La crudeltà della guerra

Cesare Pavese, La casa in collina

Luca Pirola
5 min readOct 10, 2023

Il romanzo La casa in collina è una meditazione sulla guerra e sulla necessità di una posizione politica, e anche una spiegazione dell’atteggiamento tenuto da Pavese stesso rispetto alla lotta partigiana (alla quale non partecipò, nascondendosi durante l’occupazione nazifascista).

Corrado, professore quarantenne nel 1943 entra in contatto con un gruppo di antifascisiti che si ritrovano a passare le serate all’osteria delle Fontane sulle colline torinesi. Corrado non si lascia coinvolgere dagli eventi della lotta partigiana, tanto da non accorgersi che l’osteria è un deposito di armi della Resistenza. Quando i nazisti scoprono le armi nascoste, tutti i suoi amici sono deportati, così Corrado decide di abbandonare il nascondiglio e rifugiarsi a casa dei genitori nelle Langhe. Lungo il cammino si imbatte nella realtà cruda della guerra e scopre nel rimorso un senso di condivisione con tutti gli uomini: “Per questo ogni guerra è una guerra civile, ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.”.

Se passeggio nei boschi, se a ogni sospetto di rastrellatori mi rifugio nelle forre, se a volte discuto coi partigiani di passaggio (anche Giorgi c’è stato, coi suoi: drizzava il capo e mi diceva: «Avremo tempo le sere di neve a riparlarne»), non è che non veda come la guerra non è un gioco, questa guerra che è giunta fin qui, che prende alla gola anche il nostro passato. Non so se Cate, Fonso, Dino, e tutti gli altri, torneranno. Certe volte lo spero, e mi fa paura. Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato.

Il protagonista non è passato immune attraverso la tragedia del conflitto: la vista di alcuni morti repubblichini — soldati delle milizie fasciste — è stata per lui un rivelazione che lo ha risvegliato, strappandolo al suo isolamento. Nella visione del cadavere imbrattato egli percepisce l’umiliazione, la sottomissione di ogni uomo, vinto e vincitore a un destino: per questo ogni guerra è una guerra civile, perché oppone esseri appartenenti alla medesima comunità, quella degli uomini.

Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuoi dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono piú faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso, Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce — si tocca con gli occhi — che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.

Come rivelano i tempi verbali al presente, la feroce e sanguinaria guerra civile successiva all’armistizio dell’8 settembre è ancora in corso. Il narratore protagonista, dunque, non sa quando e se finirà: i suoi amici sono stati fatti sparire dai nazisti, le rappresaglie si moltiplicano, profanando anche la campagna e i suoi riti, mentre Corrado si chiede se ne sia valsa la pena. Ai vivi, però, non è concessa una risposta, ma solo l’acquisizione di una maggiore consapevolezza, il senso di colpa per il sangue versato da tutte le parti in lotta.

Pavese carica la guerra civile di un simbolismo sacrificale: nelle culture tribali, lo spirito dell’animale o del nemico ucciso deve essere placato attraverso riti di esorcismo, perché non nuoccia ai vivi.

Ci sono giorni in questa nuda campagna che camminando ho un soprassalto: un tronco secco, un nodo d’erba, una schiena di roccia, mi paiono corpi distesi. Può sempre succedere. Rimpiango che Belbo sia rimasto a Torino. Parte del giorno la passo in cucina, nell’enorme cucina dal battuto di terra, dove mia madre, mia sorella, le donne di casa, preparano conserve. Mio padre va e viene in cantina, col passo del vecchio Gregorio. A volte penso se una rappresaglia, un capriccio, un destino folgorasse la casa e ne facesse quattro muri diroccati e anneriti. A molta gente è già toccato. Che farebbe mio padre, che cosa direbbero le donne? Il loro tono è «La smettessero un po’«, e per loro la guerriglia, tutta quanta questa guerra, sono risse di ragazzi, di quelle che seguivano un tempo alle feste del santo patrono. Se i partigiani requisiscono farina o bestiame, mio padre dice: — Non è giusto. Non hanno il diritto. La chiedano piuttosto in regalo. — Chi ha il diritto? — gli faccio. — Lascia che tutto sia finito e si vedrà, — dice lui.

I contadini interpretano la guerra attraverso l’eterno pulsare della vita della natura e i ritmi del lavoro agricolo e del calendario liturgico

Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos’è guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: — E dei caduti che facciamo? perché sono morti? — Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.

I vivi hanno una responsabilità nei confronti dei caduti: quella di trovare un senso alla loro morte, o almeno di cercare una risposta alla domanda perché sono morti?. Dal contatto con la morte nasce un senso di responsabilità: i morti non sono più faccenda altrui. L’esperienza della morte di altri invita l’uomo a interrogarsi sul senso delle cose e sul proprio ruolo nella vita e nella storia. Se il percorso del protagonista rimane incompiuto, per lo meno egli ha fatto il primo passo per uscire da se stesso. Questa consapevolezza risalta dal confronto con i familiari, che liquidano gli scontri e i rastrellamenti come se fossero un gioco infantile.

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