La follia di Orlando

la perdita della condizione umana

Luca Pirola
19 min readNov 2, 2020

Nei primi versi del poema l’Ariosto aveva preannunciato ai lettori un evento sensazionale: Dirò d’Orlando in un medesimo tratto / che per amor venne in furore e matto”. Finalmente, proprio al centro del poema (nel 23° canto su 46), il poeta mantiene la promessa: il paladino, impegnato in imprese eroiche, sta inseguendo il saraceno Mandricardo, portato via dal suo cavallo imbizzarrito. Inseguendolo, Orlando capita presso una fonte, circondata da un boschetto, dove fa una scoperta sconvolgente.

Canto 19, ottave 33–36 l’antefatto: l’amore di Angelica e Medoro

Angelica, nella sua perenne fuga, incontra un giovane scudiero ferito gravemente : Medoro. Alla semplice vista si innamora di lui, e inizia a curarlo con l’aiuto di un pastore che li ospita nella sua casa. Quanto più la ferita del giovane guarisce, tanto più si allarga la ferita aperta nel cuore di Angelica da Amore. La passione travolge i due giovane e Medoro ottiene da Angelica ciò che nessun altro cavaliere era mai riuscito ad avere. Nella casa del pastore, per rendere quindi legittima la loro unione, i due amanti si sposano. Passano poi più di un mese ad amoreggiare in ogni luogo e in ogni luogo lasciano la loro firma intrecciata in mille modi.

33
Angelica a Medor la prima rosa
coglier lasciò, non ancor tocca inante:
né persona fu mai sí aventurosa,
ch’in quel giardin potesse por le piante.
Per adombrar, per onestar la cosa,
si celebrò con cerimonie sante
il matrimonio, ch’auspice ebbe Amore,
e pronuba la moglie del pastore.

34
Fèrsi le nozze sotto all’umil tetto
le piú solenni che vi potean farsi;
e piú d’un mese poi stero a diletto
i duo tranquilli amanti a ricrearsi.
Piú lunge non vedea del giovinetto
la donna, né di lui potea saziarsi;
né per mai sempre pendergli dal collo,
il suo disir sentia di lui satollo.

La passione di Angelica e Medoro, vissuta in modo fisico e travolgente, rappresenta il superamene dell’ideale cortese. L’allusione erotica della prima ottava è chiarissimo incipit della descrizione del primo mese di diletti dei due amanti. Il tono della narrazione è piuttosto scanzonato, secondo un costume e una moralità rinascimentali assai disinvolti in fatto di amore e sesso: Angelica rovescia il ruolo tradizionale dell’eroina amorosa ritrosa e pudica e senza imbarazzo avvia lei stessa il primo approccio.
L’amore rimane lo strumento principale per vanificare i progetti degli uomini: anche la scaltra Angelica rimane vittima di questa forza contro cui nessuno può fare nulla, tanto che si innamora perdutamente di un povero scudiero saraceno dopo aver rifiutato i corteggiamenti dei cavalieri più famosi al mondo.

35
Se stava all’ombra o se del tetto usciva,
avea dí e notte il bel giovine a lato:
matino e sera or questa or quella riva
cercando andava, o qualche verde prato:
nel mezzo giorno un antro li copriva,
forse non men di quel commodo e grato,
ch’ebber, fuggendo l’acque, Enea e Dido,
de’ lor secreti testimonio fido.

Il riferimento all’Eneide richiama uno degli episodi più “piccanti” della letteratura latina, alludendo alla passione di Enea per la regina di Cartagine che ha rischiato di distogliere l’eroe dal compimento della sua missione.

36
Fra piacer tanti, ovunque un arbor dritto
vedesse ombrare o fonte o rivo puro,
v’avea spillo o coltel subito fitto;
cosí, se v’era alcun sasso men duro:
et era fuori in mille luoghi scritto,
e cosí in casa in altritanti il muro,
Angelica e Medoro, in varii modi
legati insieme di diversi nodi.

