori, s’era dimenticato da anni e anni ma proprio dimenticato che il mondo esisteva.
*Due sere avanti, buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forse per l’eccessiva stanchezza, insolitamente, non gli era riuscito d’addormentarsi subito. E, d’improvviso, nel silenzio profondo della notte, aveva sentito, da lontano, fischiare un treno.
Gli era parso che gli orecchi, dopo tant’anni, chi sa come, d’improvviso gli si fossero sturati.
Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d’un tratto la miseria di tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiato s’era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutt’intorno.
Il fischio del treno è per Belluca la rivelazione che un “oltre”, privo di costrizioni sociali, è possibile. L’evasione dalla quotidianità è — quindi — un’affermazione della vita.
La percezione del fischio del treno, infatti, rivela di colpo all’impiegato — intrappolato in una situazione lavorativa mortificante e in una condizione familiare oppressiva — la possibilità di un’esistenza vissuta. Belluca prima è “murato” nel suo inferno privato dalla forma: le consuedutini della società hanno preso il sopravvento sulla vita. Il fischio del treno è quindi un’epifania, perché improvvisamente rivela al personaggio una verità prima sconosciuta e nascosta, rappresentando la possibilità di uscire dalla condizione “di bestia bendata, aggiogata alla stanga d’una noria o di un mulino”, per riacquistare quella parte di libertà che il meccanismo alienante della propria esistenza gli aveva negato.
S’era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era corso col pensiero dietro a quel treno che s’allontanava nella notte.
C’era, ah! c’era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c’era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s’avviava… Firenze, Bologna, Torino, Venezia… tante città, in cui egli da giovine era stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sì, sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui! E seguitava, quella vita; aveva sempre seguitato, mentr’egli qua, come una bestia bendata, girava la stanga del molino. Non ci aveva pensato più! Il mondo s’era chiuso per lui, nel tormento della sua casa, nell’arida, ispida angustia della sua computisteria… Ma ora, ecco, gli rientrava, come per travaso violento, nello spirito. L’attimo, che scoccava per lui, qua, in questa sua prigione, scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui con l’immaginazione d’improvviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo per città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari… Questo stesso brivido, questo stesso palpito del tempo. C’erano, mentr’egli qua viveva questa vita “ impossibile “, tanti e tanti milioni d’uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch’egli qua soffriva, c’erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti… sì, sì, le vedeva, le vedeva, le vedeva cosi… c’erano gli oceani… Ie foreste…
E, dunque, lui ora che il mondo gli era rientrato nello spirito poteva in qualche modo consolarsi! Sì, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere con l’immaginazione una boccata d’aria nel mondo.
Gli bastava!
Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S’era ubriacato. Tutto il mondo, dentro d’un tratto: un cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricomposto. Era ancora ebro della troppa troppa aria, lo sentiva.
Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capo ufficio, e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto il capo ufficio ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l’altra da registrare, egli facesse una capatina, sì, in Siberia… oppure oppure… nelle foreste del Congo:
Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato…
Il finale è paradossale: le convenzioni della forma non possono coesistere con la libertà della vita.
Il racconto sviluppa il tema pirandelliano del contrasto tra realtà e apparenza, tra come veramente siamo e la nostra immagine esteriore. Questo conflitto tra «vita» e «forma» si esprime attraverso situazioni paradossali: gli altri vedono il protagonista in una dimensione “cristallizzata”, ma dietro questa forma (abitudini, lavoro) si nasconde il disagio, la sofferenza, uniti al desiderio di uscire da essa, di ricercare la propria autenticità. Di qui nasce il dramma dell’incomunicabilità: agli altri, Bellu- ca appare come un pazzo, ma tale egli non è né si sente. Il fischio del treno arriva improvviso a illuminarlo, a rivelargli l’assurdità di quella sua esistenza non vissuta, l’«oltre» cui Pirandello allude nel saggio L’umorismo.
La rottura del meccanismo imposto dalla forma genera comportamenti considerati folli da chi, come i colleghi, il capoufficio e i medici, sostengono una visione del mondo convenzionale e conformista. Belluca, appoggiato dal narratore, capovolge i valori consueti: la follia diventa una forma di contestazione contro la società, cioè contro la forma e rappresenta la libertà della vita.