La fuga di Angelica
L’Orlando furioso, I, 5–37
Nel canto I, dopo l’esordio, il poema entra subito nel vivo del racconto. Carlo Magno è in guerra coi re arabi Agramante e Marsilio, che hanno invaso la Francia. Nell’accampamento cristiano è scoppiata una contesa tra i due paladini più valorosi, Orlando e Rinaldo, per la bellissima Angelica, venuta dall’Oriente apposta per seminare discordia tra i guerrieri cristiani. Per evitare che la rivalità fra i due paladini ostacoli l’andamento della guerra, Carlo dà Angelica in custodia all’anziano Namo, duca di Baviera, e la promette in premio a quello dei due paladini che sarà più valoroso in battaglia. Ma Angelica riesce a fuggire, e subito uno stuolo di pretendenti si mette al suo inseguimento.
ottave 5–9 presentazione dei personaggi
Orlando giunge al campo di Carlo con Angelica e subito inizia il contrasto con Rinaldo; in seguito a questo Carlo decide di prometterla in premio al più valoroso. Purtroppo i cristiani furono sconfitti e il padiglione in cui Angelica era prigioniera rimane abbandonato.
Orlando, che gran tempo innamorato
fu de la bella Angelica, e per lei
in India, in Media, in Tartaria lasciato
avea infiniti ed immortal trofei,
in Ponente con essa era tornato,
dove sotto i gran monti Pirenei
con la gente di Francia e de Lamagna
re Carlo era attendato alla campagna,
I luoghi citati richiamano le regioni di un Oriente fantastico, tipico dei poemi cavallereschi e delle imprese eroiche. Fin dall’inizio Ariosto si immette nel solco della tradizione cavalleresca che rinnoverà profondamente con il suo poema. In particolare queste prime ottave servono per riprendere in modo esplicito le vicende dell’Orlando innamorato, di cui il suo poema vuole essere il completamento.
per far al re Marsilio e al re Agramante
battersi ancor del folle ardir la guancia,
d’aver condotto, l’un, d’Africa quante
genti erano atte a portar spada e lancia;
l’altro, d’aver spinta la Spagna inante
a destruzion del bel regno di Francia.
E così Orlando arrivò quivi a punto:
ma tosto si pentì d’esservi giunto:Che vi fu tolta la sua donna poi:
ecco il giudicio uman come spesso erra!
Quella che dagli esperi ai liti eoi
avea difesa con sì lunga guerra,
or tolta gli è fra tanti amici suoi,
senza spada adoprar, ne la sua terra.
Il savio imperator, ch’estinguer volse
un grave incendio, fu che gli la tolse.
In questa ottava troviamo una costante del poema: l’intervento diretto dell’Ariosto è espresso spesso con frasi esclamative che attualizzano il comportamento degli eroi. In questo caso Ariosto mostra come i piani degli uomini siano sventati dalla sorte. L’autore riflette sull’imprevedibilità dei casi umani con un’intonazione seria e meditativa in netto contrasto con il carattere favoloso degli eventi narrati. Inoltre l’aggettivo savio, tradizionalmente attribuito a Carlo, assume in questa situazione una forte venatura ironica.
Nata pochi dì inanzi era una gara
tra il conte Orlando e il suo cugin Rinaldo,
che entrambi avean per la bellezza rara
d’amoroso disio l’animo caldo.
Carlo, che non avea tal lite cara,
che gli rendea l’aiuto lor men saldo,
questa donzella, che la causa n’era,
tolse, e diè in mano al duca di Bavera;in premio promettendola a quel d’essi,
ch’in quel conflitto, in quella gran giornata,
degl’infideli più copia uccidessi,
e di sua man prestasse opra più grata.
Contrari ai voti poi furo i successi;
ch’in fuga andò la gente battezzata,
e con molti altri fu ’l duca prigione,
e restò abbandonato il padiglione.
ottave 10–24 Angelica, Ferraù e Rinaldo
Angelica approfitta della situazione per fuggire a cavallo, inoltrandosi in un bosco; qui incontra Rinaldo che aveva perduto il proprio cavallo. Angelica cambia prontamente direzione e fugge. Giunta sulla riva di un fiume incontra quindi il saraceno Ferraù che, spinto da un grande desiderio di dissetarsi aveva perduto il proprio elmo nello stagno e si si era quindi poi dovuto fermare oltre per cercarlo. Ferraù da buon cavaliere corre in aiuto della donzella, e affronta Rinaldo. Angelica riprende la fuga. I due guerrieri decidono di non perdere tempo e di partire, rimandando il duello. Ad un bivio decidono di separarsi.
