La ginestra
La dignità della consapevolezza
Composta nel 1836 in una villa sulle falde del Vesuvio, La ginestra fu pubblicata postuma nel 1845. Secondo la volontà di Leopardi la lirica occupa l’ultimo posto nell’edizione definitiva dei Canti a significare il suo carattere di testamento spirituale e di sintesi conclusiva del pensiero del poeta.
Versi 1–51
E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce* (Giovanni, III, 19)
Qui su l’arida schiena
del formidabil monte
sterminator Vesevo,
la qual null’altro allegra arbor né fiore,
tuoi cespi solitari intorno spargi,
odorata ginestra,
contenta dei deserti. Anco ti vidi
de’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
che cingon la cittade
la qual fu donna de’ mortali un tempo,
e del perduto impero
par che col grave e taciturno aspetto
faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
lochi e dal mondo abbandonati amante,
e d’afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
di ceneri infeconde, e ricoperti
dell’impietrata lava,
che sotto i passi al peregrin risona;
dove s’annida e si contorce al sole
la serpe, e dove al noto
cavernoso covil torna il coniglio;
fur liete ville e colti,
e biondeggiàr di spiche, e risonaro
di muggito d’armenti;
fur giardini e palagi,
agli ozi de’ potenti
gradito ospizio; e fur città famose,
che coi torrenti suoi l’altero monte
dall’ignea bocca fulminando oppresse
con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
una ruina involve,
dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
i danni altrui commiserando, al cielo
di dolcissimo odor mandi un profumo,
che il deserto consola. A queste piagge
venga colui che d’esaltar con lode
il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
è il gener nostro in cura
all’amante natura. E la possanza
qui con giusta misura
anco estimar potrà dell’uman seme,
cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
con lieve moto in un momento annulla
in parte, e può con moti
poco men lievi ancor subitamente
annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
son dell’umana gente
le magnifiche sorti e progressive.
La lirica è preceduta da una citazione del Vangelo di Giovanni che sottolinea come gli uomini scelsero la luce della Salvezza, qui Leopardi rovescia il senso della frase evangelica considerando “tenebre” le visioni fideistiche e ottimistiche della vita, “luce” la critica razionale di ogni falsa illusione.
La ginestra viene scelta da Leopardi come sua interlocutrice alle pendici del Vesuvio, dove un tempo si ergevano città fiorenti e ora sono deserte e ricoperte di rovine e cenere.
Sulla schiena priva di vegetazione del temibile Vesuvio (formidabil monte) distruttore spaventevole (latinismo da formido, “spavento”) non allietata da nessun altro albero o fiore, tu diffondi i tuoi cespugli, profumata ginestra, contenta di fiorire in luoghi solitari. Ti vidi anche un’altra volta abbellire con i tuoi steli le contrade solitarie (erme contrade) che circondano Roma, un tempo dominatrice (donna) di popoli, e che con il loro aspetto maestoso sembrano testimoniare e ricordare al viandante (faccian fede e ricordo al passeggero) la trascorsa potenza dell’impero. Ora ti rivedo qui sulle pendici del Vesuvio, o ginestra, amica di luoghi tristi e abbandonati dalla gente e com- pagna di grandezze crollate. Le immagini di un mondo di morte
– i campi cosparsi di ceneri sterili (ceneri infeconde) e ricoperti di lava solidificata, che risuona sotto i passi del passeggero, dove si an- nida e contorce il serpente, e dove il coniglio ritorna alla abituale tana sotterranea — contrastano con quelle di vita di un passato lieto e ameno, quando c’erano villaggi prosperi e terreni coltivati, spighe biondeggianti e muggiti di armenti, giardini e ville sontuose che offrirono gradita ospitalità agli ozi dei patrizi romani, e città famose, che l’altero Vesuvio (l’altero monte), eruttando fuoco dal cratere (fulminando), sommerse con i suoi torrenti di lava. Ora le rovine circondano il paesaggio desolato dove tu solo stai, o fiore gentile, e, quasi mostrando compassione per le sciagure altrui, diffondi un dolcissimo profumo che sale verso il cielo e che consola questa terra di desolazione. Venga su queste pendici colui che è solito lodare la condizione umana e veda quanto il genere umano sia caro all’amorosa natura. Qui potrà anche valutare la potenza del genere umano che la natura, crudele nutrice, quando esso (l’uman seme) meno se l’aspetta, con una lieve scossa può in parte distruggere, o addirittura annientare del tutto, con movi- menti appena più forti (in seguito si farà riferimento all’eruzione che nel 79 d.C. distrusse Pompei, Ercolano e Stabia). In questi luoghi si possono vedere come dipinte in un quadro le sorti grandiose ed in continuo progresso dell’umanità.
