Il visconte Medardo colpito dal cannone
Il Visconte dimezzato di Italo Calvino
La trilogia degli antenati
Quando ho incominciato a scrivere storie fantastiche non mi ponevo ancora problemi teorici: l’unica cosa di cui ero sicuro era che all’origine di ogni mio racconto c’era un immagine visuale. Per esempio, una di queste immagini è stato un uomo tagliato in due metà che continuano a vivere indipendentemente; un altro esempio poteva essere il ragazzo che s’arrampica su un albero e poi passa da un albero all’altro senza più scendere a terra; un’altra ancora un’armatura vuota che si muove e parla coem se ci fosse dentro qualcuno
Così scriveva Calvino nelle Lezioni americane (1985) a proposito della Trilogia degli antenati. Oltre che dal gusto della narrazione, i romanzi fantastici di Calvino sono sempre motivati dall’intenzione di studiare e rappresentare la condizione dell’uomo di oggi, il modo della sua “alienazione”, le vie di raggiungimento d’un’umanità totale”. La fantasia e le trovate surreali sono, dunque, spiegazione del mondo contemporaneo perché l’impegno intellettuale e filosofico è espresso attraverso il travestimento fiabesco della realtà. I romanzi, infatti, recuperano la struttura narrativa della fiaba esprimendo la complessità dei rapporti sociali, descrivendo i personaggi sono metafora della condizione umana di un uomo costantemente impegnato nella faticosa conquista della libertà individuale in un universo alienante. L’unico strumento utile a condurre tale ricerca è la ragione. All’intelletto è affidata la speranza di conquistare la dignità e la misura, strumenti necessari al vivere civile.
La Trilogia degli antenati, quindi, non è una raccolta di racconti per preadolescenti, ma se tutta la letteratura è “un esercizio di fantasia espresso in forma di parole” il suo fine diventa penetrare il male del mondo per individuare le terapie per sconfiggerlo.
La scelta della fiaba esprime l’interesse di Calvino per la forma delle vicende, che consente di evitare l’approfondimento psicologico del protagonista per dare un valore universale alla vicenda, che rappresenta l’eterna vicenda dell’uomo cioé la lotta per raggiungere la felicità.
Ogni romanzo della Trilogia si chiude con ironia, sarcasmo, spesso una beffa che permette l’irrompere dell’utopia nella riflessione esistenziale, così da esprimere la funzione di denuncia della realtà contemporanea da parte della della letteratura.
I romanzi
Le storie dei nostri antenati — come li definiva Calvino — sono surrealistiche fantasie che illustrano la condizione dell’uomo nella società moderna. I romanzi sono Il visconte dimezzato (1952)il cui protagonista è Medardo di Terralba; la vicenda riflette sull’indissolubilità tra Bene e Male in ogni individuo. Il barone rampante (1957) un romanzo di formazione che narra la vicenda di Cosimo Piovasco di Rondò, simbolo dell’intellettuale che osserva la realtà con distanza e ironia. E, infine, Il cavaliere inesistente (1959), storia del paladino Agilulfo che rappresenta la metafora del conformismo e dei limiti della razionalità astratta.
Il visconte dimezzato — trama
Il nobile Medardo di Terralba milita nell’esercito austriaco durante una guerra contro la Turchia. Durante un assalto un palla di cannone lo colpisce e lo divide in due metà. Medardo il Buono (la parte sinistra) e Medardo il cattivo (la parte destra) sono due mezzi personaggi antitetici, che rappresentano il bene e il male. Le due metà si ricongiungeranno per l’intervento della contadina Pamela, di cui sono entrambi innamorati, e che il visconte sposerà.
Il Visconte diviso in due parti rappresenta la lacerazione dell’uomo moderno, che è lacerato dalla Storia e alienato dal capitalismo consumista. L’uomo può accettare le sue contraddizioni solo grazie alla razionalità, perché la consapevolezza dell’esistenza dentro ciascuno di noi di elementi contraddittori può far nascere una nuova umanità: il ricongiungimento delle due metà è metafora proprio di questa accettazione di sé.
Il visconte Medardo colpito dal cannone — analisi del capitolo 2
Il visconte Medardo di Terralba all’inizio della battaglia si ferma a osservare il campo di scontro, inconsapevole della sorte che lo attende, in compagnia dello scudiero Curzio. Non sa che nell’imminente battaglia il proprio corpo sarà diviso in due parti che continueranno a vivere autonomamente.
La battaglia cominciò puntualmente alle dieci del mattino. Dall’alto della sella, il luogotenente Medardo contemplava l’ampiezza dello schieramento cristiano, pronto per l’attacco, e protendeva il viso al vento di Boemia, che sollevava odor di pula come da un’aia polverosa.
