La morte di Gesualdo

Mastro don Gesualdo, parte IV, cap. 5

Luca Pirola
12 min readOct 11, 2021
E. Munch, Vicino al letto di morte — Febbre, 1915

Nell’ultimo capitolo del Mastro-don Gesualdo il protagonista, trasferitosi a Palermo nel palazzo del genero e gravemente ammalato, trascorre i suoi ul- timi giorni in un mondo che non è il suo, in un totale isolamento e lontano dalle attività pratiche in cui ha speso tutta la vita. Il brano proposto presenta la parte finale del romanzo, occupata dapprima da un drammatico colloquio con la figlia Isabella, che sancisce definitivamente la loro incomunicabilità, quindi dall’agonia e morte del protagonista (il “villano” arricchito), circondato dall’indifferenza e dal disprezzo della servitù.

Un nuvolo gli calò sulla faccia e vi rimase. Una specie di rancore, qualcosa che gli faceva tremare le mani e la voce, e trapelava dagli occhi socchiusi. Fece segno al genero di fermarsi; lo chiamò dinanzi al letto, a quattr’occhi, da solo a solo.
- Finalmente… questo notaro… verrà, sì o no? Devo far testamento… Ho degli scrupoli di coscienza… Sissignore!… Sono il padrone, sì o no?… Ah… ah… stai ad ascoltare anche tu?…
Isabella andò a buttarsi ginocchioni ai piedi del letto, col viso fra le materasse, singhiozzando e disperandosi. Il genero lo chetava dall’altra parte. — Ma sì, ma sì, quando vorrete, come vorrete. Non c’è bisogno di far delle scene… Ecco in che stato avete messo la vostra figliuola!…
- Va bene! — seguitò a borbottare lui. — Va bene! Ho capito!
E volse le spalle, tal quale suo padre, buon’anima. Appena fu solo cominciò a muggire come un bue, col naso al muro. Ma poi se veniva gente, stava zitto. Covava dentro di sé il male e l’amarezza. Lasciava passare i giorni. Pensava ad allungarseli piuttosto, a guadagnare almeno quelli, uno dopo l’altro, così come venivano, pazienza! Finché c’è fiato c’è vita. A misura che il fiato gli andava mancando, a poco a poco, acconciavasi pure ai suoi guai; ci faceva il callo. Lui aveva le spalle grosse, e avrebbe tirato in lungo, mercé la sua pelle dura. Alle volte provava anche una certa soddisfazione, fra sé e sé, sotto il lenzuolo, pensando al viso che avrebbero fatto il signor duca e tutti quanti, al vedere che lui aveva la pelle dura. Era arrivato ad affezionarsi ai suoi malanni, li ascoltava, li accarezzava, voleva sentirseli lì, con lui, per tirare innanzi. I parenti ci avevano fatto il callo anch’essi; avevano saputo che quella malattia durava anni ed anni, e s’erano acchetati. Così va il mondo, pur troppo, che passato il primo bollore, ciascuno tira innanzi per la sua via e bada agli affari propri. Non si lamentava neppure; non diceva nulla, da villano malizioso, per non sprecare il fiato, per non lasciarsi sfuggire quel che non voleva dire; solamente gli scappavano di tanto in tanto delle occhiate che significavano assai, al veder la figliuola che gli veniva dinanzi con quella faccia desolata, e poi teneva il sacco al marito, e lo incarcerava lì, sotto i suoi occhi, col pretesto dell’affezione, per covarselo, pel timore che non gli giuocasse qualche tiro nel testamento. Indovinava che teneva degli altri guai nascosti, lei, e alle volte aveva la testa altrove, mentre suo padre stava colla morte sul capo. Si rodeva dentro, a misura che peggiorava; il sangue era diventato tutto un veleno; ostinavasi sempre più, taciturno, implacabile, col viso al muro, rispondendo solo coi grugniti, come una bestia.