La desolazione della Natura domina i versi 1–36 che descrivono il paesaggio di rovine delle pendici del Vesuvio e poi delle contrade di Roma dove fiorisce la ginestra, che con il suo profumo, segno di vita, si contrappone all’aridità e alla solitudine di quei luoghi: essa abbellisce le desolate lande, è compagna di fortune abbattute, è gentile e mostra compassione per le sciagure altrui.
Dal verso 37 inizia la polemica nei confronti di quanti esaltano la condizione umana e celebrano la civiltà e il progresso. Vengano costoro su queste pendici — li invita con amara ironia il poeta — a constatare con i propri occhi quanto il genere umano stia a cuore alla natura amorosa, a vedere in questi luoghi le magnifiche sorti e progressive dell’umanità. La frase conclusiva è una citazione sarcastica di Leopardi, in cui si simboleggiava proprio il senso di una speranza storica, di una speranza di progresso sociale e politico, che il Leopardi — sempre, ma soprattutto quello degli ultimi anni — non può che irridere. Lo irride proprio perché a fronte di questa speranza umana c’è il volto enigmatico della Natura, il volto indifferente di una natura che appunto con una semplice scossa può, con “moti poco lievi ancor subitamente annichilare”, distruggere tutto il genere umano, tutte le sue civiltà, tutte le sue speranze e le sue costruzioni.
Analisi stilistica
La lirica presenta una grande varietà di toni (lirico-emotivi, riflessivi, polemici, sarcastici, esortativi); il lessico accosta termini comuni ad altri illustri e solenni; i periodi sono prevalentemente ampi e complessi, con sfasature tra metro e sin- tassi, per sottolineare il tono sarcastico (per esempio: A queste piagge / venga colui che d’esaltar con lode / il nostro stato ha in uso, e vegga quanto / è il gener nostro in cura / all’amante natura. E la possanza / qui con giusta misura / anco estimar potrà dell’uman seme, vv. 37–43). L’opposizione all’idealismo e allo spiritualismo religioso si esprime anche nel procedimento argomentativo: l’uso frequente di avverbi di tempo e di luogo (qui, or, quaggiù) o di aggettivi e pronomi dimostrativi (questo, questi, queste) accompagna le varie argomentazioni ricavate dall’osservazione concreta della realtà e non da premesse teoriche astratte.
L’antitesi tematica tra l’aridità del deserto e il profumo della ginestra è espressa da parole con suono aspro (cosparsi, ceneri, ricoperti, impietrata, passi, peregrin, risona, contorce, serpe, cavernoso) e da altre con suono dolce e musicale (dove tu siedi, o fior gentile… / …al cielo / di dolcissimo odor mandi un profumo / che il deserto consola, vv. 34–37)
Nella seconda strofa Leopardi si rivolge al proprio secolo che chiama superbo (perché crede di poter dominare la Natura e, quindi, ha fiducia nel progresso) e sciocco (perché non si rende conto delle minacce che sovrastano il mondo). Gli uomini d’ingegno, che avrebbero meritato di vivere in un secolo migliore, si adattano al conformismo, ma lui non si piegherà a tanta vigliaccheria e non celerà il suo disprezzo. La libertà è solo vagheggiata perché l’allontanamento dal laicismo ha portato l’uomo a subire le pressioni della religione che l’ha allontanato dalla verità. Solo l’investigazione del vero può portare al vero progresso.
La terza strofa inizia con la metafora dell’uomo povero ed infermo che si manifesta agli altri per quello che realmente è, non vanta un fisico forte o ricchezze che non possiede, in cui si riconosce Leopardi stesso. Questo è il vero magnanimo, non colui che crede di poter conseguire la felicità.
