La leggerezza
Il significato della letteratura alle soglie del terzo millennio
Il 6 giugno 1984 Calvino fu ufficialmente invitato dall’Università di Harvard a tenere le Charles Eliot Norton Poetry Lectures. Si tratta di un ciclo di sei conferenze che hanno luogo nel corso di un anno accademico (per Calvino sarebbe stato l’anno 1985–1986) alla Università di Harvard, Cambridge, nel Massachusetts.
Calvino ha lasciato questo libro senza titolo italiano. Aveva dovuto pensare prima al titolo inglese, “Six memos for the next millennium” ed era il titolo definitivo. Impossibile sapere cosa sarebbe diventato in italiano. Italo Calvino ha destinato a noi tutti un agile vademecum, perché la vecchiezza del mondo con il suo carico di problemi e di angustie non ci trovi impreparati. Se molti sono i valori che nel declino della civiltà rischiano di andare dispersi, agli occhi di Calvino ce n’è uno, irrinunciabile, che li riassume tutti: “Il mio disagio è per la perdita di forma che constato nella vita”. I suoi consigli riguardano dunque la forma ma anche la vita, e se sono rivolti in primo luogo agli scrittori, non possono lasciare indifferente chi delle lettere non fa professione: la “leggerezza”, la “rapidità”, l’”esattezza”, la “visibilità”, la “molteplicità” (sono questi i temi delle conferenze che Calvino si accingeva a tenere all’Università di Harvard) dovrebbero in realtà informare non soltanto l’attività degli scrittori ma ogni gesto della nostra troppo sciatta, svagata esistenza.
Quella sulla Leggerezza è certamente la più nota e forse anche la più apprezzata tra le qualità, o specificità, oggetto delle sei Lezioni di Calvino, assunte in questa sede come trama interpretativa per tratteggiare la componente sensibile dell’attuale universo dei media, e sbirciare tra le luci e le ombre dell’esperienza estetica nel mondo digitale.
Dedicherò la prima conferenza all’opposizione leggerezza-peso, e sosterrò le ragioni della leggerezza. Questo non vuol dire che io consideri le ragioni del peso meno valide, ma solo che sulla leggerezza penso d’aver più cose da dire. Dopo quarant’anni che scrivo fiction, dopo aver esplorato varie strade e compiuto esperimenti diversi, è venuta l’ora che io cerchi una definizione complessiva per il mio lavoro; proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio. In questa conferenza cercherò di spiegare — a me stesso e a voi — perché sono stato portato a considerare la leggerezza un valore anziché un difetto; quali sono gli esempi tra le opere del passato in cui riconosco il mio ideale di leggerezza; come situo questo valore nel presente e come lo proietto nel futuro.
Calvino scelse come tema generale delle sue lezioni “alcuni valori letterari da conservare nel prossimo millennio”, perciò proprio seguendo questa ottica, Calvino analizza il primo dei valori che ha intenzione di portare nel nuovo millennio: la leggerezza. Questa non viene intesa come una qualità riconducibile al semplice modo d’agire dell’uomo, ma viene analizzato un nuovo aspetto di tale “virtù”: una nuova leggerezza strettamente legata con la letteratura. Attraverso le pagine della prima conferenza, infatti, si comprende come per l’autore la letteratura ricopra una funzione esistenziale e come la leggerezza, strettamente legata allo scrivere, assuma un nuovo rilevante compito. Innanzitutto, Calvino dice: “Prendete la vita con leggerezza, ché leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”. In questa frase ci sono così tanti significati che la mente corre a tutta furia alla ricerca di immagini da associare, concetti astratti da paragonare. È il sunto della filosofia di vita più saggia: da una parte invita a vivere con “leggerezza”, ossia con la capacità di non dare peso all’inessenziale, ma di liberarsene riuscendo appunto a “planare sulle cose”; dall’altra dice che essere leggeri non significa essere superficiali bensì essere un passo avanti rispetto a chi rincorre l’eccesso, perché occorrono sia precisione sia determinazione per essere leggeri. Alleggerirne l’immagine, dunque, non significa rifiutarne la cruda realtà, bensì cogliere in essa quella sostanza pulviscolare di cui è composta; un processo in cui la conoscenza del mondo esige la dissoluzione della sua compattezza, per riuscire a percepire «ciò che è infinitamente minuto e mobile e leggero». Per questo la leggerezza diventa il criterio per valutare la letteratura. In base a questo indicatore passa a considerare l’applicazione di tale criterio nella sua attività di scrittore.
