La morte di Milton
Beppe Fenoglio, Una questione privata, cap. 13
É questo l’ultimo capitolo del romanzo di Beppe Fenoglio Una questione privata. Milton, il protagonista, rischia la vita per Una questione privata, infatti è diretto alla villa di Fulvia, ostinato nella sua indagine: vuole sapere se lei lo ha tradito con Giorgio, un suo amico partigiano catturato dai fascisti. Quando ormai è vicino, si trova di fronte un plotone di militi fascisti. Fugge disperatamente senza arrendersi alla morte, ma alla fine, forse, viene colpito. L’incompiutezza getta una luce ambigua sul destino di Milton: egli crolla a un passo dalla salvezza, ma la fine repentina della narrazione non chiarisce se questo crollo alluda alla sua morte o invece alla liberazione violenta da un incubo che rimane comunque irrisolto.
A quell’ora Milton era in marcia verso la villa di Fulvia sull’ultima collina prima di Alba. Aveva già fatto il piú della strada, si era già lasciato di molto alle spalle il cocuzzolo dal quale aveva avuto la prima vista della casa.
L’incipit del capitolo allude all’ora in cui Milton si reca da Fulvia per scoprire la verità definitiva sui rapporti tra la ragazza e Giorgio, contemporaneamente due staffette partigiane sono fucilate dai Repubblichini per vendicare il sergente ucciso da Milton stesso. La vicenda privata dell’amore di Milton si intreccia organicamente con la materia pubblica, viva e pulsante della Resistenza, in cui il protagonista è “immerso fino al collo”. Il romanzo racconta, tuttavia, una storia individuale che ruota solamente intorno a Milton, tanto che la storia della controparte femminile — Fulvia — vive soltanto nella sua memoria, così come la figura dell’amico/antagonista.
Gli era apparsa fantomatica, velata com’era dalle cortine della pioggia. Pioveva come non mai, a piombo, selvaggiamente. La strada era una pozzanghera senza fine nella quale egli guadava come in un torrente per lungo, i campi e la vegetazione stavano sfatti e proni, come violentati dalla pioggia. La pioggia assordava. Dal cocuzzolo si era buttato giú nella valletta senza frenarsi, anzi sollecitando le scivolate. Scivolò sul dorso un paio di volte, ognuna per dieci-dodici metri sul pendio gonfio e ondoso, tenendo con le due mani la pistola come un timone. Poi prese a risalire il poggetto in cima al quale gli si sarebbe riofferta la visione della casa di lei. Sgambando con tutta la forza, procedeva con un passetto da bambino. E intanto tossiva e gemeva. «Ma che ci vado a fare? Stanotte ero pazzo, certo deliravo per la febbre. Non c’è nulla da chiarire, da approfondire, da salvare. Non ci sono dubbi. Le parole della donna, una per una, e il loro senso, il loro unico senso…»
Milton ripensa alla decisione presa nella notte insonne trascorsa in una stalla con altri partigiani, dopo aver ricordato le parole della custode della villa di Fulvia: tornare alla villa per riparlare con la donna, temendo di non aver capito bene quanto ella gli ha riferito su Fulvia e Giorgio. Fenoglio utilizza il discorso indiretto libero per tradurre in modo serio e controllato i pensieri del protagonista.
Arrivò in cima e prima di allungare lo sguardo si scartò dalla fronte i capelli che la pioggia alternativamente incollava e scuoteva. Ecco la villa, alta sulla sua collina, a un duecento metri in linea d’aria.
Certo le fitte cortine di pioggia concorrevano a sfigurarla, ma egli la vide decisamente brutta, gravemente deteriorata e corrotta, quasi fosse decaduta di un secolo in quattro giorni. I muri erano grigiastri, i tetti ammuffiti, la vegetazione all’intorno marcia e sconquassata.
«Ci vado, ci vado ugualmente. Non saprei proprio che altro fare e non posso stare senza far niente. Manderò in città il ragazzo del contadino, per sapere di lui. Gli darò… gli darò le dieci lire che dovrebbero restarmi in tasca».
Si avventò giú per il pendio, perdendo immediatamente la vista della villa, e arrivò in scivolata sulla riva del torrente, a valle del ponte. L’acqua sommergeva di un palmo i massi collocati per il guado. Passò da un pietrone all’altro con l’acqua gelida e grassa alle caviglie. Poi imboccò la stradina percorsa al ritorno davanti a Ivan, quattro giorni prima. Al piano, camminò con furore, rispondendo al furore della pioggia. «In che stato sono. Sono fatto di fango, dentro e fuori. Mia madre non mi riconoscerebbe. Fulvia, non dovevi farmi questo. Specie pensando a ciò che mi stava davanti. Ma tu non potevi sapere che cosa stava davanti a me, ed anche a lui e a tutti i ragazzi. Tu non devi saper niente, solo che io ti amo. Io invece debbo sapere, solo se io ho la tua anima. Ti sto pensando, anche ora, anche in queste condizioni sto pensando a te. Lo sai che se cesso di pensarti, tu muori, istantaneamente? Ma non temere, io non cesserò mai di pensarti». Saliva al penultimo ciglione, a occhi serrati e piegato in due. […]
Lui arrivò al culmine e subito lanciò gli occhi in alto alla villa, senza fermarsi, quasi inciampando nella prima discesa. Nel riequilibrarsi livellò gli occhi e si vide dinnanzi i soldati. Si arrestò netto in mezzo alla stradina, con le due mani premute sul ventre.