Dove, poi che rimase la donzella
ch’esser dovea del vincitor mercede,
inanzi al caso era salita in sella,
e quando bisognò le spalle diede,
presaga che quel giorno esser rubella
dovea Fortuna alla cristiana fede:
entrò in un bosco, e ne la stretta via
rincontrò un cavallier ch’a piè venìa.
Il distico finale dell’ottava ha spesso, come nella strofa appena letta, la funzione di cerniera con i versi seguenti, introducendo ulteriori sviluppi del racconto narrato nei primi sei versi. In questo caso il rilancio della storia è dato dall’introduzione di un nuovo personaggio. In tal modo il distico in rima baciata, atteso dall’orecchio del lettore come una scansione ritmica costante, diventa il centro dell’azione, e prepara lo svolgimento successivo, garantendo insieme unità all’intreccio e scorrevolezza al procedere della lettura.
Indosso la corazza, l’elmo in testa,
la spada al fianco, e in braccio avea lo scudo;
e più leggier correa per la foresta,
ch’al pallio rosso il villan mezzo ignudo.
Timida pastorella mai sì presta
non volse piede inanzi a serpe crudo,
come Angelica tosto il freno torse,
che del guerrier, ch’a piè venìa, s’accorse.Era costui quel paladin gagliardo,
figliuol d’Amon, signor di Montalbano,
a cui pur dianzi il suo destrier Baiardo
per strano caso uscito era di mano.
Come alla donna egli drizzò lo sguardo,
riconobbe, quantunque di lontano,
l’angelico sembiante e quel bel volto
ch’all’amorose reti il tenea involto.
Rinaldo non è citato per nome ma attraverso i patronimico perché era ben conosciuto al pubblico cortese. Stessa discorso per il nome del suo cavallo. Ariosto sta introducendo i suoi lettori in un modo che ben conoscono.
La donna il palafreno a dietro volta,
e per la selva a tutta briglia il caccia;
né per la rara più che per la folta,
la più sicura e miglior via procaccia:
ma pallida, tremando, e di sé tolta,
lascia cura al destrier che la via faccia.
Di sù di giù, ne l’alta selva fiera
tanto girò, che venne a una riviera.
La Fortuna è l’elemento imponderabile a cui si affidano i personaggi: Angelica lascia che il cavallo scelga la strada migliore per allontanarsi da Rinaldo, non prende decisioni perché nell’intricata foresta non può orientarsi. Questa è la condizione dell’uomo rinascimentale, che non può prevedere il futuro e non coglie una direzione nella quotidianità. D’altronde, come Angelica fugge, tutti i personaggi sono incera di qualcosa che non riescono mai a trovare.
Su la riviera Ferraù trovosse
di sudor pieno e tutto polveroso.
Da la battaglia dianzi lo rimosse
un gran disio di bere e di riposo;
e poi, mal grado suo, quivi fermosse,
perché, de l’acqua ingordo e frettoloso,
l’elmo nel fiume si lasciò cadere,
né l’avea potuto anco riavere.Quanto potea più forte, ne veniva
gridando la donzella ispaventata.
A quella voce salta in su la riva
il Saracino, e nel viso la guata;
e la conosce subito ch’arriva,
ben che di timor pallida e turbata,
e sien più dì che non n’udì novella,
che senza dubbio ell’è Angelica bella.E perché era cortese, e n’avea forse
non men de’ dui cugini il petto caldo,
l’aiuto che potea tutto le porse,
pur come avesse l’elmo, ardito e baldo:
trasse la spada, e minacciando corse
dove poco di lui temea Rinaldo.
Più volte s’eran già non pur veduti,
m’al paragon de l’arme conosciuti.
Ferraù rappresenta l’esempio lampante dello scarso interesse di Ariosto per l’approfondimento psicologico, in modo da avere l’opportunità di accentuare il dinamismo delle vicende attraverso l’estrema volubilità dei suoi eroi, la loro disponibilità a mutare atteggiamenti e obiettivi in relazione agli sviluppi della trama. Ferraù, infatti, è impegnato a cercare l’elmo, ma la vista di Angelica lo induce a ingaggiare un furioso duello con Rinaldo; successivamente nel mezzo della lotta accetta la tregua proposta dal paladino, ritrovandosi poi in riva la lago per riprendere a cercare l’elmo.
