Jacopo incontra Parini

La passione civile della poesia

Luca Pirola
18 min readMar 18, 2020

Quando Odoardo, fidanzato di Teresa torna sui colli Euganei, Jacopo su richiesta del padre della ragazza parte per un viaggio senza meta. Tra le tappe del viaggio più significative vi sono Firenze, dove medita sulle tombe dei grandi Italiani in Santa Croce e Milano, dove incontra il Parini. Questi fu cultore del valore educativo della poesia, capace di guidare verso la virtù e il bene pubblico. I giovani della generazione foscoliana videro in lui un esempio di letteratura ricca di temi etico-sociali e posta al servizio dell’impegno morale e civile.
Il giovane patriota Jacopo invia una fondamentale lettera (datata 4 dicembre 1798), in cui descrive l’incontro avvenuto a Milano con Giuseppe Parini. Il capitolo è molto importante perché permette a Foscolo, attraverso il confronto tra il suo protagonista e l’autore de Il Giorno, di tratteggiare la figura dell’eroe romantico e di sviluppare una cupa e disillusa analisi del periodo napoleonico in Italia.

Milano, 4 Dicembre

Siati questa l’unica risposta a’ tuoi consiglj. In tutti i paesi ho veduto gli uomini sempre di tre sorta: i pochi che comandano; l’universalità che serve; e i molti che brigano. Noi non possiam comandare, né forse siam tanto scaltri; noi non siam ciechi, né vogliamo ubbidire; noi non ci degniamo di brigare.

Prima di iniziare la narrazione dell’incontro con il grande poeta, Jacopo ribadisce a Lorenzo la sua pessimistica considerazione dell’umanità (l’universalità che serve; e i molti che brigano) e l’eccezionalità del suo eroismo di lotta per la libertà. Già nell’incipit della lettera la figura di Parini è introdotta contestualizzandola in un panorama di esaltazione della virtù civile.

E il meglio è vivere come que’ cani senza padrone a’ quali non toccano né tozzi né percosse. — Che vuoi tu ch’io accatti protezioni ed impieghi in uno Stato ov’io sono reputato straniero, e donde il capriccio di ogni spia può farmi sfrattare? Tu mi esalti sempre il mio ingegno; sai tu quanto io vaglio? né più né meno di ciò che vale la mia entrata: se per altro io non facessi il letterato di corte, rintuzzando quel nobile ardire che irrita i potenti, e dissimulando la virtù e la scienza, per non rimproverarli della loro ignoranza, e delle loro scelleraggini. Letterati! — O! tu dirai, così da per tutto. — E sia così: lascio il mondo com’è; ma s’io dovessi impacciarmente vorrei o che gli uomini mutassero modo, o che mi facessero mozzare il capo sul palco; e questo mi pare più facile. Non che i tirannetti non si avveggano delle brighe; ma gli uomini balzati da’ trivj al trono hanno d’uopo di faziosi che poi non possono contenere. Gonfj del presente, spensierati dell’avvenire, poveri di fama, di coraggio e d’ingegno, si armano di adulatori e di satelliti, da’ quali, quantunque spesso traditi e derisi, non sanno più svilupparsi: perpetua ruota di servitù, di licenza e di tirannia. Per essere padroni e ladri del popolo conviene prima lasciarsi opprimere, depredare, e conviene leccare la spada grondante del tuo sangue. Così potrei forse procacciarmi una carica, qualche migliajo di scudi ogni anno di più, rimorsi, ed infamia. Odilo un’altra volta: Non reciterò mai la parte del piccolo briccone.
Tanto e tanto so di essere calpestato; ma almen fra la turba immensa de’ miei conservi, simile a quegli insetti che sono sbadatamente schiacciati da chi passeggia. Non mi glorio come tanti altri della servitù; né i miei tiranni si pasceranno del mio avvilimento. Serbino ad altri le loro ingiurie e i lor beneficj; e’ vi son tanti che pur vi agognano! Io fuggirò il vituperio morendo ignoto. E quando io fossi costretto ad uscire dalla mia oscurità — anziché mostrarmi fortunato stromento della licenza o della tirannide, torrei d’essere vittima deplorata.
Che se mi mancasse il pane e il fuoco, e questa che tu mi additi fosse l’unica sorgente di vita — cessi il cielo ch’io insulti alla necessità di tanti altri che non potrebbero imitarmi — davvero, Lorenzo, io me n’andrei alla patria di tutti, dove non vi sono né delatori, né conquistatori, né letterati di corte, né principi; dove le ricchezze non coronano il delitto; dove il misero non è giustiziato non per altro se non perché è misero; dove un dì o l’altro verranno tutti ad abitare con me e a rimescolarsi nella materia, sotterra.
Aggrappandomi sul dirupo della vita, sieguo alle volte un lume ch’io scorgo da lontano e che non posso raggiungere mai. Anzi mi pare che s’io fossi con tutto il corpo dentro la fossa, e che rimanessi sopra terra solamente col capo, mi vedrei sempre quel lume sfolgorare sugli occhi. O Gloria! tu mi corri sempre dinanzi, e così mi lusinghi a un viaggio a cui le mie piante non reggono più. Ma dal giorno che tu più non sei la mia sola e prima passione, il tuo risplendente fantasma comincia a spegnersi e a barcollare — cade e si risolve in un mucchio d’ossa e di ceneri fra le quali io veggio sfavillar tratto tratto alcuni languidi raggi; ma ben presto io passerò camminando sopra il tuo scheletro, sorridendo della mia delusa ambizione. — Quante volte vergognando di morire ignoto al mio secolo ho accarezzato io medesimo le mie angosce mentre mi sentiva tutto il bisogno e il coraggio di terminarle! Né avrei forse sopravvissuto alla mia patria, se non mi avesse rattenuto il folle timore, che la pietra posta sopra il mio cadavere non seppellisse ad un tempo il mio nome. Lo confesso; sovente ho guardato con una specie di compiacenza le miserie d’Italia, poiché mi parea che la fortuna e il mio ardire riserbassero forse anche a me il merito di liberarla.