Termina qui la prima parte del testo, nella quale Milton si dirige verso la villa di Fulvia; questo punto segna una svolta per il protagonista, che si vide dinnanzi i soldati. Inizia da qui la parte più intensa del brano: Milton, scoperto dai fascisti, fugge divenendo un bersaglio dei loro colpi.
Erano una cinquantina, sparsi per i campi, in tutte le direzioni, uno solo sulla strada, non tutti con l’arma pronta, tutti in mimetico ammollato, la pioggia si polverizzava sui loro elmetti splendenti. Il meno lontano era quello sulla strada, a trenta metri da lui, teneva il moschetto fra spalla e braccio, come se lo ninnasse.
Nessuno si era ancora accorto di lui, parevano tutti, lui compreso, in trance.
Con una zecca del pollice sbottonò la fondina, ma non estrasse la pistola. Nell’istante in cui il soldato piú vicino dirigeva su di lui gli occhi frastornati dall’acqua, Milton ruotò seccamente all’indietro. Non gli arrivò l’urlo dell’allarme, solo un rantolo di stupore.
Camminava verso il culmine con passi lunghi e indifferenti, mentre il cuore gli batteva in tanti posti e tutti assurdi e sentiva la schiena allargarglisi, fino a debordare dalla strada. «Sono morto. Mi prendesse alla nuca. Ma quando arriva?»
«Arrenditi!»
Gli si ghiacciò il ventre e gli mancò netto il ginocchio sinistro, ma si raccolse e scattò verso il ciglio. Già sparavano, di moschetto e di mitra, a Milton pareva non di correre sulla terra, ma di pedalare sul vento delle pallottole. «Nella testa, nella testa!» urlava dentro di sé e in tuffo sorvolò il ciglione e atterrò sul pendio, mentre un’infinità di pallottole spazzavano il culmine e tranciavano la sua aria.Fece una lunghissima scivolata, fendendo il fango con la testa protesa, gli occhi sbarrati e ciechi, sfiorando massi emergenti e cespi di spine. Ma non aveva sensazione di ferite e di sangue spicciante, oppure il fango richiudeva, plastificava tutto. Si rialzò e corse, ma troppo lento e pesante, senza il coraggio di sbirciare all’indietro, per non vederli ormai sul ciglione, allineati come al banco di un tirasegno. Correva goffamente tra un argine e il torrente, e a un certo punto pensò di fermarsi, visto che tanto non gli riusciva di prender velocità. Sempre aspettando la scarica. «Non nelle gambe, non nella spina!» Continuò a correre verso il tratto piú alberato del torrente. Quando li intravvide sull’arginello, probabilmente un’altra pattuglia, seminascosti dietro le gaggie sgrondanti, a un cinquanta passi da lui. Non l’avevano ancora individuato, lui era come uno spettro fangoso, ma ecco che ora urlavano e spianavano le armi.
«Arrenditi!»
La centralità della vicenda individuale di Milton si traduce sul piano stilistico poiché, se la rappresentazione degli eventi è di tipo realistico, la realtà è però filtrata, pur nell’oggettività dello stile, attraverso il punto di vista interno del protagonista, che la deforma in una visione allucinata e ossessiva. Gli elementi naturali e gli oggetti sembrano animarsi: la pioggia che sferza ha carattere minaccioso, violento, tanto da somigliare al piombo delle pallottole (Piove come non mai, a piombo, selvaggiamente); il fango avvolge e plastifica le cose, e impedisce la corsa.
Aveva già frenato e rinculato. Puntò dritto al ponte e dopo tre passi si avvitò su se stesso e rotolò via. Sparavano da due lati, dal ciglione e dall’arginello, urlando a lui e a se stessi, eccitandosi, indirizzandosi, rimproverandosi, incoraggiandosi. Milton era di nuovo in piedi, rotolando aveva urtato contro una gobba del terreno. Dietro, davanti e intorno a lui la terra si squarciava e ribolliva, lanci di fango svincolati dalle pallottole gli si avvinghiavano alle caviglie, di fronte a lui gli arbusti della riva saltavano con crepiti secchi.
