La contemplazione di Dio

Il Paradiso, canto XXXIII

Luca Pirola
10 min readOct 2, 2020

Il viaggio di Dante è ormai al termine: Dante si trova nell’Empireo. Qui san Bernardo prega la Vergine Maria perché sostenga il poeta nella sua visione ultima: Dio. Lo splendore della luce divina non è esprimibile a parole né può essere oggetto della comprensione razionale. Il poeta non ne conserva un ricordo distinto, ma una senso di suprema dolcezza, come da sogno. Nei versi di questo canto Dante si sforza di celebrare degnamente la gloria di Dio e lotta contro l’insufficienza del linguaggio e l’indebolirsi della memoria.

Il canto conclude con la suprema visione tutto l’itinerario spirituale di Dante dalla selva oscura fino al momento in cui l’anima umana, come folgorata (ma dopo un faticoso cammino perfezionamento e di conquista della libertà dalle passioni) si sente perfettamente in armonia con la volontà di Dio e con l’ordine cosmico che Dio stesso regge. D’altra parte il canto conclude anche l’itinerario poetico di Dante dallo stilnovismo della Vita Nuova attraverso il Convivio, il De monarchia, fino a i vertici spressivi della terza cantica, che culmina appunto qui.

per introdurre il canto

Canto XXXIII, il quale è l’ultimo de la terza cantica e ultima; nel quale canto santo Bernardo in figura de l’auttore fa una orazione a la Vergine Maria, pregandola che sé e la Divina Maestade si lasci vedere visibilemente.

Preghiera di San Bernardo alla Vergine (vv. 1–45)

La preghiera a Maria è caratterizzata da uno stile solenne e rigoroso, inizia con l’invocazione (vv. 1–3), prosegue con un elenco delle sue qualità e delle sue virtù (vv. 4–21) e si chiude con una richiesta d’aiuto, la supplica.

«Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio,

tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ’l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.

La prima terzina è composta da una serie di antitesi legate alla figura di Maria. I versi sintetizzano i dogmi su cui si basa il culto mariano: la Madonna è al tempo stesso “vergine” e “madre”; è figlia di Dio Padre come tutti gli uomini ma Dio, incarnandosi in Gesù Cristo, è stato suo “figlio”; è stata più umile tra tutte le creature perché si è fatta serva di Dio, e proprio per questo è stata innalzata a regina del Cielo.

Nel ventre tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’etterna pace
così è germinato questo fiore.

Qui se’ a noi meridïana face
di caritate, e giuso, intra ’ mortali,
se’ di speranza fontana vivace.

Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre,
sua disïanza vuol volar sanz’ ali.

Maria permette la redenzione degli uomini accogliendo le pregiere che le sono rivolte. Qui Bernardo arriva ad affermare che la Grazia viene concessa da Dio solo per intercessione della Madonna.

La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fïate
liberamente al dimandar precorre.

In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura è di bontate.

L’intensità dell’elogio della Vergine viene espressa attraverso la ripetizione di forme verbali e pronominali legate alla seconda persona singolare.

Or questi, che da l’infima lacuna
de l’universo infin qui ha vedute
le vite spiritali ad una ad una,

supplica a te, per grazia, di virtute
tanto, che possa con li occhi levarsi
più alto verso l’ultima salute.

E io, che mai per mio veder non arsi
più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi
ti porgo, e priego che non sieno scarsi,

perché tu ogne nube li disleghi
di sua mortalità co’ prieghi tuoi,
sì che ’l sommo piacer li si dispieghi.

Ancor ti priego, regina, che puoi
ciò che tu vuoli, che conservi sani,
dopo tanto veder, li affetti suoi.

Vinca tua guardia i movimenti umani:
vedi Beatrice con quanti beati
per li miei prieghi ti chiudon le mani!».

Bernardo chiede un’altra grazia: che, una volta tornato sulla Terra per testimoniare ciò che ha visto, Dante si conservi puro, giusto e libero dal peccato. Negli ultimi due versi Beatrice e tutti i beati si uniscono con fervore devoto alla supplica.

Terminata la preghiera di San Bernardo seguono le terzine che descrivono la risposta di Maria, che approva con lo sguardo.

Li occhi da Dio diletti e venerati,
fissi ne l’orator, ne dimostraro
quanto i devoti prieghi le son grati;

indi a l’etterno lume s’addrizzaro,
nel qual non si dee creder che s’invii
per creatura l’occhio tanto chiaro.

Visione di Dio: parola e memoria cedono all’oltraggio (vv. 46–75)

E io ch’al fine di tutt’ i disii
appropinquava, sì com’ io dovea,
l’ardor del desiderio in me finii.

Bernardo m’accennava, e sorridea,
perch’ io guardassi suso; ma io era
già per me stesso tal qual ei volea:

ché la mia vista, venendo sincera,
e più e più intrava per lo raggio
de l’alta luce che da sé è vera.

Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
che ’l parlar mostra, ch’a tal vista cede,
e cede la memoria a tanto oltraggio.

Lo splendore della visione è un “oltraggio” (etimologicamente “ciò che va oltre”), un eccesso che vince le capacità intellettive e umane; perciò a Dante non resta che portare la lingua all’estremo limite delle sue possibilità.

Qual è colüi che sognando vede,
che dopo ’l sogno la passione impressa
rimane, e l’altro a la mente non riede,

cotal son io, ché quasi tutta cessa
mia visïone, e ancor mi distilla
nel core il dolce che nacque da essa.

Così la neve al sol si disigilla;
così al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla.

Le similitudini presenti nel canto anziché avvicinare l’esperienza paradisiaca a quella terrena, ne rivelano l’incommensurabile lontananza poiché descrivono lo svanire del ricordo della visione di Dio dalla sua memoria.

La prima similitudine riguarda il sogno, le cui immagini svaniscono al risveglio, lasciando nell’animo soltanto la passione (infatti la visione di Dio da parte di Dante è come un sogno impossibile da ricordare distintamente). La seconda è tratta dal mondo fisico (la visione si è dissolta dalla mente come la neve si dissolve al calore del sole); la terza da quello della mitologia. Secondo il racconto di Virgilio (Eneide III, 443–450) le profezie scritte dalla Sibilla Cumana su foglie ordinatamente disposte si disperdevano quando un soffio di vento entrava nella sua grotta e le faceva volare.

O somma luce che tanto ti levi
da’ concetti mortali, a la mia mente
ripresta un poco di quel che parevi,

e fa la lingua mia tanto possente,
ch’una favilla sol de la tua gloria
possa lasciare a la futura gente;

ché, per tornare alquanto a mia memoria
e per sonare un poco in questi versi,
più si conceperà di tua vittoria.

In questi versi la situazione comunicativa ai limiti dell’assurdo, che vede il poeta costretto a interpretare l’indefinibile per dare senso all’incomunicabile, perché la realtà sovrannaturale e extra-intellettuale è impossibile da rendere, raggiunge il suo vertice nella narrazione della Suprema Visione. In realtà il sentimento dell’ineffabilità dell’esperienza compiuta nel regno dei Cieli e dell’insufficienza espressiva del poeta e del linguaggio umano in genere è diffuso in tutto il Paradiso. Dante non usa più paragoni terreni, ma richiama esperienze puramente intellettuali, che mettono alla prova la capacità della ragione. All’abbandono e allo smembramento dei mistici, Dante preferisce la tensione intellettuale e lo sforzo di ricordare; al silenzio e all’irrazionalità egli contrappone i suoi versi e il suo instancabile desiderio di raccontare. La visione di Dio non è raggiunta a occhi chiusi, in una sorta di rapimento mistico, ma in un penetrante fissare la luce divina, in un adeguarsi progressivo dello sguardo e dell’intelligenza umani a un’altezza superumana dell’oggetto.

Unità molteplice di Dio (vv. 76–108)

Io credo, per l’acume ch’io soffersi
del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito,
se li occhi miei da lui fossero aversi.

L’intensità della luce emanata da Dio agisce in modo opposto a quella emanata dal sole: anziché abbagliare la vista, la fortifica rendendola capace di vedere meglio. Così, solo guardando sempre fisso Dante può fare in modo che i suoi occhi sopportino la luce divina; ma se li distogliesse anche solo per un momento, non riuscirebbe più a riabituarvisi.

E’ mi ricorda ch’io fui più ardito
per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi
l’aspetto mio col valore infinito.

Oh abbondante grazia ond’ io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
tanto che la veduta vi consunsi!

La contemplazione di Dio avviene per concessione della Grazia, la quale premia uno sforzo arduo della coscienza che si è rafforzata gradualmente, lottando, mettendo a frutto i doni precedenti. Qui l’attenzione del narratore, dopo esser stata rivolta ai tre personaggi Dante, Maria e San Bernardo, si concentra su Dante e sul dramma dell’uomo, solo davanti a Dio. Il poeta — tutto raccolto nel proprio sguardo — diventa unico personaggio di fronte a una realtà che non può essere tradotta in parole, poiché comprende in sé tutto l’universo.

Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna:

sustanze e accidenti e lor costume
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.

La metafora raffigura la mente di Dio come un libro (volume) in cui sono tenute insieme tutte le diverse cose esistenti.

La forma universal di questo nodo
credo ch’i’ vidi, perché più di largo,
dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.

Dante, che prima ha contemplato la totalità delle cose, ora è di fronteal principio della loro unità. Egli tuttavia non ricorda precisamente quel che ha visto, ma solo avverte un senso di dolcezza che gli testimonia l’esperienza goduta.

Un punto solo m’è maggior letargo
che venticinque secoli a la ’mpresa
che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.

