Infelicità e sensibilità
L’ultimo canto di Saffo
Le Canzoni sono poesie giovanili d’ispirazione classicista di tono alto e retorico, in cui i temi esistenziali assumono una dimensione mitico-storica, con esempi provenienti dal passato e dalla tradizione letteraria. Il tema del suicidio è presente anche in L’ultimo canto di Saffo. Componimento che appare fortemente autobiografico. Il profondo senso di esclusione dalla felicità e dalla bellezza della natura, a causa del suo aspetto fisico e di una forte delusione d’amore, porta la poetessa greca Saffo al suicidio.
La canzone ha come protagonista Saffo, la poetessa greca vissuta tra il VII e il VI secolo a.C., e trae spunto dalla vicenda narrata da Ovidio, nella quale il poeta latino rievoca l’amore disperato di Saffo per il giovane Faone, che la disprezzava per la sua bruttezza.
Sul piano metrico Leopardi modifica la struttura della canzone petrarchesca, radicata da secoli nella tradizione letteraria, inserendo versi non in rima, che permettono una varietà di ritmo maggiore.
Placida notte, e verecondo raggio
De la cadente luna; e tu che spunti
Fra la tacita selva in su la rupe,
Nunzio del giorno; oh desiate e care
(Mentre ignote mi fur l’erinni e ’l fato)
Sembianze a gli occhi miei; già non arride
Spettacol molle a i disperati affetti.
Noi l’insueto allor gaudio ravviva
Quando per l’etra liquido si volve
E per li campi trepidanti il flutto
Polveroso de’ Noti, e quando il carro,
Grave carro di Giove, a noi sul capo,
Tonando, il tenebroso aere divide.
Noi per le balze e le profonde valli
Natar giova tra’ nembi, e noi la vasta
Fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto
Fiume a la dubbia sponda
Il suono e la vittrice ira de l’onda.
La prima strofa (vv. 1–18) si apre con la descrizione di un paesaggio notturno, dominato dalla luce della luna che sta per tramontare. Saffo, sulla rupe di Leucade, inizia così il suo canto, annoverando le sembianze della natura, ossia gli spettacoli offerti dalla bellezza del paesaggio. Ma l’armonia di tali sembianze non è più adeguata ai sentimenti del suo animo. A lei, che è prossima alla morte ed è delusa dalla vita, si accordano maggiormente le tempeste, la fuga delle greggi, il fragore del tuono.
Vago il tuo manto, o divo cielo, e vaga
Se’ tu, roscida terra. Ahi de la vostra
Infinita beltà parte nessuna
A la misera Saffo i numi e l’empia
Sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni
Vile, o Natura, e grave ospite addetta,
E dispregiata amante, a le vezzose
Tue forme il core e le pupille invano
Supplichevole intendo. A me non ride
L’aprico margo, e da l’eterea porta
Il mattutino albòr; me non il canto
De’ colorati augelli, e non de’ faggi
Il murmure saluta: e dove a l’ombra
De gl’inchinati salici dispiega
Candido rivo il puro seno, al mio
Lubrico piè le flessuose linfe
Disdegnando sottragge,
E preme in fuga l’odorate spiagge.
Con la seconda strofa (vv. 19–36) il canto di Saffo assume toni più riflessivi: il cielo e la terra sono cantati per la loro bellezza, ma proprio a questa bellezza Saffo sa di non appartenere; anzi, nonostante le sue suppliche alla natura, la poetessa dichiara di essere come un’estranea per il chiarore mattutino, per il canto degli uccelli e per i fiumi.
Qual de la mente mia nefando errore
Macchiommi anzi ’l natale, onde sì crudo
Il Ciel mi fosse e di fortuna il senno?
Qual nella prima età (mentre di colpa
Nudi viviam), sì ch’inesperto e scemo
Di giovanezza e sconsolato al fuso
De l’indomita Parca si devolva
Mio ferrugineo dì? Malcaute voci
Schiude il tuo labbro: i destinati eventi
Move arcano consiglio. Arcano è tutto,
Fuor di nostro dolor. Negletta prole
Nascemmo al pianto, e la cagíone in grembo
De’ Celesti si posa. Oh cure oh speme
De’ più verd’anni! A le sembianze il Padre,
A l’amene sembianze eterno regno
Diè ne’ caduchi, e per virili imprese,
Per dotta lira o canto,
Virtù non lúce in disadorno ammanto.