Jacopo esprime il suo desiderio di realizzare le illusioni di patria e libertà, superando i limiti fisici della propria vita per giungere ad essere un esempio di gloria eroica. Si intravede qui il tema sepolcrale che Foscolo svilupperà successivamente nel carme Dei sepolcri e nei sonetti

Io lo diceva jer sera al Parini — addio: ecco il messo del banchiere che viene a pigliar questa lettera; e il foglio tutto pieno mi dice di finire. — Pur ho a dirti ancora assai cose: protrarrò di spedirtela sino a sabbato; e continuerò a scriverti. Dopo tanti anni di sì affettuosa e leale amicizia, eccoci, e forse eternamente, disgiunti. A me non resta altro conforto che di gemere teco scrivendoti; e così mi libero alquanto da’ miei pensieri; e la mia solitudine diventa assai meno spaventosa. Sai quante notti io mi risveglio, e m’alzo, e aggirandomi lentamente per le stanze t’invoco! siedo e ti scrivo; e quelle carte sono tutte macchiate di pianto e piene de’ miei pietosi delirj e de’ miei feroci proponimenti. Ma non mi dà il cuore d’inviartele. Ne serbo taluna, e molte ne brucio. Quando poi il Cielo mi manda questi momenti di calma, io ti scrivo con quanto più di fermezza mi è possibile per non contristarti del mio immenso dolore. Né mi stancherò di scriverti; tutt’altro conforto è perduto; né tu, mio Lorenzo, ti stancherai di leggere queste carte ch’io senza vanità, senza studio e senza rossore ti ho sempre scritto ne’ sommi piaceri e ne’ sommi dolori dell’anima mia. Serbale. Presento che un dì ti saranno necessarie per vivere, almeno come potrai, col tuo Jacopo.

Il Parini descritto da Jacopo appare simile all’autoritratto che il poeta illuminsta dipinge di se stesso nell’ode La caduta. Tale citazione non è casuale perché nell’ode Parini presenta se stesso come fedele servitore della poesia civile, dignitosa e libera da servilismo

Jer sera dunque io passeggiava con quel vecchio venerando nel sobborgo orientale della città sotto un boschetto di tigli.