Comincerò dall’ultimo punto. Quando ho iniziato la mia attività, il dovere di rappresentare il nostro tempo era l’imperativo categorico d’ogni giovane scrittore. Pieno di buona volontà, cercavo d’immedesimarmi nell’energia spietata che muove la storia del nostro secolo, nelle sue vicende collettive e individuali. Cercavo di cogliere una sintonia tra il movimentato spettacolo del mondo, ora drammatico ora grottesco, e il ritmo interiore picaresco e avventuroso che mi spingeva a scrivere. Presto mi sono accorto che tra i fatti della vita che avrebbero dovuto essere la mia materia prima e l’agilità scattante e tagliente che volevo animasse la mia scrittura c’era un divario che mi costava sempre più sforzo superare. Forse stavo scoprendo solo allora la pesantezza, l’inerzia, l’opacità del mondo: qualità che s’attaccano subito alla scrittura, se non si trova il modo di sfuggirle. In certi momenti mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra: una lenta pietrificazione più o meno avanzata a seconda delle persone e dei luoghi, ma che non risparmiava nessun aspetto della vita. Era come se nessuno potesse sfuggire allo sguardo inesorabile della Medusa. L’unico eroe capace di tagliare la testa della Medusa è Perseo, che vola coi sandali alati, Perseo che non rivolge il suo sguardo sul volto della Gorgone ma solo sulla sua immagine riflessa nello scudo di bronzo.
Nell’ excursus che Calvino opera attraverso la letteratura del passato, primo fra tutti, viene riproposto il mito di Medusa. Il mito di Perseo e della Gorgone con cui si apre la prima delle Lezioni sembra quasi un’allegoria del rapporto dell’uomo col mondo: è grazie al riflesso sullo scudo di Atena che Perseo riesce a sfuggire allo sguardo pietrificante della Medusa, il che vuol dire osservare il mondo con altri occhi; attuare una dissoluzione visiva e cognitiva del mondo, acquisire nuovi strumenti di conoscenza, nuovi mezzi di mediazione con esso.
Ecco che Perseo mi viene in soccorso anche in questo momento, mentre mi sentivo già catturare dalla morsa di pietra, come mi succede ogni volta che tento una rievocazione storico-autobiografica. Meglio lasciare che il mio discorso si componga con le immagini della mitologia. Per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole; e spinge il suo sguardo su ciò che può rivelarglisi solo in una visione indiretta, in un’immagine catturata da uno specchio. Subito sento la tentazione di trovare in questo mito un’allegoria del rapporto del poeta col mondo, una lezione del metodo da seguire scrivendo. Ma so che ogni interpretazione impoverisce il mito e lo soffoca: coi miti non bisogna aver fretta; è meglio lasciarli depositare nella memoria, fermarsi a meditare su ogni dettaglio, ragionarci sopra senza uscire dal loro linguaggio di immagini. La lezione che possiamo trarre da un mito sta nella letteralità del racconto, non in ciò che vi aggiungiamo noi dal di fuori. Il rapporto tra Perseo e la Gorgone è complesso: non finisce con la decapitazione del mostro. Dal sangue della Medusa nasce un cavallo alato, Pegaso; la pesantezza della pietra può essere rovesciata nel suo contrario; con un colpo di zoccolo sul Monte Elicona, Pegaso fa scaturire la fonte da cui bevono le Muse. In alcune versioni del mito, sarà Perseo a cavalcare il meraviglioso Pegaso caro alle Muse, nato dal sangue maledetto di Medusa. (Anche i sandali alati, d’altronde, provenivano dal mondo dei mostri: Perseo li aveva avuti dalle sorelle di Medusa, le Graie dall’unico occhio). Quanto alla testa mozzata, Perseo non l’abbandona ma la porta con sé, nascosta in un sacco; quando i nemici stanno per sopraffarlo, basta che egli la mostri sollevandola per la chioma di serpenti, e quella spoglia sanguinosa diventa un’arma invincibile nella mano dell’eroe: un’arma che egli usa solo in casi estremi e solo contro chi merita il castigo di diventare la statua di se stesso. Qui certo il mito vuol dirmi qualcosa, qualcosa che è implicito nelle immagini e che non si può spiegare altrimenti. Perseo riesce a padroneggiare quel volto tremendo tenendolo nascosto, come prima l’aveva vinto guardandolo nello specchio. È sempre in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo, ma non in un rifiuto della realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato di vivere, una realtà che egli porta con sé, che assume come proprio fardello.