I protagonisti del Furioso, dunque, non sono rappresentati in modo realistico, bensì sono personaggi piatti, totalmente dominati da una passione o da un impulso, che fa da forza motrice allo svolgimento dell’intreccio.
Cominciar quivi una crudel battaglia,
come a piè si trovar, coi brandi ignudi:
non che le piastre e la minuta maglia,
ma ai colpi lor non reggerian gl’incudi.
Or, mentre l’un con l’altro si travaglia,
bisogna al palafren che ’l passo studi;
che quanto può menar de le calcagna,
colei lo caccia al bosco e alla campagna.Poi che s’affaticar gran pezzo invano
i dui guerrier per por l’un l’altro sotto,
quando non meno era con l’arme in mano
questo di quel, né quel di questo dotto;
fu primiero il signor di Montalbano,
ch’al cavallier di Spagna fece motto,
sì come quel ch’ha nel cuor tanto fuoco,
che tutto n’arde e non ritrova loco.Disse al pagan: — Me sol creduto avrai,
e pur avrai te meco ancora offeso:
se questo avvien perché i fulgenti rai
del nuovo sol t’abbino il petto acceso,
di farmi qui tardar che guadagno hai?
che quando ancor tu m’abbi morto o preso,
non però tua la bella donna fia;
che, mentre noi tardiam, se ne va via.Quanto fia meglio, amandola tu ancora,
che tu le venga a traversar la strada,
a ritenerla e farle far dimora,
prima che più lontana se ne vada!
Come l’avremo in potestate, allora
di chi esser de’ si provi con la spada:
non so altrimenti, dopo un lungo affanno,
che possa riuscirci altro che danno. –Al pagan la proposta non dispiacque:
così fu differita la tenzone;
e tal tregua tra lor subito nacque,
sì l’odio e l’ira va in oblivione,
che ’l pagano al partir da le fresche acque
non lasciò a piedi il buon figliuol d’Amone:
con preghi invita, ed al fin toglie in groppa,
e per l’orme d’Angelica galoppa.
Il duello tra Rinaldo e Ferraù inizia con uno scontro epico di gran colpi dati e presi con abilità guerresca; tuttavia i due iniziano a parlare e giungono ad un accordo; questo sarebbe stato impossibile nella letteratura cavalleresca precedente, perché il considerare tutti i personaggi uomini rende manifesta l’impostazione dell’Ariosto, che non divide i cavalieri tra buoni e cattivi. La proposta di Rinaldo e la risposta di Ferraù sono, infatti dettate dal buon senso del comune vantaggio, che lascia da parte ogni visione estremistica.
D’altrone la ricerca (“quete”) dei cavalieri non riguarda più il Graal, ma il soddisfacimento dei desideri personali, i loro movimenti continui hanno lo scopo di catturare Angelica, che tuttavia risulta irraggiungibile, perché è oggetto della ricerca vana, in quanto i desideri dell’uomo sono irrealizzabili.
Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!
Eran rivali, eran di fé diversi,
e si sentian degli aspri colpi iniqui
per tutta la persona anco dolersi;
e pur per selve oscure e calli obliqui
insieme van senza sospetto aversi.
Da quattro sproni il destrier punto arriva
ove una strada in due si dipartiva.
Il secondo intervento diretto dell’Ariosto è ironico, perché esalta il raggiungimento del compromesso e l’abbandono del duello, un comportamenti lontanissimi dall’etica cavalleresca, come proprio dei cavalieri antichi. In questo modo il poeta prende una distanza ironica da ciò che egli stesso sta raccontano, invitando il lettore a non prendere troppo sul serio le vicende narrate, ma a riconoscere in esse una rappresentazione divertita e fantastica della complessità e della varietà del mondo.
E come quei che non sapean se l’una
o l’altra via facesse la donzella
(però che senza differenza alcuna
apparia in amendue l’orma novella),
si messero ad arbitrio di fortuna,
Rinaldo a questa, il Saracino a quella.
Pel bosco Ferraù molto s’avvolse,
e ritrovossi al fine onde si tolse.