La scena dell’incontro con Parini si apre su un paesaggio serale, in un boschetto di tigli che ospita il dialogo tra l’anziano poeta (che nella realtà morirà di lì a pochi mesi, nell’agosto 1799) e il giovane ed impetuoso Jacopo, in pellegrinaggio per l’Italia dopo l’allontamento dai Colli Euganei e dall’amore impossibile per Teresa. La descrizione che Jacopo fa di Parini è funzionale alla polemica sulla situazione politica italiana ed è fortemente venata di tratti alfieriani (basti pensare ad opere come Della tirannide o Del principe e delle lettere).

Egli si sosteneva da una parte sul mio braccio, dall’altra sul suo bastone: e talora guardava gli storpj suoi piedi, e poi senza dire parola volgevasi a me, quasi si dolesse di quella sua infermità, e mi ringraziasse della pazienza con la quale io lo accompagnava. S’assise sopra uno di que’ sedili ed io con lui: il suo servo ci stava poco discosto. Il Parini è il personaggio più dignitoso e più eloquente ch’io m’abbia mai conosciuto; e d’altronde un profondo, generoso, meditato dolore a chi non dà somma eloquenza?

Il lungo discorso che Parini rivolge a Jacopo si apre con la condanna della contemporanea condizione politica italiana e della corruzione dei tempi. Parini, infatti, condanna con animo appassionato le condizioni della patria (Milano e la Lombardia) sottomessa agli stranieri (prima alla Spagna, poi all’Austria e, infine, ai francesi, presunti portatori di libertà); l’avvilimento della letteratura, ridotta ad adulare i potenti e i tiranni, che hanno sostituito al diritto la legge della sopraffazione e della violenza; la degenerazione dei sentimenti nobili e generosi, l’assenza di azioni coraggiose, che ha lasciato il posto ad azioni solo spregevoli, degne di uomini da poco; la scomparsa dei sacri valori della tradizione come ospitalità, benevolenza e amore filiale.
Il pensiero del poeta, qui descritto come un “vecchio venerando”, non ricalca in modo rigoroso quello del personaggio storico, ma è una proiezione di Foscolo stesso: la riflessione sulla situazione della patria porta alla drastica conclusione che non vi sia gran differenza tra le antichi tirannidi sulla Penisola (quella spagnola e poi quella austriaca) e la presente “nuova licenza”, con cui l’autore sarcasticamente allude al dominio napoleonico in Italia che, iniziato sotto grandi auspici, ha poi portato alla firma del Trattato di Campoformio con gli austriaci (17 ottobre 1797) e che si chiuderà con l’arrivo delle truppe austro-russe a Milano nel 1799. Lo sfogo sulla situazione politica italiana è radicale: Napoleone Bonaparte, al pari degli antichi tiranni, ha sottomesso il Paese, tradendo gli ideali della Rivoluzione di cui si faceva portatore.

Mi parlò a lungo della sua patria, e fremeva e per le antiche tirannidi e per la nuova licenza. Le lettere prostituite; tutte le passioni languenti e degenerate in una indolente vilissima corruzione: non più la sacra ospitalità, non la benevolenza, non più l’amore figliale — e poi mi tesseva gli annali recenti, e i delitti di tanti uomiciattoli ch’io degnerei di nominare, se le loro scelleraggini mostrassero il vigore d’animo, non dirò di Silla e di Catilina, ma di quegli animosi masnadieri che affrontano il misfatto quantunque e’ si vedano presso il patibolo — ma ladroncelli, tremanti, saccenti — più onesto insomma è tacerne. — A quelle parole io m’infiammava di un sovrumano furore, e sorgeva gridando: Ché non si tenta? morremo? ma frutterà dal nostro sangue il vendicatore. — Egli mi guardò attonito: gli occhi miei in quel dubbio chiarore scintillavano spaventosi, e il mio dimesso e pallido aspetto si rialzò con aria minaccevole — io taceva, ma si sentiva ancora un fremito rumoreggiare cupamente dentro il mio petto. E ripresi: Non avremo salute mai? ah se gli uomini si conducessero sempre al fianco la morte, non servirebbero sì vilmente. —

Jacopo freme nel sentire ciò e afferma che, per scuotere la tirannide, gli uomini dovrebbero ribellarsi senza temere la morte. Il disprezzo di Jacopo, che si fa interprete della disillusione profonda dell’intellettuale Foscolo, per i sostenitori del potere costituito è netto e incontrovertibile: essi sono per lui “ladroncelli, tremanti, saccenti” che non meritano nemmeno la sua considerazione.