Nella terza strofa (37–54) la constatazione dell’estraneità alla bellezza diventa una vera e propria lamentazione che si esprime con una serie di domande (quale peccato ho commesso? quale colpa macchiò la mia anima?) alle quali Saffo non trova risposta. Il destino è governato da una legge imperscrutabile (arcano) e tutto ciò che l’uomo conosce della vita è la sofferenza. Nulla può liberare l’uomo da questa sorte negativa: per quanto si posseggano doti interiori sublimi, senza la bellezza esteriore non esiste alcuna virtù.
Il tema principale della poesia è il dolore di Saffo dovuto all’esclusione dalla bellezza e dalla felicità. Nonostante ella desideri una comunione totale con la natura, tanto da definirsi sua amante, Saffo è consapevole di essere dispregiata e addirittura un’ospite non gradita. La natura infatti rifiuta i doni che la poetessa può offrire: la sua sensibilità, il suo desiderio d’amore, il suo prode ingegno. Anzi, il suo dolore è direttamente proporzionale alla sua sensibilità e al suo ingegno: ma queste qualità non risplendono in un corpo dove è assente ogni bellezza esteriore. «La separazione è per Saffo, ancora prima che dagli dèi e dal destino e dalle loro ragioni (di fronte alle quali a un certo punto lei si arresta), dalla natura» (Lonardi) e la creazione di un personaggio femminile accentua maggiormente il senso di delicato struggimento e di disperata passione del personaggio. La sua “esclusione” dall’amore diventa la risoluzione di (auto)escludersi dalla vita: la poesia, che si era aperta con il tocco paesistico del passaggio dalla notte al far del mattino, si conclude con il passaggio verso un buio più oscuro (l’atra notte) e verso la silente riva alla quale la donna approderà.
Morremo. Il velo indegno a terra sparto,
Rifuggirà l’ignudo animo a Dite,
E ’l tristo fallo emenderà del cieco
Dispensator de’ casi. E tu cui lungo
Amore indarno e lunga fede e vano
D’implacato desio furor mi strinse,
Vivi felice, se felice in terra
Visse nato mortal. Me non asperse
Del soave licor l’avara ampolla
Di Giove indi che ’l sogno e i lieti inganni
Perìr di fanciullezza. Ogni più caro
Giorno di nostra età primo s’invola.
Sottentra il morbo e la vecchiezza, e l’ombra
De la gelida morte. Ecco di tante
Sperate palme e dilettosi errori,
Il Tartaro m’avanza; e ’l prode ingegno
Han la tenaria Diva
E l’atra notte e la silente riva.
La parte finale della canzone (55–72) segna il compimento del dramma. Saffo dichiara il suo proponimento di morire (morremo), e rilegge la propria vita come segnata da un destino avverso: i pochi giorni felici sono corsi via veloci e ormai le silenziose rive dell’aldilà hanno la loro vittoria sul prode ingegno della poetessa. Nonostante ciò, ella augura la felicità all’amato Faone, ammesso che egli, in quanto mortale, possa godere di qualche possibilità di gioia. Di fatto, questo augurio è vano, perché subito dopo viene ribadita la certezza del destino di sofferenza comune a tutti gli esseri umani. La poesia si chiude con il trionfo della morte tanto sulla vita umana quanto sul prode ingegno. Nemmeno la sensibilità, l’intelligenza, l’animo sublime di un poeta possono fuggire a questo destino.
L’incipit della strofa con un verbo plurale (morremo) apparentemente contrasta con il canto dell’io, focalizzazione evidenziata dai pronomi mi, me, dai possessivi mio, miei e negata dall’uso del plurale noi, in continua alternanza. Tanto noi (persona plurale) quanto mi, me (persona singolare) sono riferiti sempre a Saffo, con un impiego oscillante. Il noi ha certo un valore maiestatico: così nascemmo al pianto significa “io nacqui al pianto”. Ma l’alternanza continua che Leopardi propone tra un noi che è anche un io, un io che è anche un noi — presenta un’ambiguità semantica tale che Saffo, mentre parla di se stessa riflettendo sulla propria vita, parla anche dell’umanità intera afflitta dal dolore. Il destino di Saffo è dunque quello di tutti gli uomini: tutti sono destinati alla sofferenza e alla morte.
Leopardi stesso dovette sentire un forte parallelismo esistenziale con la leggenda della poetessa greca. Come Saffo, anche Leopardi prova dolore per la giovinezza tradita, per l’amore non corrisposto, per l’ingegno incompreso. L’esempio dell’antico ritorna identico nel moderno: nemmeno l’antichità è un’età felice poiché la condizione umana è immutata nel corso dei secoli.