Il primo segno che contraddistingue Mastro-Don Gesualdo è l’isolamento sia rispetto al ceto di appartenenza (che ha rinnegato con il suo tentativo di ascesa sociale) sia rispetto al mondo aristocratico nel quale ha cercato di inserirsi senza mai integrarsi. Tale isolamento si trasforma, nell’ambito familiare, in una completa incapacità di comunicare sia con la moglie sia con la figlia. Gesualdo non esce mai dalla solitudine, nemmeno in punto di morte; è sempre un escluso, un diverso sia rispetto ai servitori, sia rispetto alla figlia e al genero. La moglie, che Mastro-don Gesualdo ha sposato nel tentativo di elevarsi socialmente, ha accettato il matrimonio solo per interessi economici e di sistemazione, restando per tutta la vita di- stante e impenetrabile. La figlia a sua volta è stata sacrificata alla logica degli interessi economici perché, rimasta incinta di un cugino povero, è costretta ad accettare le nozze riparatrici con un nobile.

Finalmente si persuase ch’era giunta l’ora, e s’apparecchiò a morire da buon cristiano. Isabella era venuta subito a tenergli compagnia. Egli fece forza coi gomiti, e si rizzò a sedere sul letto. — Senti, — le disse, — ascolta…
Era turbato in viso, ma parlava calmo. Teneva gli occhi fissi sulla figliuola, e accennava col capo. Essa gli prese la mano e scoppiò a singhiozzare.
- Taci, — riprese, — finiscila. Se cominciamo così non si fa nulla.
Ansimava perchè aveva il fiato corto, ed anche per l’emozione. Guardava intorno, sospettoso, e seguitava ad accennare del capo, in silenzio, col respiro affannato. Ella pure volse verso l’uscio gli occhi pieni di lagrime. Don Gesualdo alzò la mano scarna, e trinciò una croce in aria, per significare ch’era finita, e perdonava a tutti, prima d’andarsene.
- Senti… Ho da parlarti… intanto che siamo soli…
Ella gli si buttò addosso, disperata, piangendo, singhiozzando di no, di no, colle mani erranti che l’accarezzavano.

I fatti sono presentati secondo i punti di vista dei diversi personaggi della vicenda, e molto spesso, prima che con le parole, attraverso i loro gesti e le loro attitudini. Isabella ad esempio nel colloquio con il padre pronuncerà una sola battuta, ma più spesso il narratore ce la presenta attraverso i gesti, estre- mamente eloquenti: «gli si buttò addosso, disperata, singhiozzando di no…»; «smaniava per la stanza, si cacciava le mani nei capelli…» ; «chinava il capo…».
In questo modo il narratore esterno ottiene il duplice scopo di conferire impersonalità alla narrazione (mettendo se stesso volutamente in ombra) e di caratterizzare in modo molto chiaro le figure dei personaggi, inducendo nel lettore la sensazione che la storia sia raccontata dagli stessi protagonisti.

L’accarezzò anche lui sui capelli, lentamente, senza dire una parola. Di lì a un po’ riprese:
- Ti dico di sì. Non sono un ragazzo… Non perdiamo tempo inutilmente. — Poi gli venne una tenerezza. — Ti dispiace, eh?… ti dispiace a te pure?…
La voce gli si era intenerita anch’essa, gli occhi, tristi, s’erano fatti più dolci, e qualcosa gli tremava sulle labbra. — Ti ho voluto bene… anch’io… quanto ho potuto… come ho potuto… Quando uno fa quello che può…

Nell’ultimo colloquio che il protagonista ha con la figlia egli manifesta con i suoi scrupoli di coscienza una dimensione affettiva che egli si è volutamente negato in nome della logica dell’accumulazione economica. Si delinea così un protagonista con dei tratti tragicamente moderni, caratteristici di un’umanità condizionata dal mito del denaro e della propria affermazione personale, che ha perso i legami con la propria cultura d’origine e i propri valori.
Il mondo simbolico del Mastro-don Gesualdo pare dunque orientato verso la rappresentazione di un universo umano desolato, caratterizzato dalla solitudine degli individui e da una condizione di inautenticità.