Le scelte lessicali dell’ultima ottava spargono sapientemente degli indizi che saranno poi ripresi nella narrazione della follia di Orlando. Prima di tutto la descrizione del locus amoenus che fa da cornice agli incontri amorosi di Angelica e Medoro, dipinge un boschetto ombroso e una fonte cristallina che gli amanti personalizzano con numerose incisioni dei loro nomi intrecciati da nodi.

canto 23, ottave 102–114: l’autoinganno di Orlando

Orlando giunge casualmente nei luoghi dove Angelica e Medoro sfogarono la loro passione amorosa. Vede i loro nomi incisi su ogni albero ed ogni pietra.

In questo episodio il personaggio Orlando abbandona le tradizionali vesti eroiche per rivelare fino in fondo la sua vulnerabile umanità: anche a lui tocca sperimentare la forza dell’amore e il tormento della gelosia, sentimenti capaci di stravolgere un essere umano fino al punto di farlo impazzire.

Prosegue il ribaltamento dell’ideale cortese: la donna idealizzata da Orlando si mostra come è in realtà; la scoperta inaccettabile per Orlando mostra come l’idealizzazione dell’amore sia ormai anacronistica.

102
Volgendosi ivi intorno, vide scritti
molti arbuscelli in su l’ombrosa riva.
Tosto che fermi v’ebbe gli occhi e fitti,
fu certo esser di man de la sua diva.
Questo era un di quei lochi già descritti,
ove sovente con Medor veniva
da casa del pastore indi vicina
la bella donna del Catai regina.

103
Angelica e Medor con cento nodi
legati insieme, e in cento lochi vede.
Quante lettere son, tanti son chiodi
coi quali Amore il cor gli punge e fiede.
Va col pensier cercando in mille modi
non creder quel ch’al suo dispetto crede:
ch’altra Angelica sia, creder si sforza,
ch’abbia scritto il suo nome in quella scorza.

La narrazione della pazzia di Orlando è divisa in due fasi: nella prima, Ariosto descrive il lento progredire del paladino verso la follia; nella seconda, l’esplodere vero e proprio del furore dell’eroe.
Il testo è giocato interamente su coppie contrastive che rimarcano l’oscillazione dei sentimenti di Orlando dalla certezza al dubbio, dalla speranza alla disperazione. L’eroe, che in questa fase è ancora pienamente padrone delle sue facoltà intellettive, riconosce senza alcun dubbio nei segni scritti sugli alberi la grafia di Angelica: fu certo esser di man de la sua diva

Il paladino cerca di convincersi prima che si tratti di un’altra Angelica, ma conosce purtroppo bene la grafia della donna amata, poi che Medoro fosse il soprannome che lei gli aveva dato, ma in una grotta trova una poesia scritta dal giovane in onore della passione vissuta insieme ad Angelica, e non può infine fare altro che scontrarsi con la dura realtà. Inizia a crescere la pazzia in Orlando.

La rappresentazione delle fasi attraverso le quali il paladino precipita verso la pazzia è condotta con lucida analisi psicologica, che mantiene una forte empatia dell’Ariosto nei confronti di Orlando perché li accomuna la passione amorosa (come ricordato nell’invocazione della seconda ottava).

104
Poi dice: — Conosco io pur queste note:
di tal’io n’ho tante vedute e lette.
Finger questo Medoro ella si puote:
forse ch’a me questo cognome mette. –
Con tali opinion dal ver remote
usando fraude a sé medesmo, stette
ne la speranza il malcontento Orlando,
che si seppe a se stesso ir procacciando.

Orlando non può negare che la calligrafia corrisponda a quella della sua Angelica. Ecco dunque il secondo inganno che l’eroe porta a se stesso: forse Medoro non è un altro uomo, ma un semplice soprannome per indicare Orlando. Ariosto sottolinea che la speranza cui si affida Orlando non è oggettiva, ma assolutamente personale (si seppe a se stesso ir procacciando) e inoltre che il paladino sta mentendo a se stesso (usando fraude a sé medesmo

105
Ma sempre più raccende e più rinuova,
quanto spenger più cerca, il rio sospetto:
come l’incauto augel che si ritrova
in ragna o in visco aver dato di petto,
quanto più batte l’ale e più si prova
di disbrigar, più vi si lega stretto.
Orlando viene ove s’incurva il monte
a guisa d’arco in su la chiara fonte.

fase 1 dell’autoinganno: ai primi indizi Orlando rimuove i sospetti, mentendo se stesso. Il ragionamento di Orlando è smentito dall’accumularsi degli indizi sempre più inequivocabili.