La concezione pessimistica della Storia, intesa come un ripetersi continuo di violenze e soprusi, riprende i corsi e ricorsi di Giovan Battista Vico. Il destino dell’umanità è la schiavitù, una condizione servile che può essere riscattata solo dall’eroe che si sacrifica per gli altri, come evidenziato da Jacopo nella parte introduttiva della lettera.

Il Parini non apria bocca; ma stringendomi il braccio, mi guardava ogni ora più fisso. Poi mi trasse, come accennandomi perch’io tornassi a sedermi: E pensi, tu, proruppe, che s’io discernessi un barlume di libertà, mi perderei ad onta della mia inferma vecchiaja in questi vani lamenti? o giovine degno di patria più grata! se non puoi spegnere quel tuo ardore fatale, ché non lo volgi ad altre passioni?

Parini disillude l’idealismo di Jacopo, giovane dritto e bollente di cuore, ignaro dei giochi del potere e facilmente strumentalizzabile dai faziosi e dai potenti: per il momento non si intravede nemmeno un barlume di libertà e ogni sacrificio sarebbe inutile, per cui lo invita a rivolgere il suo ardore ad altre passioni. Il vecchio poeta cerca di persuadere Jacopo della vanità delle sue speranze, perché la loro realizzazione è impossibile per l’inevitabile corruzione degli ideale di fronte alla realtà.

Il furore a mala pena trattenuto di Jacopo trova un elemento di bilanciamento nelle parole del saggio Parini, che lo invita alla calma e alla riflessione, dato che non si intravede nel futuro prossimo un qualche “barlume di libertà”. Il problema per Jacopo è che egli non può volgere altrove — come gli consiglia l’anziano poeta — il suo tormento interiore. Difatti, anche la vita privata e l’amore per Teresa sono stati finora solo motivi di sofferenza e sconforto. Lo spiega il protagonista stesso, dando di sé il ritratto dell’eroe romantico in lotta titanica contro il mondo

Allora io guardai nel passato — allora io mi voltava avidamente al futuro, ma io errava sempre nel vano e le mie braccia tornavano deluse senza pur mai stringere nulla; e conobbi tutta tutta la disperazione del mio stato.

La sconfitta sul piano storico e su quello personale non può che condurre Jacopo a pensieri di suicidio e di morte, che poi metterà in pratica. Per ora, con effetto di pathos, lo trattiene solo l’amore per la “madre affettuosa e benefica”. Resta dunque solo l’impegno, senza speranza di successo, per la “libertà della patria”, cui Jacopo vuole dedicare tutto se stesso. A questo punto, Parini — o meglio, Foscolo attraverso questa controfigura letteraria — sviluppa una breve e incisiva riflessione sulla natura della politica e del potere. Sulle orme del realismo politico del Principe di Machiavelli (1469–1527) e di Thomas Hobbes (1588–1679), Parini presenta un quadro fosco e pessimistico sulle possibilità d’azione di chi è spinto da nobili ideali, poiché “quando dovere e virtù stanno su la punta della spada, il forte scrive le leggi col sangue e pretende il sacrificio della virtù”. Anche la fama degli eroi — e qui si avverte la reazione foscoliana agli eccessi del regime del Terrore in Francia — non è immune da critiche aspre: essa infatti è il risultato dell’audacia dei singoli, ma anche dei loro delitti e dell’influsso della sorte. In particolare, dice Parini, è illusorio e dannoso riporre fiducia nello straniero, da cui “non si dee aspettare libertà”. Anche chi vuol conservarsi puro e nobile è comunque destinato alla sconfitta quando entra in contatto con la corruzione del potere e della violenza.