La Selva in cui si muovono i personaggi è un labirinto, rappresentazione del mondo che non dà più punti di riferimento. Qui tutto diventa arbitrio della Fortuna: la sconfitta cristiana; le scelte che si trovano a fare i personaggi di fronte a ogni bivio sono libere, ma il successo delle loro imprese non dipende da loro. Infatti ogni azione non porta a un vero sviluppo della narrazione, ma chiude le vicende a circolo: Angelica, Ferraù e Rinaldo si ritrovano sempre al medesimo punto di partenza. In questo intricato mondo gli itinerari dei cavalieri si intrecciano, ostacolando la ricerca di ciascuno. Dunque il bosco non è un paesaggio descritto realisticamente, ma un luogo fantastico, simbolo dell’imponderabilità e della complessità delle vicende umane, da cui scaturiscono continui imprevisti e colpi di scena.
25–31 Ferraù e il fantasma di Argalia
Ferraù si ritrova nuovamente al fiume e si rimette a cercare l’elmo. Dalle acqua vede comparire il fantasma di Argalia, cavaliere da lui ucciso, che lo incita a conquistare l’elmo di Orlando o di Rinaldo in sostituzione del suo. Ferraù, dunque si lancia alla ricerca di Orlando.
Pur si ritrova ancor su la riviera,
lá dove l’elmo gli cascò ne l’onde.
Poi che la donna ritrovar non spera,
per aver l’elmo che ’l fiume gli asconde,
in quella parte onde caduto gli era
discende ne l’estreme umide sponde:
ma quello era sí fitto ne la sabbia,
che molto avrá da far prima che l’abbia.Con un gran ramo d’albero rimondo,
di ch’avea fatto una pertica lunga,
tenta il fiume e ricerca sino al fondo,
né loco lascia ove non batta e punga.
Mentre con la maggior stizza del mondo
tanto l’indugio suo quivi prolunga,
vede di mezzo il fiume un cavalliero
insino al petto uscir, d’aspetto fiero.
Il fantasma di Argalia inizialmente si presenta con la solennità di una figura dantesca, nell’ottava successiva parla come uno che è solo molto stizzito per un prestito non restituito nei tempi concordati. Infatti, anche se i personaggi in scena sono cavalieri di rango, mossi dagli alti ideali della tradizione cavalleresca, mostrano nei loro comportamenti i limiti, le debolezze degli esseri umani comuni. Questo accostamento tra elementi eroici ed elementi prosaici abbassa la dignità epica, conferendo un carattere familiare e umoristico ai loro comportamenti.
Era, fuor che la testa, tutto armato,
et avea un elmo ne la destra mano:
avea il medesimo elmo che cercato
da Ferraú fu lungamente invano.
A Ferraú parlò come adirato,
e disse: — Ah mancator di fé, marano!
perché di lasciar l’elmo anche t’aggrevi,
che render giá gran tempo mi dovevi?Ricordati, pagan, quando uccidesti
d’Angelica il fratel (che son quell’io),
dietro all’altr’arme tu mi promettesti
gittar fra pochi dí l’elmo nel rio.
Or se Fortuna (quel che non volesti
far tu) pone ad effetto il voler mio,
non ti turbare; e se turbar ti dèi,
turbati che di fé mancato sei.Ma se desir pur hai d’un elmo fino,
trovane un altro, et abbil con piú onore;
un tal ne porta Orlando paladino,
un tal Rinaldo, e forse anco migliore:
l’un fu d’Almonte, e l’altro di Mambrino:
acquista un di quei duo col tuo valore:
e questo, c’hai giá di lasciarmi detto,
farai bene a lasciarmi con effetto. —All’apparir che fece all’improviso
de l’acqua l’ombra, ogni pelo arricciossi,
e scolorossi al Saracino il viso;
la voce, ch’era per uscir, fermossi.
Udendo poi da l’Argalia, ch’ucciso
quivi avea giá (che l’Argalia nomossi),
la rotta fede cosí improverarse,
di scorno e d’ira dentro e di fuor arse.Né tempo avendo a pensar altra scusa,
e conoscendo ben che ’l ver gli disse,
restò senza risposta a bocca chiusa;
ma la vergogna il cor sì gli traffisse,
che giurò per la vita di Lanfusa
non voler mai ch’altro elmo lo coprisse,
se non quel buono che giá in Aspramonte
trasse del capo Orlando al fiero Almonte.E servò meglio questo giuramento,
che non avea quell’altro fatto prima.
Quindi si parte tanto malcontento,
che molti giorni poi si rode e lima.
Sol di cercare è il paladino intento
di qua di lá, dove trovarlo stima.
Altra ventura al buon Rinaldo accade,
che da costui tenea diverse strade.