Versi 111–135
Nobil natura è quella
che a sollevar s’ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra se nel soffrir, né gli odii e l’ire
fraterne, ancor più gravi
d’ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l’uomo incolpando
del suo dolor, ma dà la colpa a quella
che veramente è rea, che de’ mortali
madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccome è il vero, ed ordinata in pria
l’umana compagnia,
tutti fra se confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune.
Nobile natura è quella di colui che ha il coraggio di guardare in faccia il destino umano, e che con sincerità, non sottraendo nulla alla verità, riconosce la sorte dolorosa e l’insignificante e fragile condizione che ci furono assegnate; nobile natura è quella di colui che si mostra grande e forte nel soffrire, che non ritiene responsabile delle sue sciagure gli altri uomini, aggiungendo alle sue già numerose sventure odio e ira tra fratelli, ossia un danno ancora peggiore, ma attribuisce la colpa a colei che è la vera responsabile, che è madre degli uomini, perché li ha generati, ma, per come si comporta nei loro confronti, è da considerarsi come una matrigna. L’uomo nobile considera la natura (Costei, v. 126) una nemica, pensando, come del resto è, che la società umana si sia unita e organizzata all’origine (in pria) per combattere la natura e considera (estima) alleati fra loro tutti gli uomini, e abbraccia tutti con vero amore, prestando valido e sollecito aiuto (aita) negli alterni pericoli e nelle difficoltà della guerra comune.
In questi versi Leopardi definisce la vera nobiltà spirituale: magnanimo e nobile (generoso ed alto) è l’uomo che ha il coraggio intellettuale e la forza d’animo di riconoscere apertamente e senza vergogna la verità della propria infelice condizione, che si mostra grande e forte nel soffrire e non incolpa delle sue disgrazie gli altri uomini, ma le attribuisce alla Natura. Ed essendo consapevole che l’umanità fin dalle origini si è unita in società contro il comune nemico, la Natura, considera tutti gli esseri umani suoi fratelli e li abbraccia tutti, porgendo e ottenendo un valido aiuto nei pericoli della lotta comune.
La lotta del genere umano, sia pur confederato, contro la Natura è destinata ad un’inevitabile sconfitta. Questa sconfitta giunge al termine di un’esistenza da sconfitte, una dopo l’altra incatenate; i versi proposti sono un bilancio sul destino dell’umanità, sulla presenza dell’umanità sul pianeta; essi dipingono l’umanità come “umana compagnia”, al di là di quella che è la speranza, al di là di quella che è ogni scena di una possibile azione anche politica: Leopardi individua questa “umana compagnia” come unica presenza reale, la presenza di chi è in possesso del linguaggio, di qualcosa che assomiglia al profumo della ginestra, di qualcosa che assomiglia a quella vitalità che malgrado tutto continua a profluire, a respirare, ad esalare dal nostro stato umano.
La riflessione del poeta prosegue con la convinzione che solo quando gli uomini capiranno che la natura è nemica dell’uomo, potranno opporvisi attraverso l’alleanza, per raggiungere l’onestà e la lealtà della convivenza civile.
La quarta strofa del canto (vv. 158–201) con un’arcana visione di spazi cosmici, ripropone l’inquietante consapevolezza di una solitudine desolata, di un mondo umano piccolo e limitato se confrontato con la vastità dell’universo. La contemplazione di questo vuoto affascinante e terribile è tutt’altro che idillica, ma vuole affrontare razionalmente il mistero dell’universo. Ne deriva una ripresa polemica del poeta contro la visibile assurdità delle ideologie ottimistiche, che credono l’uomo signore dell’universo e “favoleggiano” sulle divinità che scendono sulla terra, per conversare con gli uomini.
La quinta strofa (vv. 202–236) sviluppa la similitudine fra la rovina di un formicaio devastato dalla caduta d’un pomo e la distruzione di Ercolano e Pompei. La natura, nella sua assoluta indifferenza, non si cura dell’uomo come non si cura delle formiche: un pomo schiaccia un formicaio, l’eruzione vulcanica distrugge prospere città.