L’antitesi dei primi due versi dell’ottava costituisce sono ben più che un semplice commento di Ariosto al dibattimento interiore del paladino. Dal punto di vista strutturale, rappresentano proprio la tecnica che il poeta sta impiegando in questa narrazione: Ariosto “accende” e “rinnova” continuamente il sospetto di Orlando quanto più cerca di attenuare i suoi timori; e infatti il brano è stilisticamente giocato su coppie contrastive (aggettivi, sostantivi, verbi) che creano un insistito gioco di opposizioni.

106
Aveano in su l’entrata il luogo adorno
coi piedi storti edere e viti erranti.
Quivi soleano al più cocente giorno
stare abbracciati i duo felici amanti.
V’aveano i nomi lor dentro e d’intorno,
più che in altro dei luoghi circostanti,
scritti, qual con carbone e qual con gesso,
e qual con punte di coltelli impresso.

L’ottava si inserisce nella vicenda di Orlando, lasciando per un istante in sospeso la trattazione del suo dibattimento interiore. In questo modo Ariosto procrastina l’evento della follia del paladino, creando una pausa funzionale ad aumentare la pateticità dell’episodio. La stessa funzione è prodotta dal forte iperbato tra V’aveano e scritti, anch’esso teso a creare una marcata inarcatura sintattica con l’effetto di “dilatare” la narrazione.

La descrizione del paesaggio in queste ottave si rifà ai modelli petrarcheschi, ricchi di suggestioni colte e auliche, in cui si ritrovano diversi esempi di linguaggio prezioso che rispecchia sentimenti e stati d’animo

107
Il mesto conte a piè quivi discese;
e vide in su l’entrata de la grotta
parole assai, che di sua man distese
Medoro avea, che parean scritte allotta.
Del gran piacer che ne la grotta prese,
questa sentenza in versi avea ridotta.
Che fosse culta in suo linguaggio io penso;
ed era ne la nostra tale il senso:

108
– Liete piante, verdi erbe, limpide acque,
spelunca opaca e di fredde ombre grata,
dove la bella Angelica che nacque
di Galafron, da molti invano amata,
spesso ne le mie braccia nuda giacque;
de la commodità che qui m’è data,
io povero Medor ricompensarvi
d’altro non posso, che d’ognor lodarvi:

La poesia di Medoro è scritta per lodare il luogo naturale che è stato teatro dell’amore tra il giovane e Angelica. Esso costituisce un vero e proprio locus amoenus descritto con un ricorso al linguaggio petrarchesco, in particolare alla canzone Chiare, fresche et dolci acque (vv. 1–11). Intento di Medoro è spingere chi leggerà le sue parole a unirsi a lui nella lode di quei luoghi. Si tratta di un evidente controsenso presentato però da Ariosto in tono ironico, poiché per Orlando si rivelerà essere una vera e propria sciagura.

109
e di pregare ogni signore amante,
e cavallieri e damigelle, e ognuna
persona, o paesana o viandante,
che qui sua volontà meni o Fortuna;
ch’all’erbe, all’ombre, all’antro, al rio, alle piante
dica: benigno abbiate e sole e luna,
e de le ninfe il coro, che proveggia
che non conduca a voi pastor mai greggia. –

La preghiera di Medoro è mossa da un empito di sentimento che, formalmente, tende all’accumulo, legando i singoli elementi attraverso il polisindeto (e…e…; o…o) o l’asindeto.

