Io m’aggio posto in core a Dio servire

Jacopo da Lentini e la scuola siciliana

Luca Pirola
3 min readMay 16, 2022

Giacomo da Lentini (1210 ca.-1260 ca.), notaio alla corte di Federico II, può essere considerato iniziatore della Scuola siciliana. Dante lo ricorda in questo modo, citandolo come «Notaro» per eccellenza, nel canto XXIV del Purgatorio.

Le liriche (circa quaranta) di Giacomo da Lentini, composte tra il 1233 e il 1240, sono dedicate esclusivamente all’amore cortese, del quale egli ripropone tutti gli stereotipi: la gioia e il dolore che provengono dal sentimento amoroso, con i suoi giochi delicati di audacia e ritrosia; la sottomissione nei confronti della donna, venerata in estatica contemplazione; la celebrazione della bellezza dell’amata e i paragoni con la natura. A lui si attribuisce l’invenzione del sonetto.

Io m’aggio posto in core a Dio servire

sonetto con rime alternate sia nelle quartine (ABAB ABAB) sia nelle terzine (CDC DCD)

Io m’a[g]gio posto in core a Dio servire,
com’io potesse gire in paradiso,
al santo loco ch’a[g]gio audito dire,
u’ si manten sollazzo, gioco e riso.

Il poeta si è ripromesso di servire Dio in modo da poter andare [gire] in paradiso, a quel luogo santo di cui ha [aggio] sentito parlare, dove durano in eterno [si mantien] piacere, divertimento e allegria.

Nella strofa iniziale del sonetto il proposito di una vita conforme alla morale religiosa («a Dio servire») ha come fine il premio di un paradiso caratterizzato da «sollazzo, gioco e riso»: sono tre parole che spesso ricorrono nella lirica cortese (provenzale e siciliana) proprio per definire le caratteristiche della corte feudale. Assistiamo a una commistione di terreno e divino, che non si risolve, però, nella prevalenza del cielo sulla terra; da ciò deriva anche il carattere sognante e vago, più che profondo, del ragionamento sull’amore.

Il sonetto evidenzia fin dalle prime parole il lessico siciliano, infatti «aggio», “ho”, è la forma siciliana della prima persona singolare del verbo avere. Sempre al v.1 servire nel senso di “essere fedele”; è un termine tipico della lirica d’amore cortese, il verbo indica il rapporto tra l’amante e la donna amata. Anche sollazzo, gioco e riso v.4 appartengono al lessico cortese. Sempre nel v. 4 u’ é la forma apocopata derivata dal latino ubi (“dove”).

Sanza mia donna non vi voria gire,
quella c’ha blonda testa e claro viso,
ché sanza lei non poteria gaudere,
estando da la mia donna diviso.

[Ma] non vorrebbe andarci senza la sua donna, quella che ha i capelli biondi e il viso luminoso, perché senza di lei non potrebbe essere felice [gaudere], essendo separato da lei.

Al v. 5 il termine donna ha qui il significato originario di “padrona, signora” (dal latino domina, “signora”). Al verso successivo blonda testa e claro viso sono due qualità della donna tipiche della poesia provenzale. Si noti la rima siciliana ai versi 5–7 (-ire; -ere).
La figura femminile ne risulta al tempo stesso terrenamente seducente («quella ch’ha blonda testa e claro viso», v. 6; «lo bel viso e ’l morbido sguardare», v. 12) e spiritualmente idealizzata. È un processo che proseguirà con gli stilnovisti verso una ancor più decisa sublimazione della figura femminile.

Ma no lo dico a tale intendimento,
perch’io peccato ci volesse fare;
se non veder lo suo bel portamento

Ma non lo dice con l’intenzione di volere commettere peccato con lei, se non quello di vedere il suo contegno virtuoso [bel portamento].

L’autore precisa di non voler peccare con la sua donna: il poeta allude qui a una concezione carnale dell’amore, giudicata ovviamente peccaminosa sia in chiave cortese sia in chiave religiosa.

e lo bel viso e ‘l morbido sguardare:
ché lo mi teria in gran consolamento,
veggendo la mia donna in ghiora stare

e il [suo] bel viso e il soave sguardo: perché sarebbe per lui una grande consolazione [consolamento] veder stare la mia donna nella gloria [ghiora] di Dio. L’ultimo verso può essere inteso anche come “stare nella gloria di Dio guardando la mia donna”; «ghiora» è una forma popolare toscana per “gloria” (qui come sinonimo della beatitudine che si gode in paradiso), introdotta certamente da un copista toscano.

Dal punto di vista stilistico «morbido sguardare» al v. 12 è una sinestesia.

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Luca Pirola
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Written by Luca Pirola

History and Italian literature teacher

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