Il breve momento in cui Dante ha spinto lo sguardo entro la luce divina è per lui causa di maggiore dimenticanza di quanto siano stati venticinque secoli per l’impresa degli Argonauti. Secondo la mitologia Nettuno, il dio del mare, si meravigliò quando vide nella profondità del suo regno l’ombra di Argo, la nave degli Argonauti, considerata la prima imbarcazione costruita dagli uomini. Questa terzina, che insiste sul valore prodigioso della visione della luce di Dio e sulla fragilità del ricordo, è un esempio della straordinaria fantasia dantesca: il poeta, infatti, vede il viaggio di Giasone non dalla prospettiva della nave e dei suoi navigatori, ma da quella di Nettuno, Si noti come la direzione dello sguardo del personaggio mitologico — dal basso verso l’alto — sia identica a quella del poeta.

Così la mente mia, tutta sospesa,
mirava fissa, immobile e attenta,
e sempre di mirar faceasi accesa.

A quella luce cotal si diventa,
che volgersi da lei per altro aspetto
è impossibil che mai si consenta;

però che ’l ben, ch’è del volere obietto,
tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella
è defettivo ciò ch’è lì perfetto.

Omai sarà più corta mia favella,
pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
che bagni ancor la lingua a la mammella.

Nella difficoltà estrema Dante si sente come il bambino che non sa ancora parlare.

La Divina Trinità; il mistero dell’incarnazione (vv. 109–145)

Non perché più ch’un semplice sembiante
fosse nel vivo lume ch’io mirava,
che tal è sempre qual s’era davante;

ma per la vista che s’avvalorava
in me guardando, una sola parvenza,
mutandom’ io, a me si travagliava.

Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza;

e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ’l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.

La visione di Dio Uno e Trino viene rappresentata come tre cerchi concentrici di tre colori — cioè ciascuno con una propria identità — e della stessa sostanza (contenenza); una immagine impossibile, perché è impossibile vedere la differenza tra tre cerchi uguali sovrapposti che abbiano colori diversi. Lo Spirito Santo (il terzo) è il fuoco d’amore che ispira sia il Padre sia il Figlio. L’immagine, sebbene descritta con grande precisione, non ha riscontri reali (non è possibile nella realtà fisica): è solo un ipotesi mentale, perché la Trinità unitaria rappresenta un mistero della fede così profondo da non avere pari nelle leggi della natura e della ragione.

Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi,
è tanto, che non basta a dicer ’poco’.

O luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!

Poiché comprende in sé tutta la realtà, la luce divina comprende anche se stessa. Lo sforzo necessario per comprendere questa terzina (e anche per pronunciarne le parole, fittissime di dentali) è segno della difficoltà concettuale delle verità teologiche in essa contenute.

Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,

dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che ’l mio viso in lei tutto era messo.

Secondo il dogma della Trinità il Figlio è della stessa sostanza del Padre, e quindi sembra un suo riflesso; eppure è anche uomo, sebbene le due nature siano fuse in maniera indiscernibile, tanto da avere lo stesso colore.

Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’ elli indige,

tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova;

ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.

Concentrato sul mistero dell’incarnazione, Dante si paragona a uno studioso di geometria: così come il geométra cerca di capire il rapporto tra circonferenza e diametro (il p greco non può essere calcolato con precisione perché è espresso da un numero decimale infinito), il poeta cerca di capire come l’immagine umana si collochi nel cerchio divino, cioè come l’aspetto umano e l’aspetto divino siano congiunti nell’unica persona di Cristo. Questo dubbio mette alla prova le possibilità della ragione, il mistero dell’incarnazione, dunque, non può essere compreso dalla limitata mente umana: le sue ali (penne) non sono fatte per un volo così alto. Di fronte a tale complessità solo Dio stesso, venendo in aiuto a Dante, può appagare il suo desiderio di conoscenza.

A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,

l’amor che move il sole e l’altre stelle.

Giunta al massimo dello sforzo, la mente umana (fantasia) è vinta dalla profondità del mistero divino: ormai è l’amore di Dio a ispirare direttamente Dante, che così partecipa pienamente dell’ordine universale di tutte le cose. La similitudine della rota richiama ancora una volta l’immagine del cerchio, simbolo di perfezione.

La conclusione dell’ultimo canto non richiama casualmente la prima perifrasi della cantica 8La gloria di colui che tutto move) legando tutto il Paradiso in una circolarità che rappresenta la perfezione. La conclusione rievoca — con il medesimo intento di circolarità — la fine dell’Inferno (e quindi uscimmo a riveder le stelle) e del Purgatorio (puro e disposto a salire a le stelle). Questo senso di perfetta chiusura e compiutezza dato dalla circolarità — sia tematica, sia formale — bilancia le ripetute dichiarazioni di insufficienza espressiva pronunciate da Dante: nella celebrazione di Dio come supremo amore e nel riconoscimento di essere parte dell’ordine da lui voluto, la poesia trova la sua pace.

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