110
Era scritto in arabico, che ‘l conte
intendea così ben come latino:
fra molte lingue e molte ch’avea pronte,
prontissima avea quella il paladino;
e gli schivò più volte e danni ed onte,
che si trovò tra il popul saracino:
ma non si vanti, se già n’ebbe frutto;
ch’un danno or n’ha, che può scontargli il tutto.

L’ironia giunge qui al suo culmine: Orlando conosce bene l’arabo, fatto che lo aveva spesso aiutato in passato a difendersi dagli inganni dei nemici. Ora è proprio questa sua conoscenza a recargli il dolore più grande. Il paradosso è indicato attraverso l’avversativa ma che introduce il distico finale dell’ottava. Il fatto che Orlando conoscesse bene molte lingue oltre al latino è un dato già presente nel Morgante di Luigi Pulci (XXI, 132).

fase 2 dell’autoinganno: di fronte all’evidenza resta impietrito, ma ancora cerca spiegazioni rassicuranti e si aggrappa a un’improbabile speranza.

111
Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto
quello infelice, e pur cercando invano
che non vi fosse quel che v’era scritto;
e sempre lo vedea più chiaro e piano:
ed ogni volta in mezzo il petto afflitto
stringersi il cor sentia con fredda mano.
Rimase al fin con gli occhi e con la mente
fissi nel sasso, al sasso indifferente.

Ariosto attua un’acuta analisi psicologica di Orlando, mostrandoci la lunga serie dei suoi tentennamenti: egli legge infatti ripetutamente lo scritto, cercando ogni volta di non trovarvi quello che vi aveva letto poc’anzi (è il terzo inganno che il paladino porta a se stesso). Il poeta dà vita a un vero e proprio processo di umanizzazione dell’eroe che, fin dall’antichità, era considerato un essere superiore, quasi divino, destinato a grandi gesta. Orlando, colpito dall’amore, diventa invece un comune mortale. Nel distico finale infatti il profilo del paladino è già cambiato: non è più un eroe grande e invincibile, ma è diventato al pari un essere inanimato.

112
Fu allora per uscir del sentimento
sì tutto in preda del dolor si lassa.
Credete a chi n’ha fatto esperimento,
che questo è ‘l duol che tutti gli altri passa.
Caduto gli era sopra il petto il mento,
la fronte priva di baldanza e bassa;
né poté aver (che ‘l duol l’occupò tanto)
alle querele voce, o umore al pianto.

La causa della follia di Orlando viene circoscritta e definita con precisione in questa ottava: le pene d’amore, ossia quelle che nascono quando ci si sente traditi dalla persona amata, quando i propri sentimenti non vengono ricambiati, a tal punto feriscono nel profondo l’individuo che, per effetto di esse, egli non è più padrone dei propri sentimenti. A questo proposito Ariosto non esita a intervenire con un rapidissimo ma importante commento personale, con una proiezione autobiografica che, a dispetto della veste ironica, rimarca l’esemplare tipicità del caso di Orlando (ottava 112, vv. 3–4): alla tragedia amorosa qui rappresentata l’autore per primo ammette, per esperienza, di non essere immune. La follia è dunque identificata come l’esito tragico, ma per certi versi inevitabile, di ogni passione umana che l’individuo non sappia tenere a freno con la saggezza. Viene così rievocato un motivo che Ariosto aveva enunciato già in apertura del poema (I, 2, vv. 5–8): l’analogia recondita tra il destino di Orlando, che impazzisce per amore, e quello a cui è esposto ogni innamorato.

Il terzo verso dell’ottava 112, con cui Ariosto accosta se stesso al suo eroe sofferente in merito della sofferenza d’amore, permette di rendere la vicenda un momento di riflessione sul comportamento dell’uomo, sui suoi errori e sulle sue follie.

Nel quinto e sesto verso la descrizione di Orlando non ha più nulla dei tratti fieri e superbi di un nobile cavaliere, ma quelli di una sua caricatura. L’amore e il dolore stanno dunque lentamente ma inesorabilmente trasformando il paladino.