Narrai a quel generoso Italiano la storia delle mie passioni, e gli dipinsi Teresa come uno di que’ genj celesti i quali par che discendano a illuminare la stanza tenebrosa di questa vita. E alle mie parole e al mio pianto, il vecchio pietoso più volte sospirò dal cuore profondo. — No, io gli dissi, non veggo più che il sepolcro: sono figlio di madre affettuosa e benefica; spesse volte mi sembrò di vederla calcare tremando le mie pedate e seguirmi fino a sommo il monte, donde io stava per diruparmi, e mentre era quasi con tutto il corpo abbandonato nell’aria — essa afferravami per la falda delle vesti, e mi ritraeva, ed io volgendomi non udiva più che il suo pianto. Pure s’ella — spiasse tutti gli occulti miei guai, implorerebbe ella stessa dal Cielo il termine degli ansiosi miei giorni. Ma l’unica fiamma vitale che anima ancora questo travagliato mio corpo, è la speranza di tentare la libertà della patria.

Di fronte alla passione politica di Jacopo Parrini risponde con pacatezza; il poeta riflette sul fatto che anche chi, per un caso fortuito, riuscisse a conquistare il potere, sarà costretto a macchiarsi di sangue se stesso e i propri ideali e verrà giudicato, a seconda dei casi, un “demagogo” o un “tiranno”. Secondo l’analisi di Parini, il potere di per sé corrompe l’uomo e non c’è spazio d’azione per chi è animato da alti ideali. La chiusura dell’episodio riporta allora alla suggestione del suicidio; se per il credente Parini c’è ancora la fiducia in un altro mondo, per Jacopo questa diventerà a poco a poco una soluzione sempre più concreta per reagire al suo dramma storico e personale.

— Egli sorrise mestamente; e poiché s’accorse che la mia voce infiochiva, e i miei sguardi si abbassavano immoti sul suolo, ricominciò: — Forse questo tuo furore di gloria potrebbe trarti a difficili imprese; ma — credimi; la fama degli eroi spetta un quarto alla loro audacia; due quarti alla sorte; e l’altro quarto a’ loro delitti. Pur se ti reputi bastevolmente fortunato e crudele per aspirare a questa gloria, pensi tu che i tempi te ne porgano i mezzi? I gemiti di tutte le età, e questo giogo della nostra patria non ti hanno per anco insegnato che non si dee aspettare libertà dallo straniero? Chiunque s’intrica nelle faccende di un paese conquistato non ritrae che il pubblico danno, e la propria infamia. Quando e doveri e diritti stanno su la punta della spada, il forte scrive le leggi col sangue e pretende il sacrificio della virtù. E allora? avrai tu la fama e il valore di Annibale che profugo cercava per l’universo un nemico al popolo Romano? — Né ti sarà dato di essere giusto impunemente. Un giovine dritto e bollente di cuore, ma povero di ricchezze, ed incauto d’ingegno quale sei tu, sarà sempre o l’ordigno del fazioso, o la vittima del potente. E dove tu nelle pubbliche cose possa preservarti incontaminato dalla comune bruttura, oh! tu sarai altamente laudato; ma spento poscia dal pugnale notturno della calunnia; la tua prigione sarà abbandonata da’ tuoi amici, e il tuo sepolcro degnato appena di un secreto sospiro. — Ma poniamo che tu superando e la prepotenza degli stranieri e la malignità de’ tuoi concittadini e la corruzione de’ tempi, potessi aspirare al tuo intento; di’? spargerai tutto il sangue col quale conviene nutrire una nascente repubblica? arderai le tue case con le faci della guerra civile? unirai col terrore i partiti? spegnerai con la morte le opinioni? adeguerai con le stragi le fortune? ma se tu cadi tra via, vediti esecrato dagli uni come demagogo, dagli altri come tiranno.

Lo stile di tutta la lettera è retoricamente elevato, in accordo con il contenuto del testo: il dialogo tra i due personaggi è ricco di ripetizioni ed anafore, arricchito da interrogative retoriche e da iperbati che spezzano l’andamento normale della frase.