Il tempo e il luogo della narrazione indeterminati, infatti i riferimenti sono generici, si comprende solo che la battaglia si svolge in una località indeterminata in Europa Centrale, in un passato indicativamente riconoscibile come il XVII secolo. L’indeterminatezza è una delle caratteristiche dello stile fiabesco. Altro elemento della fiaba è il narrato colloquiale. La storia è raccontata dal nipote di Medardo, con uno stile semplice e vicino al parlato per i frequenti accenni al ruolo di testimone diretto o indiretto delle vicende.
- No, non si volti indietro, signore, — esclamò Curzio che, col grado di sergente, era al suo fianco. E, per giustificare la frase perentoria, aggiunse, piano: — Dicono porti male, prima del combattimento.
In realtà, non voleva che il visconte si scorasse, avvedendosi che l’esercito cristiano consisteva quasi soltanto in quella fila schierata, e che le forze di rincalzo erano appena qualche squadra di fanti male in gamba.
Ma mio zio guardava lontano, alla nuvola che s’avvicinava all’orizzonte, e pensava: Ecco, quella nuvola è i turchi, i veri turchi, e questi al mio fianco che sputano tabacco sono i veterani della cristianità, e questa tromba che ora suona è l’attacco, il primo attacco della mia vita, e questo boato e scuotimento, il bolide che s’insacca in terra guardato con pigra noia dai veterani e dai cavalli è una palla di cannone, la prima palla nemica che io incontro. Così non venga il giorno in cui dovrò dire: “ E questa è l’ultima ”.
A spada sguainata, si trovò a galoppare per la piana, gli occhi allo stendardo imperiale che spariva e riappariva tra il fumo, mentre le cannonate amiche ruotavano nel cielo sopra il suo capo, e le nemiche già aprivano brecce nella fronte cristiana e improvvisi ombrelli di terriccio. Pensava: Vedrò i turchi! Vedrò i turchi! Nulla piace agli uomini quanto avere dei nemici e vedere se sono proprio come ci s ’immagina.
Li vide, i turchi. Ne arrivavano due proprio di lì. Coi cavalli intabarrati, il piccolo scudo tondo, di cuoio, veste a righe nere e zafferano. E il turbante, la faccia color ocra e i baffi come uno che a Terralba era chiamato Miché il turco. Uno dei due turchi morì e l’altro uccise un altro. Ma ne stavano arrivando chissà quanti e c’era il combattimento all’arma bianca. Visti due turchi era come averli visti tutti. Erano militari pure loro, e tutte quelle robe erano dotazione dell’esercito. Le facce erano cotte e cocciute come i contadini. Medardo, per quel che era vederli, ormai li aveva visti; poteva tornarsene da noi a Terralba in tempo per il passo delle quaglie. Invece aveva fatto la ferma per la guerra. Così correva, scansando i colpi delle scimitarre, finché non trovò un turco basso, a piedi, e l’ammazzò. Visto come si faceva, andò a cercarne uno alto a cavallo, e fece male. Perché erano i piccoli, i dannosi. Andavano fin sotto i cavalli, con quelle scimitarre, e li squartavano.
Il cavallo di Medardo si fermò a gambe larghe. — Che fai? — disse il visconte. Curzio sopraggiunse indicando in basso: — Guardi un po’ lì -. Aveva tutte le coratelle di già in terra. Il povero animale guardò in su, al padrone, poi abbassò il capo come volesse brucare gli intestini, ma era solo un sfoggio d’eroismo: svenne e poi morì. Medardo di Terralba era appiedato.
Il linguaggio del racconto è fantastico, infatti la narrazione assume i tratti del racconto visionario fatto da Medardo stesso al nipote (che poi lo riferisce); l’evidente irrealtà delle situazioni come quella del cavallo sventrato che rimane in piedi, o di Medardo dimezzato, ma vivo, portano al sovveritmento delle regole logiche e naturali.
- Prenda il mio cavallo, tenente, — disse Curzio, ma non riuscì a fermarlo perché cadde di sella, ferito da una freccia turca, e il cavallo corse via.
- Curzio! — gridò il visconte e s’accostò allo scudiero che gemeva in terra.
- Non pensi a me, signore, — fece lo scudiero. — Speriamo solo che all’ospedale ci sia ancora della grappa. Ne tocca una scodella a ogni ferito.
Mio zio Medardo si gettò nella mischia. Le sorti della battaglia erano incerte. In quella confusione, pareva che a vincere fossero i cristiani. Di certo, avevano rotto lo schieramento turco e aggirato certe posizioni. Mio zio, con altri valorosi, s’era spinto fin sotto le batterie nemiche, e i turchi le spostavano, per tenere i cristiani sotto il fuoco. Due artiglieri turchi facevano girare un cannone a ruote. Lenti com’erano, barbuti, intabarrati fino ai piedi, sembravano due astronomi.
Il paragonare i soldati intabarrati a due astronomi rende comica la situazione di guerra e massacro che Medardo sta vivendo.