113
L’impetuosa doglia entro rimase,
che volea tutta uscir con troppa fretta.
Così veggiàn restar l’acqua nel vase,
che largo il ventre e la bocca abbia stretta;
che nel voltar che si fa in su la base,
l’umor che vorria uscir, tanto s’affretta,
e ne l’angusta via tanto s’intrica,
ch’a goccia a goccia fuore esce a fatica.

fase 3 dell’autoinganno: Orlando vorrebbe indagare, ma desiste, preferisce il dubbio che non fa troppo male alla certezza che non lascia via di scampo.

L’ironia smorza i toni drammatici, mediante l’inserimento di paragoni che abbassano la statura epica dell’eroe. Il dolore di Orlando è paragonato al liquido che non riesce a uscire da una bottiglia dal collo troppo stretto, più avanti (ottava 124) il letto sembra pieno di ortiche e (ottava 135) l’abbattimento di querce secolari è paragonato al cacciatore di passerotti che toglie le erbacce per stendere le sue trappole.

114
Poi ritorna in sé alquanto, e pensa come
possa esser che non sia la cosa vera:
che voglia alcun così infamare il nome
de la sua donna e crede e brama e spera,
o gravar lui d’insopportabil some
tanto di gelosia, che se ne pera;
ed abbia quel, sia chi si voglia stato,
molto la man di lei bene imitato.

Orlando ha ancora la forza di illudersi, credendo che vi sia qualcuno che abbia fatto tutto questo allo scopo di infamare Angelica (è il quarto tentennamento dell’eroe). Ariosto continua dunque sapientemente il gioco di propulsione progressiva del sentimento di dolore seguita da un immediato spegnimento.

ottave 115–116 (e 117–123 sintesi): il dolore di Orlando

Ingannando se stesso Orlando riprende il cammino, ma alla sera è accolto nella casa dello stesso pastore che aveva accolto Angelica e Medoro e li aveva infine sposati. Gli viene raccontato ogni dettaglio della storia d’amore dei due giovani e gli viene anche mostrato il bracciale, donato da Orlando come pegno d’amore, con il quale Angelica aveva ripagato il pastore dei favori ricevuti.

115
In così poca, in così debol speme
sveglia gli spiriti e gli rifranca un poco;
indi al suo Brigliadoro il dosso preme,
dando già il sole alla sorella loco.
Non molto va, che da le vie supreme
dei tetti uscir vede il vapor del fuoco,
sente cani abbaiar, muggiare armento:
viene alla villa, e piglia alloggiamento.

116
Languido smonta, e lascia Brigliadoro
a un discreto garzon che n’abbia cura;
altri il disarma, altri gli sproni d’oro
gli leva, altri a forbir va l’armatura.
Era questa la casa ove Medoro
giacque ferito, e v’ebbe alta avventura.
Corcarsi Orlando e non cenar domanda,
di dolor sazio e non d’altra vivanda.

[…]

ottave 124–136. la follia

La conoscenza inequivocabile della verità tramortisce Orlando; invano per pudore, cerca di mantenere il controllo di sé. Alla fine, quando rimane solo, cade ogni remora: il dolore dilaga ed esplode la pazzia. Fugge nella notte da quella casa e raggiunge il bosco, grida il suo dolore, versa lacrime per giorni e si sente morire.

124
Quel letto, quella casa, quel pastore
immantinente in tant’odio gli casca,
che senza aspettar luna, o che l’albore
che va dinanzi al nuovo giorno nasca,
piglia l’arme e il destriero, ed esce fuore
per mezzo il bosco alla più oscura frasca;
e quando poi gli è aviso d’esser solo,
con gridi ed urli apre le porte al duolo.

Il verso esprime in modo efficace la liberazione della furia folle di Orlando che fuoriesce come un fiume in piena. Gridi e urli sono un’endiadi che non esprime nulla di umano e nemmeno di eroico, trattandosi di Orlando, ma che Ariosto utilizza appropriatamente per svelare il cuore ferito del paladino.