Gli amori della moltitudine sono brevi ed infausti; giudica, più che dall’intento, dalla fortuna; chiama virtù il delitto utile, e scelleraggine l’onestà che le pare dannosa; e per avere i suoi plausi, conviene o atterrirla, o ingrassarla, e ingannarla sempre. E ciò sia. Potrai tu allora inorgoglito dalla sterminata fortuna reprimere in te la libidine del supremo potere che ti sarà fomentata e dal sentimento della tua superiorità, e della conoscenza del comune avvilimento? I mortali sono naturalmente schiavi, naturalmente tiranni, naturalmente ciechi. Intento tu allora a puntellare il tuo trono, di filosofo saresti fatto tiranno; e per pochi anni di possanza e di tremore, avresti perduta la tua pace, e confuso il tuo nome fra la immensa turba dei despoti. — Ti avanza ancora un seggio fra’ capitani; il quale si afferra per mezzo di un ardire feroce, di una avidità che rapisce per profondere, e spesso di una viltà per cui si lambe la mano che t’aita a salire. Ma — o figliuolo! l’umanità geme al nascere di un conquistatore; e non ha per conforto se non la speranza di sorridere su la sua bara. -
Tacque — ed io dopo lunghissimo silenzio esclamai: O Cocceo Nerva! tu almeno sapevi morire incontaminato. — Il vecchio mi guardò — Se tu né speri, né temi fuori di questo mondo — e mi stringeva la mano — ma io! — Alzò gli occhi al Cielo, e quella severa sua fisionomia si raddolciva di soave conforto, come s’ei lassù contemplasse tutte le tue speranze. — Intesi un calpestio che s’avanzava verso di noi; e poi travidi gente fra’ tiglj; ci rizzammo; e l’accompagnai sino alle sue stanze.

Parini incarna la figura del letterato solitario, del libero intellettuale che, come Jacopo, non intende vendersi al potere, ma è diverso da lui, perché saggio e carico di esperienza. Al tono sentenzioso e realistico del poeta, dotato di somma eloquenza, si contrappongono gli interrogativi di Jacopo, dettati dal suo fremito interiore.

Ah s’io non mi sentissi oramai spento quel fuoco celeste che nel tempo della fresca mia gioventù spargeva raggi su tutte le cose che mi stavano intorno, mentre oggi vo brancolando in una vota oscurità! s’io potessi avere un tetto ove dormire sicuro; se non mi fosse conteso di rinselvarmi fra le ombre del mio romitorio; se un amore disperato che la mia ragione combatte sempre, e che non può vincere mai — questo amore ch’io celo a me stesso, ma che riarde ogni giorno e che s’è fatto onnipotente, immortale — ahi! la Natura ci ha dotati di questa passione che è indomabile in noi forse più dell’istinto fatale della vita — se io potessi insomma impetrare un anno solo di calma, il tuo povero amico vorrebbe sciogliere ancora un voto e poi morire. Io odo la mia patria che grida: — SCRIVI CIÒ CHE VEDESTI. MANDERO LA MIA VOCE DALLE ROVINE, E TI DETTERÒ LA MIA STORIA. PIANGERANNO I SECOLI SU LA MIA SOLITUDINE; E LE GENTI SI AMMAESTRERANNO NELLE MIE DISAVVENTURE. IL TEMPO ABBATTE IL FORTE: E I DELITTI DI SANGUE SONO LAVATI NEL SANGUE. — E tu lo sai, Lorenzo, avrei coraggio di scrivere; ma l’ingegno va morendo con le mie forze, e vedo che fra pochi mesi avrò fornito questo mio angoscioso pellegrinaggio.

Jacopo è vitale e desideroso di lottare per la patria; è animato dall’impeto del giovane degno di un altro secolo. Alla sua esaltazione astratta, al crollo di ogni illusione di eroismo e di libertà, alla mancanza di punti di riferimento e di una concreta strategia politica, alla disperazione del suo stato presente, passato e futuro, senza pur poter mai stringere nulla, può fare seguito solo il proposito del suicidio come protesta contro la violenza e la viltà dei tempi.

La riflessione di Jacopo porta a considerare il ruolo della poesia e della letteratura, come unico strumento efficace per trasmettere i valori della civiltà. Il ruolo dell’intellettuale è, perciò, connesso all’eroismo personale nel perseguimento dei valori morali, delle illusioni che devono essere vissute e comunicate al fine di educare le genti.