Mio zio disse: — Adesso arrivo lì e li aggiusto io -. Entusiasta e inesperto, non sapeva che ai cannoni ci s’avvicina solo di fianco o dalla parte della culatta. Lui saltò di fronte alla bocca da fuoco, a spada sguainata, e pensava di fare paura a quei due astronomi. Invece gli spararono una cannonata in pieno petto. Medardo di Terralba saltò in aria.
Alla sera, scesa la tregua, due carri andavano raccogliendo i corpi dei cristiani per il campo di battaglia. Uno era per i feriti e l’altro per i morti. La prima scelta si faceva lì sul campo. — Questo lo prendo io, quello lo prendi tu -. Dove sembrava ci fosse ancora qualcosa da salvare, lo mettevano sul carro dei feriti; dove erano solo pezzi e brani andava sul carro dei morti, per aver sepoltura benedetta; quello che non era più neanche un cadavere era lasciato in pasto alle cicogne. In quei giorni, viste le perdite crescenti, s’era data la disposizione che nei feriti era meglio abbondare. Così i resti di Medardo furono considerati un ferito e messi su quel carro.
Linguaggio è semplice e cristallino, asciutto e realistico al limite del macabro quando descrive la ferita del cavallo o le ferite e le operazioni chirurgiche.
La seconda scelta si faceva all’ospedale. Dopo le battaglie l’ospedale da campo offriva una vista ancor più atroce delle battaglie stesse. In terra c’era la lunga fila delle barelle con dentro quegli sventurati, e tutt’intorno imperversavano i dottori, strappandosi di mano pinze, seghe, aghi, arti amputati e gomitoli di spago. Morto per morto, a ogni cadavere facevan di tutto per farlo tornar vivo. Sega qui, cuci là, tampona falle, rovesciavano le vene come guanti e le rimettevano al suo posto, con dentro più spago che sangue, ma rattoppate e chiuse. Quando un paziente moriva, tutto quello che aveva di buono serviva a racconciare le membra di un altro, e così via. La cosa che imbrogliava di più erano gli intestini: una volta srotolati non si sapeva più come rimetterli.
La descrizione dell’ospedale e il comportamento dei medici disumanizza i feriti e i moribondi. Il primo è raffigurato come un’officina di riparazione di automezzi , con i corpi che servono da fonte per pezzi di ricambio, Dall’altra i medici sono più interessati a dimostrare la propria abilità che a salvare vite umane o a lente sofferneze, tanto che tralasciano feriti meno gravi di Medardo una volta che scoprono che Medardo è stato dimezzato, metà del suo corpo giace nel letto, dell’altra non c’è traccia. La singolarità della sua condizione appassiona i medici che vedono l’opportunità di una sfida scientifica, perciò lo salvano. “Adesso Medardo è vivo e dimezzato”.
Tirato via il lenzuolo, il corpo del visconte apparve orrendamente mutilato. Gli mancava un braccio e una gamba, non solo, ma tutto quel che c’era di torace e d’addome tra quel braccio e quella gamba era stato portato via, polverizzato da quella cannonata presa in pieno. Del capo restavano un occhio, un orecchio, una guancia, mezzo naso, mezza bocca, mezzo mento e mezza fronte: dell’altra metà del capo c’era più solo una pappetta. A farla breve, se n’era salvato solo metà, la parte destra, che peraltro era perfettamente conservata, senza neanche una scalfittura, escluso quell’enorme squarcio che l’aveva separata dalla parte sinistra andata in bricioli.
I medici: tutti contenti. — Uh, che bel caso! — Se non moriva nel frattempo, potevano provare anche a salvarlo. E gli si misero d’attorno, mentre i poveri soldati con una freccia in un braccio morivano di setticemia. Cucirono, applicarono, impastarono: chi lo sa cosa fecero. Fatto sta che l’indomani mio zio aperse l’unico occhio la mezza bocca, dilatò la narice e respirò. La forte fibra dei Terralba aveva resistito. Adesso era vivo e dimezzato.
Il racconto è allegorico, in quanto il visconte rappresenta l’uomo moderno, diviso nella sua condizione esistenziale, ma che aspira a una completezza al di là delle mutilazioni imposte dalla società. Tale percorso racconta l’aspirazione alla libertà, perciò Medardo (e successivamente Cosimo Piovasco di Rondò e Agilulfo) rappresentano gli antenati dell’uomo contemporaneo, in essi “si cela qualche tratto delle persone che ci sono intorno a noi, di voi, di me stesso” (Calvino nella prefazione alla Trilogia).
L’uomo moderno, infatti, è per l’autore in crisi profonda per il disorientamento che vive in una società in trasformazione. L’uomo non conosce più se stesso, perché ha molte identità, nessuna delle quali sente propria. Medardo incarna l’uomo scisso, lacerato. La mancanza di organicità si evidenzia nell’incapacità di dominare il tempo e lo spazio in cui agisce; ha una visione parziale della realtà, quindi è incapace di prendere decisioni e assumersi responsabilità. È un’umanità di antieroi desiderosi di riappropriarsi dell’armonia perduta.