125
Di pianger mai, mai di gridar non resta;
né la notte né ‘l dì si dà mai pace.
Fugge cittadi e borghi, e alla foresta
sul terren duro al discoperto giace.
Di sé si meraviglia ch’abbia in testa
una fontana d’acqua sì vivace,
e come sospirar possa mai tanto;
e spesso dice a sé così nel pianto:

In queste ottave il dolore di Orlando che porta alla follia è anticipato dalla iterazione di “uscire” e delle espressioni simili per indicare la perdita della ragione, e dall’anafora di “lacrime”, “dolore”, “sospiri”, “Amore” che sottolinea le manifestazioni e la causa dell’incipiente follia.

Ariosto procede nella descrizione dell’umanizzazione dell’eroe. L’ottava riflette anche dal punto di vista stilistico l’immensa sofferenza di Orlando: il chiasmo del primo verso (Di pianger mai, mai di gridar) con l’accostamento dell’avverbio mai sottolinea la persistenza del dolore; l’iperbole (una fontana d’acqua) indica l’impetuosità del sentimento, che non ha più nulla di eroico, ma è tipica di un semplice e misero uomo

126
– Queste non son più lacrime, che fuore
stillo dagli occhi con sì larga vena.
Non suppliron le lacrime al dolore:
finir, ch’a mezzo era il dolore a pena.
Dal fuoco spinto ora il vitale umore
fugge per quella via ch’agli occhi mena;
ed è quel che si versa, e trarrà insieme
e ‘l dolore e la vita all’ore estreme.

127
Questi ch’indizio fan del mio tormento,
sospir non sono, né i sospir sono tali.
Quelli han triegua talora; io mai non sento
che ‘l petto mio men la sua pena esali.
Amor che m’arde il cor, fa questo vento,
mentre dibatte intorno al fuoco l’ali.
Amor, con che miracolo lo fai,
che ‘n fuoco il tenghi, e nol consumi mai?

Orlando è ormai accecato dalla follia, tanto da non riconoscere più se stesso né i tratti che caratterizzano la propria persona e il proprio sentire: la pazzia è una forma di squilibrio e dissociazione che fa apparire le cose diverse da quel che sono in realtà. Perciò le lacrime sono gocce dell’umore vitale che esce dal cuore a causa del fuoco che vi brucia all’interno, e i “sospiri” sono i venti che il dio d’Amore genera con le sue ali.

128
Non son, non sono io quel che paio in viso:
quel ch’era Orlando è morto ed è sotterra;
la sua donna ingratissima l’ha ucciso:
sì, mancando di fé, gli ha fatto guerra.
Io son lo spirto suo da lui diviso,
ch’in questo inferno tormentandosi erra,
acciò con l’ombra sia, che sola avanza,
esempio a chi in Amor pone speranza. -

Orlando non riconosce più se stesso (Non son, non sono io quel che paio in viso) e anzi giunge ad affermare che quel ch’era Orlando è ormai morto e sepolto. Il più valente e coraggioso degli eroi dell’esercito cristiano è scomparso. Di lui non resta che l’apparenza (lo spirto suo da lui diviso). Il tema principale dell’opera ariostesca — intitolata appunto all’Orlando folle o furioso — è quello di una vicenda esemplare: nessuno è salvo dall’amore, né dalla gelosia e nemmeno dal dolore, al punto che anche il più nobile d’animo può esserne vittima. Il Furioso mostra dunque in questi versi tutta la sua valenza di racconto pedagogico.

Giunto nuovamente nei luoghi dove ovunque erano incisi i nomi dei due amanti, l’Orlando furioso sguaina la propria spada e distrugge tutto ciò che abbia quelle scritte. Ormai sfinito si sdraia sul prato e rimane così, immobile, per tre interi giorni. Orlando si spoglia poi dell’armatura, di ogni arma e di ogni veste, rimanendo completamente nudo. Il paladino ha perso ora completamente il senno: è la pazzia di Orlando.

129
Pel bosco errò tutta la notte il conte;
e allo spuntar de la diurna fiamma
lo tornò il suo destin sopra la fonte
dove Medoro isculse l’epigramma.
Veder l’ingiuria sua scritta nel monte
l’accese sì, ch’in lui non restò dramma
che non fosse odio, rabbia, ira e furore;
né più indugiò, che trasse il brando fuore.