Ripuntò al ponticello minato. Era una morte identica a quell’altra, ma agli ultimi passi il suo corpo pianse e si rifiutò di saltare in aria a brandelli. […]
L’elevata drammaticità dell’episodio è ottenuta grazie all’attenzione a rendere i pensieri del protagonista, quasi certo della sua prossima morte, al punto da essere tentato di farsi saltare in aria passando su un ponte minato. La sua razionalità gli dice che non potrà uscire vivo dall’inseguimento e che la morte sarebbe preferibile alla prospettiva di cadere prigioniero dei suoi inseguitori.
L’autore evita ogni cedimento al patetico, benché l’episodio abbia un carattere fortemente tragico. I pensieri e le emozioni del protagonista sono tradotti in stati fisici, concreti. Si tratta di un procedimento tipico in Fenoglio, che scrive che il corpo di Milton pianse e si rifiutò di saltare in aria a brandelli.
Correva, sempre piú veloce, piú sciolto, col cuore che bussava, ma dall’esterno verso l’interno, come se smaniasse di riconquistare la sua sede. Correva come non aveva mai corso, come nessuno aveva mai corso, e le creste delle colline dirimpetto, annerite e sbavate dal diluvio, balenavano come vivo acciaio ai suoi occhi sgranati e semiciechi. Correva, e gli spari e gli urli scemavano, annegavano in un immenso, invalicabile stagno fra lui e i nemici.
La disperazione di Milton raggiunge l’apice quando, privo della sua pistola, egli cerca di togliersi la vita; ma a questa tensione massima segue la distensione: il giovane continua a correre e non fa più accenno al fatto che anche la pioggia di proiettili che si è abbattuta su di lui prosegue.
Correva ancora, ma senza contatto con la terra, corpo, movimenti, respiro, fatica vanificati. Poi, mentre ancora correva, in posti nuovi o irriconoscibili dalla sua vista svanita, la mente riprese a funzionargli. Ma i pensieri venivano dal di fuori, lo colpivano in fronte come ciottoli scagliati da una fionda. «Sono vivo. Fulvia. Sono solo. Fulvia, a momenti mi ammazzi!» […]
Anche l’immagine dei pensieri che venivano dal di fuori, lo colpivano in fronte come ciottoli scagliati da una fionda ha un rilevante carattere visivo e intensamente fisico, perciò insieme alle altre aiuta a rendere con forza e senza retorica gli stati d’animo del soggetto.
Correva, con gli occhi sgranati, vedendo pochissimo della terra e nulla del cielo. Era perfettamente conscio della solitudine, del silenzio, della pace, ma ancora correva, facilmente, irresistibilmente. Poi gli si parò davanti un bosco e Milton vi puntò dritto. Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro crollò.
La corsa si fa via via più incalzante e rapida, scandita dal ritmo concitato del verbo correva — e dei verbi di movimento in generale — fino all’improvviso spegnersi di questo impeto nel finale e definitivo crollò.
L’anafora di Correva nei successivi capoversi permette di far assumere una connotazione filmica a tutta l’azione della fuga: la scena finale è descritta attraverso una ripresa “a campo lungo”, che inquadra Milton dall’alto mentre corre verso il bosco e poi cade.
La scena della corsa, incredibilmente lunga, crea l’effetto suspence: la fuga del protagonista si protrae al di là di ogni attesa, provocando un angoscioso accumulo di tensione. Il romanzo ha un finale aperto, che sembra alludere solamente alla possibilità che Milton sia stato colpito. Il crollò finale è volutamente ambiguo, non chiarisce la sorte del partigiano, ma in fondo non si tratta di un dato determinante: l’essenziale è che la corsa si è conclusa e la ricerca della verità sui rapporti tra Fulvia e Giorgio, motore delle sue azioni nel romanzo, lo ha riportato al punto di partenza, senza una risposta.
La conclusione del romanzo ha un tono elevato e tragico. Milton è caratterizzato da un impeto di passionalità incredibile, in quanto desidera con tutto se stesso di sapere la verità su Fulvia e Giorgio. Prova fino in fondo a salvarsi dalla morte. Senza scampo continua a fuggire dai nemici, rivelando un caparbio istinto di sopravvivenza. Dice di attendere un colpo alla testa ma, in realtà spera ancora di salvarsi: incalzato dai fascisti Correva come non aveva mai corso, come nessuno aveva mai corso. Milton è un eroe: fenoglio si qualifica così come l’unico scrittore della resistenza capace di rappresentare eroi davvero positivi. Calvino ha osservato che Milton somiglia ai cavalieri ariosteschi: valorosi combattenti che abbandonano il campo di battaglia per inseguire il fantasma di un incerto amore, simbolo di una ricerca metafisica di senso che non può mai approdare a una risposta definitiva.