Allora l’attirò a sé lentamente, quasi esitando, guardandola fissa per vedere se voleva lei pure, e l’abbracciò stretta stretta, posando la guancia ispida su quei bei capelli fini.
- Non ti fo male, di’?… come quand’eri bambina?…
Gli vennero insieme delle altre cose sulle labbra, delle ondate di amarezza e di passione, quei sospetti odiosi che dei bricconi, nelle questioni d’interessi, avevano cercato di mettergli in capo. Si passò la mano sulla fronte, per ricacciarli indietro, e cambiò discorso.
- Parliamo dei nostri affari. Non ci perdiamo in chiacchiere, adesso…
Essa non voleva, smaniava per la stanza, si cacciava le mani nei capelli, diceva che gli lacerava il cuore, che gli pareva un malaugurio, quasi suo padre stesse per chiudere gli occhi.

Il secondo tema è quello dell’attaccamento alla roba: Mastro-don Gesualdo, l’eroe della roba, ha lottato instancabilmente per tutta la vita per accumularne sempre di più, in una specie di identificazione fisica con essa. Giunto al momento della morte, lo tormenta il pensiero che tutta la sua fortuna, nelle mani della figlia allevata aristocraticamente e del genero scialacquatore (che si è già distinto per aver dissipato la dote della moglie), si disperderà inesorabilmente.

- Ma no, parliamone! — insisteva lui. — Sono discorsi serii. Non ho tempo da perdere adesso. — Il viso gli si andava oscurando, il rancore antico gli corruscava negli occhi. — Allora vuol dire che non te ne importa nulla… come a tuo marito…
Vedendola poi rassegnata ad ascoltare, seduta a capo chino accanto al letto, cominciò a sfogarsi dei tanti crepacuori che gli avevano dati, lei e suo marito, con tutti quei debiti… Le raccomandava la sua roba, di proteggerla, di difenderla: — Piuttosto farti tagliare la mano, vedi!… quando tuo marito torna a proporti di firmare delle carte!… Lui non sa cosa vuol dire! — Spiegava quel che gli erano costati, quei poderi, l’Alìa, la Canziria, li passava tutti in rassegna amorosamente; rammentava come erano venuti a lui, uno dopo l’altro, a poco a poco, le terre seminative, i pascoli, le vigne; li descriveva minutamente, zolla per zolla, colle qualità buone o cattive. Gli tremava la voce, gli tremavano le mani, gli si accendeva tuttora il sangue in viso, gli spuntavano le lagrime agli occhi: — Mangalavite, sai… la conosci anche tu… ci sei stata con tua madre… Quaranta salme di terreni, tutti alberati!… ti rammenti… i belli aranci?… anche tua madre, poveretta, ci si rinfrescava la bocca, negli ultimi giorni!… 300 migliaia l’anno, ne davano! Circa 300 onze! E la Salonia… dei seminati d’oro… della terra che fa miracoli… benedetto sia tuo nonno che vi lasciò le ossa!…
Infine, per la tenerezza, si mise a piangere come un bambino.
- Basta, — disse poi. — Ho da dirti un’altra cosa… Senti…
La guardò fissamente negli occhi pieni di lagrime per vedere l’effetto che avrebbe fatto la sua volontà. Le fece segno di accostarsi ancora, di chinarsi su lui supino che esitava e cercava le parole.
- Senti!… Ho degli scrupoli di coscienza… Vorrei lasciare qualche legato a delle persone verso cui ho degli obblighi… Poca cosa… Non sarà molto per te che sei ricca… Farai conto di essere una regalìa che tuo padre ti domanda… in punto di morte… se ho fatto qualcosa anch’io per te…
- Ah, babbo, babbo!… che parole! — singhiozzò Isabella.
- Lo farai, eh? lo farai?… anche se tuo marito non volesse…

L’incomunicabilità fra Isabella e il protagonista, il quale invano cerca di stabilire un contatto con lei, rimanda al tema dell’estraneità. Due sono i motivi che impediscono questa intesa: innanzi tutto il motivo economico (Isabella e il marito temono che Gesualdo voglia fare testamento in favore dei due figli che ha avuto da Diodata; in secondo luogo la diversa estrazione sociale (Isabella è una Trao, una nobile, mentre Gesualdo è solo un villano).