Ma voi pochi sublimi animi che solitarj o perseguitati, su le antiche sciagure della nostra patria fremete, se i cieli vi contendono di lottare contro la forza, perché almeno non raccontate alla posterità i nostri mali? Alzate la voce in nome di tutti, e dite al mondo: Che siamo sfortunati, ma né ciechi né vili; che non ci manca il coraggio, ma la possanza. — Se avete braccia in catene, perché inceppate da voi stessi anche il vostro intelletto di cui né i tiranni né la fortuna, arbitri d’ogni cosa, possono essere arbitri mai? Scrivete. Abbiate bensì compassione a’ vostri concittadini, e non istigate vanamente le lor passioni politiche; ma sprezzate l’universalità de’ vostri contemporanei: il genere umano d’oggi ha le frenesie e la debolezza della decrepitezza; ma l’umano genere, appunto quand’è prossimo a morte, rinasce vigorosissimo. Scrivete a quei che verranno, e che soli saranno degni d’udirvi, e forti da vendicarvi. Perseguitate con la verità i vostri persecutori. E poi che non potete opprimerli, mentre vivono, co’ pugnali, opprimeteli almeno con l’obbrobrio per tutti i secoli futuri. Se ad alcuni di voi è rapita la patria, la tranquillità, e le sostanze; se niuno osa divenire marito; se tutti paventano il dolce nome di padre, per non procreare nell’esilio e nel dolore nuovi schiavi e nuovi infelici, perché mai accarezzate così vilmente la vita ignuda di tutti i piaceri? Perché non la consecrate all’unico fantasma ch’è duce degli uomini generosi, la gloria? Giudicherete l’Europa vivente, e la vostra sentenza illuminerà le genti avvenire. L’umana viltà vi mostra terrori e pericoli; ma voi siete forse immortali? fra l’avvilimento delle carceri e de’ supplicj v’innalzerete sovra il potente, e il suo futuro contro di voi accrescerà il suo vituperio e la vostra fama.

L’analisi storica di Foscolo nel celebre incontro tra Jacopo Ortis e Giuseppe Parini è impostata secondo un fosco pessimismo, per cui nel divenire storico non c’è spazio per eroismo o ideali: l’autore registra dal suo punto di vista la crisi dei valori dell’Illuminismo dopo la Rivoluzione francese e l’impossibilità per il giovane intellettuale amante della libertà di integrarsi nella nuova società, di cui è invece rappresentante Odoardo, il rivale in amore del protagonista. Per sviluppare questo discorso, alla fine del quale si riscontra che tutti gli uomini sono “naturalmente schiavi” o “naturalmente tiranni”, Foscolo caratterizza in senso romantico ed alfieriano la figura di Parini, mantenendo della figura del poeta lombardo la coerenza morale e l’impegno civile che caratterizza le sue Odi. Quella di Parini diventa così la figura di un maestro, che si dimostra funzionale alla presa di coscienza di Jacopo dell’impossibilità della libertà politica e della felicità personale, che culminerà nella famosa esclamazione della “lettera da Ventimiglia” (19–20 febbraio 1799), che è il punto d’approdo del pessimismo e del nichilismo delle Ultime lettere:

I tuoi confini, o Italia, son questi! ma sono tutto dì sormontati d’ogni parte dalla pertinace avarizia delle nazioni. Ove sono dunque i figli tuoi? Nulla ti manca se non la forza della concordia. Allora io spenderei gloriosamente la mia vita infelice per te: ma che può fare il solo mio braccio e la nuda mia voce?

Il tema della vanità dell’azione e l’analisi della natura violenta del potere su cui si incentra il colloquio con Parini sono poi sostenuti dal ricorso ad altri due modelli letterario-filosofici: Niccolò Machiavelli e il Leviatano di Thomas Hobbes. Da questi due trattatisti politici Foscolo recupera l’idea che in politica non ci sia spazio per chi è puro e incontaminato di cuore e quella, più profonda, che la scalata al potere corrompe anche chi è animato dai migliori propositi, come il triennio giacobino in Italia aveva ampiamente dimostrato. Ne risulta arricchito il profilo dell’intellettuale romantico, caratterizzato dall’animo nobile e dagli ideali letterari di libertà e indipendenza, pronto a grandi gesti che prevedano anche il proprio sacrifico personale e sostanzialmente nato nell’epoca sbagliata.

--

--

Luca Pirola
Luca Pirola

Written by Luca Pirola

History and Italian literature teacher

No responses yet