Il verbo “errare” identifica e allo stesso tempo simboleggia il percorso di Orlando: la sua vita non ha più un obiettivo, un senso, e si ritrova a girare a vuoto senza avere più contezza del proprio ruolo sociale. Inizia in questo punto la seconda fase della narrazione: dopo la lenta progressione verso la follia, ora Ariosto narra il furore del paladino.

130
Tagliò lo scritto e ‘l sasso, e sin al cielo
a volo alzar fe’ le minute schegge.
Infelice quell’antro, ed ogni stelo
in cui Medoro e Angelica si legge!
Così restar quel dì, ch’ombra né gielo
a pastor mai non daran più, né a gregge:
e quella fonte, già si chiara e pura,
da cotanta ira fu poco sicura;

Nell’ottava 109 Medoro aveva espresso il voto che quei luoghi potessero rimanere intatti e puri, incolumi dal pascolo delle greggi. A distanza di venti ottave Ariosto riprende il tema lasciato in sospeso, portando a compimento con un’inversione ironica la preghiera del giovane: ora davvero in quel luogo mai nessuno potrà trovare ristoro né riparo poiché su di esso si è abbattuta la furia di Orlando

131
che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle
non cessò di gittar ne le bell’onde,
fin che da sommo ad imo sì turbolle
che non furo mai più chiare né monde.
E stanco al fin, e al fin di sudor molle,
poi che la lena vinta non risponde
allo sdegno, al grave odio, all’ardente ira,
cade sul prato, e verso il ciel sospira.

Il locus amoenus che ha caratterizzato finora la narrazione cessa di essere tale. Da luogo felice e ideale è divenuto empio, infelice e dunque desolato e devastato dopo il passaggio di Orlando

132
Afflitto e stanco al fin cade ne l’erba,
e ficca gli occhi al cielo, e non fa motto.
Senza cibo e dormir così si serba,
che ‘l sole esce tre volte e torna sotto.
Di crescer non cessò la pena acerba,
che fuor del senno al fin l’ebbe condotto.
Il quarto dì, da gran furor commosso,
e maglie e piastre si stracciò di dosso.

La parola cade, significativa nella descrizione della follia di Orlando, viene ripresa dall’ultimo verso dell’ottava precedente, attraverso un procedimento di ripetizione affine a quello delle coblas capfinidas.

L’ironia di Ariosto attraversa verticalmente tutto il brano. Il dolore che ha condotto Orlando fuor del senno lo strema al punto da costringerlo a uno stato di morte, per risollevarsi dal quale gli occorrono quattro giorni, uno in più della risurrezione di Cristo. Il parallelo che il poeta pone in atto non ha nulla di blasfemo, ma è una formulazione iperbolica per significare il grande dolore e l’immenso sacrificio del paladino. Tale parallelismo è visibile anche nella conclusione dell’ottava precedente, dove verso il ciel sospira richiama da vicino il passo evangelico della morte di Cristo

133
Qui riman l’elmo, e là riman lo scudo,
lontan gli arnesi, e più lontan l’usbergo:
l’arme sue tutte, in somma vi concludo,
avean pel bosco differente albergo.
E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo
l’ispido ventre e tutto ‘l petto e ‘l tergo;
e cominciò la gran follia, sì orrenda,
che de la più non sarà mai ch’intenda.

La “resurrezione” di Orlando è in realtà al contrario: essa non eleva il paladino donandogli una nuova vita, ma lo abbassa al livello ferino e bestiale. L’eroe, il paladino dell’esercito cristiano, perde tutti gli attributi della sua passata esistenza: Qui riman l’elmo, e là riman lo scudo, / lontan gli arnesi, e più lontan l’usbergo. Ora è diventato un uomo selvaggio, l’homo salvadego delle rappresentazioni pittoriche medievali che vive al di fuori della civiltà.