La letteratura diventa strumento di conoscenza della realtà, come esemplificato dalla citazione delle Metamorfosi di Ovidio, dove la leggerezza è il sintomo di un cercare nel caos della sostanza pulviscolare della realtà nuove forme e nuove relazioni tra le cose, riconoscendo in esse quel tessuto connettivo del mondo, quella molteplicità in cui tutto è in rete con tutto. I due personaggi mitici rivestono in quest’analisi ruoli opposti: mito e antimito, eroe e nemico, leggerezza e oppressione. Attraverso la descrizione fatta da Ovidio nelle Metamorfosi, Calvino attribuisce a Medusa il ruolo della Pesantezza. Questa creatura mitologica, la quale pietrificava chiunque ne incrociasse lo sguardo, diviene il simbolo più appropriato che Calvino potesse cercare per la Pesantezza. Ma allo stesso modo Perseo incarna la volontà umana di sopraffare la pesantezza. Il mito stesso dà ampio spazio alla descrizione della leggiadria di Perseo; basti pensare ai suoi sandali alati o al suo cavallo alato, Pegaso, che nasce proprio dalla pesantezza del sangue che scorre dallaGorgone morta. Il rapporto stesso tra Perseo e Medusa non si risolve con la semplice sconfitta del mostro. Anche dopo la recisione della testa, viene descritta la delicatezza e la cura con cui Perseo tratta ciò che rimane del nemico sconfitto. Lo scrittore, dunque deve essere un moderno Perseo, colui che sconfigge la Medusa antipoetica osservando il mondo attraverso la sua personale prospettiva e liberando l’umanità dal pericolo della pietrificazione.
Sul rapporto tra Perseo e la Medusa possiamo apprendere qualcosa di più leggendo Ovidio nelle Metamorfosi. Perseo ha vinto una nuova battaglia, ha massacrato a colpi di spada un mostro marino, ha liberato Andromeda. E ora si accinge a fare quello che ognuno di noi farebbe dopo un lavoraccio del genere: va a lavarsi le mani. In questi casi il suo problema è dove posare la testa di Medusa. E qui Ovidio ha dei versi (IV, 740–752) che mi paiono straordinari per spiegare quanta delicatezza d’animo sia necessaria per essere un Perseo, vincitore di mostri: “Perché la ruvida sabbia non sciupi la testa anguicrinita (anguiferumque caput dura ne laedat harena), egli rende soffice il terreno con uno strato di foglie, vi stende sopra dei ramoscelli nati sott’acqua e vi depone la testa di Medusa a faccia in giù”. Mi sembra che la leggerezza di cui Perseo è l’eroe non potrebbe essere meglio rappresentata che da questo gesto di rinfrescante gentilezza verso quell’essere mostruoso e tremendo ma anche in qualche modo deteriorabile, fragile. Ma la cosa più inaspettata è il miracolo che ne segue: i ramoscelli marini a contatto con la Medusa si trasformano in coralli, e le ninfe per adornarsi di coralli accorrono e avvicinano ramoscelli e alghe alla terribile testa. Anche questo incontro d’immagini, in cui la sottile grazia del corallo sfiora l’orrore feroce della Gorgone, è così carico di suggestioni che non vorrei sciuparlo tentando commenti o interpretazioni.
La summa di tutti questi esempi del passato corrisponde, in questo modo, a quel bagaglio di esperienze fatte che dovremo portarci nel nuovo millennio come nostro tesoro, ripreso anche da altri poeti contemporanei: in questa prospettiva assume significato la citazione di MOntale e di Kundera. Ecco, allora, come sia possibile riunire tutti i letterati del passato sotto un’unica idea di leggerezza da portare nel nuovo millennio.
Quel che posso fare è avvicinare a questi versi d’Ovidio quelli d’un poeta moderno, Piccolo testamento di Eugenio Montale, in cui troviamo pure elementi sottilissimi che sono come emblemi della sua poesia (“traccia madreperlacea di lumaca o smeriglio di vetro calpestato”) messi a confronto con uno spaventoso mostro infernale, un Lucifero dalle ali di bitume che cala sulle capitali dell’Occidente. Mai come in questa poesia scritta nel 1953, Montale ha evocato una visione così apocalittica, ma ciò che i suoi versi mettono in primo piano sono quelle minime tracce luminose che egli contrappone alla buia catastrofe (“Conservane la cipria nello specchietto quando spenta ogni lampada la sardana si farà infernale…”). Ma come possiamo sperare di salvarci in ciò che è più fragile? Questa poesia di Montale è una professione di fede nella persistenza di ciò che più sembra destinato a perire, e nei valori morali investiti nelle tracce più tenui: “il tenue bagliore strofinato laggiù non era quello d’un fiammifero”. Ecco che per riuscire a parlare della nostra epoca, ho dovuto fare un lungo giro, evocare la fragile Medusa di Ovidio e il bituminoso Lucifero di Montale.