Nella sesta strofa Leopardi descrive la storia dell’uomo, che è caratterizzata dal terrore, uno stato di pericolo imminente che è rappresentato dal Vesuvio che dai tempi dell’antica eruzione, è sempre in attività. Il contadino, pur spaventato, continua a lavorare la sua terra ma spesso la paura lo spinge ad abbandonare tutto, con la sua famiglia, vivendo in continua precarietà. Anche il turista che visita Pompei rivolge lo sguardo inquieto al Vesuvio e nello stesso tempo diviene emblema del lettore che attraverso la poesia scopre la verità: la Natura, incurante dell’uomo e del trascorrere del tempo, è sempre giovane. Nonostante ciò l’uomo ha la presunzione di essere eterno. Al contrario dell’uomo la Natura si mantiene giovane e vigorosa, tanto che appare immobile, tanto lento è il suo sviluppo. I regni e le civiltà umane si succedono senza sosta, ma la Natura non se ne accorge minimamente, e nonostante ciò l’uomo è talmente presuntuoso da aspirare all’eternità.
versi 298–317
E tu, lenta ginestra,
che di selve odorate
queste campagne dispogliate adorni,
anche tu presto alla crudel possanza
soccomberai del sotterraneo foco,
che ritornando al loco
già noto, stenderà l’avaro lembo
su tue molli foreste. E piegherai
sotto il fascio mortal non renitente
il tuo capo innocente:
ma non piegato insino allora indarno
codardamente supplicando innanzi
al futuro oppressor; ma non eretto
con forsennato orgoglio inver le stelle,
né sul deserto, dove
e la sede e i natali
non per voler ma per fortuna avesti;
ma più saggia, ma tanto
meno inferma dell’uom, quanto le frali
tue stirpi non credesti
o dal fato o da te fatte immortali.
E tu, o flessibile ginestra, che abbellisci queste campagne prive di vegetazione con i tuoi cespugli profumati, anche tu presto sarai sopraffatta dalla lava incandescente che arde dentro il vulcano e che, ridiscendendo per lo stesso pendio, distenderà sui tuoi cespugli l’avida coltre. E piegherai sotto ilsuo peso mortale, senza opporre resistenza (non renitente), il tuo capo innocente; ma senza averlo fino ad allora piegato supplicando codardamente e inutilmente (indarno) il vulcano (futuro oppressore) perché ti risparmiasse; ma senza averlo sollevato con folle superbia verso il cielo, con un atteggiamento di superiorità, né verso le aride pendici dove non per tua volontà, ma per caso, avesti dimora e natali; ma tanto meno insensata e meno debole dell’uomo, poiché non credesti le tue deboli stirpi rese immortali dal fato o dalle tue imprese.
Proprio la natura che nelle Operette Morali era stata dipinta come un mostro anonimo ed indifferente, è la stessa che produce anche il suo controveleno, questo emblema del fiore del deserto, che proprio di fronte alla desertificazione, alla fine della speranza, all’impossibilità di una prospettiva per il futuro, comunque sparge il suo profumo, un po’ come la scrittura poetica nasce dall’arido vero, nasce dall’apparir del vero e mantiene però quella fragranza che però Leopardi ci fa percepire.
La morale leopardiana di solidarietà sociale (vero amor) rivela un pessimismo non rassegnato ma combattivo di fronte alla dura legge dell’esistenza. Il poeta, opponendosi al conformismo imperante tra gli intellettuali, che si rifugiano in illusioni politiche o religiose, ribadisce il valore della ragione: essa, dinanzi al potere distruttivo della natura e del tempo, fornisce agli uomini uno strumento di consapevolezza — anche se tragica — della verità del loro nulla.
Orgoglioso della propria nobiltà spirituale (Non io / con tal vergogna scenderò sotterra…, vv. 63–64; Nobil natura è quella…, v. 111) e del proprio ruolo di intellettuale, il poeta testimonia il vero (l’insignificanza del genere umano, la sua piccolezza e marginalità nel cosmo) e diffonde l’idea utopistica di una fraternità su cui costruire una società nuova contro la vera nemica, la natura.