La spoliazione di Orlando, che sparge tutto intorno i pezzi dell’armatura, segna l’abbandono della propria identità . Senza vestiti, Orlando regredisce allo stato bestiale non potendo più assumere il ruolo di amante cortese e guerriero valoroso. Non c’è più spazio per nobili fini, l’eroe spreca la sua forza e la sua abilità distruggendo alberi e sassi e abbassandosi a far la guerra ai villani e alle pecore.
Il tono dell’Ariosto cambia rispetto alle ottave precedenti: i versi dedicati a Orlando impazzito sono condotti in forma diretta e cruda, con intonazioni volutamente prosaiche, date in particolare dalla descrizione del corpo denudato e dall’insistenza di martellanti enumerazioni che scandiscono i pensieri e gli atti i Orlando, privi di ogni struttura razionale.

Nel descrivere la pazzia di Orlando Ariosto spinge al limite la curiosità tipicamente rinascimentale, per ogni atteggiamento e sentimento umano: si tratta in questo caso di una situazione estrema, in cui l’uomo sprofonda nella bestialità più cieca, spogliandosi di ogni traccia di umanità. Dapprima Orlando è consapevole della sua sofferenza e la esprime con drammatici monologhi, ma gradualmente si trasforma in un bestione senza vestiti, totalmente dominato da un’incontenibile furia distruttiva. Il conte furioso distrugge tutto ciò che incontra sulla propria strada utilizzando la propria immensa forza.

134
In tanta rabbia, in tanto furor venne,
che rimase offuscato in ogni senso.
Di tor la spada in man non gli sovenne;
che fatte avria mirabil cose, penso.
Ma né quella, né scure, né bipenne
era bisogno al suo vigore immenso.
Quivi fe’ ben de le sue prove eccelse,
ch’un alto pino al primo crollo svelse:

135
e svelse dopo il primo altri parecchi,
come fosser finocchi, ebuli o aneti;
e fe’ il simil di querce e d’olmi vecchi,
di faggi e d’orni e d’illici e d’abeti.
Quel ch’un ucellator che s’apparecchi
il campo mondo, fa, per por le reti,
dei giunchi e de le stoppie e de l’urtiche,
facea de cerri e d’altre piante antiche.

La trasformazione di Orlando è compiuta. Il paladino non ha più bisogno degli attributi della sua passata esistenza (le armi): ormai si comporta da uomo selvaggio e agisce con le nude mani, senza disporre degli strumenti che la cultura e la tecnologia dell’uomo hanno costruito nel corso del tempo.

136
I pastor che sentito hanno il fracasso,
lasciando il gregge sparso alla foresta,
chi di qua, chi di là, tutti a gran passo
vi vengono a veder che cosa è questa.
Ma son giunto a quel segno il qual s’io passo
vi potria la mia istoria esser molesta;
ed io la vo’ più tosto diferire,
che v’abbia per lunghezza a fastidire.

Benché vittima dell’amore e della gelosia, Orlando resta un individuo eccezionale anche nella follia, il cui carattere smisurato e paradossale è sottolineato dall’uso continuo dell’iperbole.

La secca conclusione del canto serve a interrompere una sequenza che potrebbe dilungarsi tanto da diventare noiosa; tuttavia l’intervento dell’autore ha anche un altro significato: Ariosto non vuole andare oltre per rispettare il decoro e le forme e per garantire quell’equilibrio emotivo che gli interessa molto. L’autore riprenderà la narrazione dei disastri compiuti dal paladino nel canto successivo, ma per ora la tensione narrativa è momentaneamente smorzata.

Questo episodio permette di soffermarsi sull’illusorietà delle speranze umane; Nell’assenza di un sistema di valori stabili e certi, forze oscure e sconosciute sconvolgono l’interiorità dell’uomo. Ariosto, tuttavia, non cede alla crisi storica, che pur rivela, e vede nella letteratura uno strumento di equilibrio e di dominio di sé. Il distacco ironico e incredulo serve appunto ad arginare le forze irrazionali, a stimolare la riflessione, ribadendo così il carattere educativo della letteratura.

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Luca Pirola
Luca Pirola

Written by Luca Pirola

History and Italian literature teacher

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