Le citazioni di autori classici e contemporanei sono introdotte non per sfoggio di cultura, ma a titolo esemplificativo, dando un chiaro esempio di leggerezza dello stile e dell’argomentazione che Calvino vuole costruire.
La leggerezza indica, perciò. anche una dimensione letteraria non legata al quotidiano, limitata al presente, ma aperta al dialogo con gli uomini di tutte le epoche perché evita l’impegno, tanto di moda nella produzione intellettuale degli ultimi decenni (anni Sessanta e Settanta del Novecento).
È difficile per un romanziere rappresentare la sua idea di leggerezza, esemplificata sui casi della vita contemporanea, se non facendone l’oggetto irraggiungibile d’una quête senza fine. È quanto ha fatto con evidenza e immediatezza Milan Kundera. Il suo romanzo L’Insostenibile Leggerezza dell’Essere è in realtà un’amara constatazione dell’Ineluttabile Pesantezza del Vivere: non solo della condizione d’oppressione disperata e all-pervading che è toccata in sorte al suo sventurato paese, ma d’una condizione umana comune anche a noi, pur infinitamente più fortunati. Il peso del vivere per Kundera sta in ogni forma di costrizione: la fitta rete di costrizioni pubbliche e private che finisce per avvolgere ogni esistenza con nodi sempre più stretti. Il suo romanzo ci dimostra come nella vita tutto quello che scegliamo e apprezziamo come leggero non tarda a rivelare il proprio peso insostenibile. Forse solo la vivacità e la mobilità dell’intelligenza sfuggono a questa condanna: le qualità con cui è scritto il romanzo, che appartengono a un altro universo da quello del vivere. Nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica. Le immagini di leggerezza che io cerco non devono lasciarsi dissolvere come sogni dalla realtà del presente e del futuro… Nell’universo infinito della letteratura s’aprono sempre altre vie da esplorare, nuovissime o antichissime, stili e forme che possono cambiare la nostra immagine del mondo… Ma se la letteratura non basta ad assicurarmi che non sto solo inseguendo dei sogni, cerco nella scienza alimento per le mie visioni in cui ogni pesantezza viene dissolta… Oggi ogni ramo della scienza sembra ci voglia dimostrare che il mondo si regge su entità sottilissime: come i messaggi del Dna, gli impulsi dei neuroni, i quarks, i neutrini vaganti nello spazio dall’inizio dei tempi… Poi, l’informatica.
La materialità delle cose e l’impalpabile leggerezza del pensiero che in qualche modo le anima è ripresa dall’analogia rappresentata dalla diade hardware/software — che comprende entrambi, in un costante equilibrio orbitale che conferisce al sistema una dinamica reciprocitàLe virtù epifaniche delle Lezioni americane nei confronti dello scenario mediatico contemporaneo si rivelano più esplicitamente quando Calvino — negli anni in cui il personal computer aveva da poco fatto il suo ingresso nella cultura di massa — riconosce nell’attuale struttura del mondo dei media quel nuovo tipo di energia capace di agire, guidare, animare la pesantezza delle macchine: il software, in tutta la sua leggerezza. Alla rigidità macchinica, emblema della modernità, si contrappone così la fluidità del sentire postmoderno. L’interesse per il flusso di informazioni che circola sotto forma di bits e di impalpabili impulsi elettronici si rivela in realtà come il risultato dell’approccio calviniano orientato a scorgere in ogni ramo della scienza e della tecnologia nuove possibilità, nuovi strumenti, nuovi mezzi per mediare il mondo e costruirne un’immagine aderente ai mutuati bisogni contemporanei, in assonanza, o in omologia, con quanto avviene in campo artistico e letterario; a conferma del fatto che entrambi i campi schiudono nuovi «stili e forme che possono cambiare la nostra immagine del mondo»
È vero che il software non potrebbe esercitare i poteri della sua leggerezza se non mediante la pesantezza del hardware; ma è il software che comanda, che agisce sul mondo esterno e sulle macchine, le quali esistono solo in funzione del software, si evolvono in modo d’elaborare programmi sempre più complessi. La seconda rivoluzione industriale non si presenta come la prima con immagini schiaccianti quali presse di laminatoi o colate d’acciaio, ma come i bits d’un flusso d’informazione che corre sui circuiti sotto forma d’impulsi elettronici. Le macchine di ferro ci sono sempre, ma obbediscono ai bits senza peso.