32–37 Angelica trova un riparo
Mentre Rinaldo, corre nuovamente dietro a Baiardo, Angelica prosegue nella sua fuga fino a giungere il giorno dopo presso un ruscello dove, nascosta in una cespuglio, decide di riposarsi.
Non molto va Rinaldo, che si vede
saltare inanzi il suo destrier feroce:
— Ferma, Baiardo mio, deh, ferma il piede!
che Tesser senza te troppo mi nuoce. —
Per questo il destrier sordo a lui non riede,
anzi piú se ne va sempre veloce.
Segue Rinaldo, e d’ira si distrugge:
ma seguitiamo Angelica che fugge.
L’intreccio è costruito come una struttura a incastro, governata da un’abile regia che svolge e aggroviglia i fili narrativi relativi ai diversi personaggi. lasciato Ferraù, inviato Rinaldo alla ricerca del cavallo, Ariosto riprende il cammino di Angelica, intrecciando il singoli percorsi con un gioco di interruzioni e riprese, sottolineato dai nessi di contemporaneità fra vicende diverse, da rapidi raccordi, da apparizioni inattese. Il complesso congegno narrativo ha lo scopo di tenere desta l’attenzione del lettore.
Fugge tra selve spaventose e scure,
per lochi inabitati, ermi e selvaggi.
Il mover de le frondi e di verzure,
che di cerri sentia, d’olmi e di faggi,
fatto le avea con subite paure
trovar di qua di lá strani vïaggi;
ch’ad ogni ombra veduta o in monte o in valle,
temea Rinaldo aver sempre alle spalle.Qual pargoletta o damma o capriuola,
che tra le fronde del natio boschetto
alla madre veduta abbia la gola
stringer dal pardo, o aprirle ’l fianco o ’l petto,
di selva in selva dal crudel s’invola,
e di paura triema e di sospetto:
ad ogni sterpo che passando tocca,
esser si crede all’empia fera in bocca.Quel dí e la notte e mezzo l’altro giorno
s’andò aggirando, e non sapeva dove.
Trovossi al fine in un boschetto adorno,
che lievemente la fresca aura muove.
Duo chiari rivi, mormorando intorno,
sempre l’erbe vi fan tenere e nuove;
e rendea ad ascoltar dolce concento,
rotto tra picciol sassi, il correr lento.Quivi parendo a lei d’esser sicura
e lontana a Rinaldo mille miglia,
da la via stanca e da l’estiva arsura,
di riposare alquanto si consiglia:
tra’ fiori smonta, e lascia alla pastura
andare il palafren senza la briglia;
e quel va errando intorno alle chiare onde,
che di fresca erba avean piene le sponde.Ecco non lungi un bel cespuglio vede
di prun fioriti e di vermiglie rose,
che de le liquide onde al specchio siede,
chiuso dal sol fra balte quercie ombrose:
cosí vòto nel mezzo, che concede
fresca stanza fra l’ombre piú nascose:
e la foglia coi rami in modo è mista,
che ’l sol non v’entra, non che minor vista.
In questa due ultime ottave appare improvvisamente uno scenario naturale perfettamente quieto e accogliente, per fare da sfondo al riposo di Angelica e per concedere ai lettori una breve e provvisoria pausa fra i duelli, gli inseguimenti, i fulminei mutamenti di prospettiva.
Il tema centrale del primo canto del Furioso — come di tutto il poema — è un problema tipico della cultura del Rinascimento: se e come l’uomo possa dominare una realtà complessa, che da un lato sfugge continuamente alle sue attese e alle sue previsioni, e dall’altro non è riconducibile ad alcun disegno provvidenziale. Gli inseguimenti vani, le ricerche incompiute, i percorsi tortuosi dei cavalieri nel labirinto della selva si possono leggere come una rappresentazione dei tentativi umani di governare con le proprie sole forze un mondo dominato dal caso.
Ciò che caratterizza Ariosto è la sua capacità di affrontare questo tema serio e grave in termini ironici, fantastici e disincantati: da un lato le vicende dei personaggi, dominati dalle passioni e soggetti ai capricci della Fortuna, esprimono uno scetticismo sulla condizione umana, da cui traspare un senso di crisi e di precarietà; dall’altro il perfetto controllo razionale dell’autore sulla materia, la sua capacità di armonizzare in un intreccio appassionante l’estrema varietà dei casi e delle vicende, lo sguardo distaccato con cui li contempla corrispondono ai valori di serenità e di equilibrio, di amore per la bellezza tipici dello spirito rinascimentale.