Le prese le tempie fra le mani, e le sollevò il viso per leggerle negli occhi se l’avrebbe ubbidito, per farle intendere che gli premeva proprio, e che ci aveva quel segreto in cuore. E mentre la guardava, a quel modo, gli parve di scorgere anche lui quell’altro segreto, quell’altro cruccio nascosto, in fondo agli occhi della figliuola. E voleva dirle delle altre cose, voleva farle altre domande, in quel punto, aprirle il cuore come al confessore, e leggere nel suo. Ma ella chinava il capo, quasi avesse indovinato, colla ruga ostinata dei Trao fra le ciglia, tirandosi indietro, chiudendosi in sè, superba, coi suoi guai e il suo segreto. E lui allora sentì di tornare Motta, com’essa era Trao, diffidente, ostile, di un’altra pasta. Allentò le braccia, e non aggiunse altro.
- Ora fammi chiamare un prete, — terminò con un altro tono di voce. — Voglio fare i miei conti con Domeneddio.

Per ottenere l’effetto dell’impersonalità Verga si serve di tecniche differenti. Il brano si presenta in tutta la prima parte nella forma del dialogo, solo nell’ultima sequenza compare anche l’uso del discorso diretto libero.

Nella prima parte la narrazione è condotta dal punto di vista di Gesualdo, che osserva da estraneo la vita del palazzo nobiliare e che definisce «mangiapane» i servitori.
Nella sequenza finale il punto di vista, invece, è quello di don Leopoldo, il servitore che dovrebbe curare Gesualdo e che si disinteressa di lui, ma anche quello dell’autore, nonché quello degli altri servitori che si affollano davanti al cadavere solo per guardargli le mani

Durò ancora qualche altro giorno così, fra alternative di meglio e di peggio. Sembrava anzi che cominciasse a riaversi un poco, quando a un tratto, una notte, peggiorò rapidamente. Il servitore che gli avevano messo a dormire nella stanza accanto l’udì agitarsi e smaniare prima dell’alba. Ma siccome era avvezzo a quei capricci, si voltò dall’altra parte, fingendo di non udire. Infine, seccato da quella canzone che non finiva più, andò sonnacchioso a vedere che c’era.
- Mia figlia! — borbottò don Gesualdo con una voce che non sembrava più la sua. — Chiamatemi mia figlia!
- Ah, sissignore. Ora vado a chiamarla, — rispose il domestico, e tornò a coricarsi.
Ma non lo lasciava dormire quell’accidente! Un po’ erano sibili, e un po’ faceva peggio di un contrabbasso, nel russare. Appena il domestico chiudeva gli occhi udiva un rumore strano che lo faceva destare di soprassalto, dei guaiti rauchi, come uno che sbuffasse ed ansimasse, una specie di rantolo che dava noia e vi accapponava la pelle. Tanto che infine dovette tornare ad alzarsi, furibondo, masticando delle bestemmie e delle parolacce.
- Cos’è? Gli è venuto l’uzzolo adesso? Vuol passar mattana! Che cerca?
Don Gesualdo non rispondeva; continuava a sbuffare supino. Il servitore tolse il paralume, per vederlo in faccia. Allora si fregò bene gli occhi, e la voglia di tornare a dormire gli andò via a un tratto.
- Ohi! ohi! Che facciamo adesso? — balbettò grattandosi il capo.
Stette un momento a guardarlo così, col lume in mano, pensando se era meglio aspettare un po’, o scendere subito a svegliare la padrona e mettere la casa sottosopra. Don Gesualdo intanto andavasi calmando, col respiro più corto, preso da un tremito, facendo solo di tanto in tanto qualche boccaccia, cogli occhi sempre fissi e spalancati. A un tratto s’irrigidì e si chetò del tutto. La finestra cominciava a imbiancare. Suonavano le prime campane. Nella corte udivasi scalpitare dei cavalli, e picchiare di striglie sul selciato. Il domestico andò a vestirsi, e poi tornò a rassettare la camera. Tirò le cortine del letto, spalancò le vetrate, e s’affacciò a prendere una boccata d’aria, fumando.
Lo stalliere, che faceva passeggiare un cavallo malato, alzò il capo verso la finestra.
- Mattinata, eh, don Leopoldo?
- E nottata pure! — rispose il cameriere sbadigliando. — M’è toccato a me questo regalo!
L’altro scosse il capo, come a chiedere che c’era di nuovo, e don Leopoldo fece segno che il vecchio se n’era andato, grazie a Dio.
- Ah… così… alla chetichella?… — osservò il portinaio che strascicava la scopa e le ciabatte per l’androne.
Degli altri domestici s’erano affacciati intanto, e vollero andare a vedere. Di lì a un po’ la camera del morto si riempì di gente in manica di camicia e colla pipa in bocca. La guardarobiera vedendo tutti quegli uomini alla finestra dirimpetto venne anche lei a far capolino nella stanza accanto.
- Quanto onore, donna Carmelina! Entrate pure; non vi mangiamo mica… E neanche lui… non vi mette più le mani addosso di sicuro…
- Zitto, scomunicato!… No, ho paura, poveretto… — Ha cessato di penare.
- Ed io pure, — soggiunse don Leopoldo.

La descrizione della morte di Gesualdo dal punto di vista del servitore che dovrebbe accudirlo è particolarmente amara e dolorosa; essa è giocata sullo straniamento, artificio che serve a sottolineare la sconfitta di Gesualdo, che muore solo, tra persone estranee che lo ignorano. La sua morte rivela che nella roba non c’è salvezza, in qunato la logica della modernità e l’individualismo borghese mostrano qui la loro assurdità e insensatezza.

Così, nel crocchio, narrava le noie che gli aveva date quel cristiano — uno che faceva della notte giorno, e non si sapeva come pigliarlo, e non era contento mai. — Pazienza servire quelli che realmente son nati meglio di noi… Basta, dei morti non si parla.
- Si vede com’era nato… — osservò gravemente il cocchiere maggiore. — Guardate che mani!
- Già, son le mani che hanno fatto la pappa!… Vedete cos’è nascer fortunati… Intanto vi muore nella battista come un principe!…
- Allora, — disse il portinaio, — devo andare a chiudere il portone?
- Sicuro, eh! E’ roba di famiglia. Adesso bisogna avvertire la cameriera della signora duchessa.

Nella conclusione la focalizzazione passa sui servitori, qui Verga dimostra di maneggiare con abilità le tecniche linguistiche, infatti egli può utilizzare le parole e la sintassi di un determinato personaggio, alternando vari registri espressivi. Nel brano presentato questa varietà risulta particolarmente evi- dente proprio grazie alla differenza sociale dei personaggi che vi compaiono.

La fine solitaria di Gesualdo esprime il messaggio del romanzo: l’unica realtà possibile è caratterizzata da meccanismi competitivi e conflittuali, dalla logica utilitaristica ed economica che regola i comportamenti individuali e collettivi. Infatti l’opera è composta da ventuno capitoli suddivisi in quattro parti, delle quali le prime due (dodici capitoli) narrano l’ascesa e il trionfo di mastro-don Gesualdo; le altre due (nove capitoli) presentano un racconto simmetrico e opposto, che descrive la decadenza e la sconfitta finale del protagonista.

La narrazione della vita di Gesualdo è apparentemente basata sul mito dell’uomo che si fa da sé, ma solo per mostrarne l’insensatezza. Infatti ogni azione compiuta dal protagonista appare privata di senso dall’inutilità e dall’assurdità stessa del successo, che viene pagato con l’alienazione dell’uomo a se stesso. Così la corsa di Gesualdo verso la roba si risolve inevitabilmente in una corsa verso la morte.

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Luca Pirola
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Written by Luca Pirola

History and Italian literature teacher

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