La narrazione per sfuggire alla distruzione
Italo Calvino, Le città invisibili
Verso gli anni Settanta la narrativa di Calvino di indirizza verso la letteratura combinatoria, un metodo che tenta di contenere la molteplicità del reale. Ne Le città invisibili tesse una “rete dei possibili e degli impossibili — sogno, visione, utopia, immaginazione, che gioco combinatorio ma anche trama del mondo” (Marco Belpoliti).
Calvino pone il tema della dualità inconciliabile tra forme di accesso alla conoscenza: quella che si fonda sulla visione della mappa — l’atlante di Kublai Kan — , come dall’alto, e che consente una visione complessiva ma non raggiunge il dettaglio; e quella che osserva da vicino ogni singolo dettaglio, ma non può avere la comprensione dell’insieme (la descrizione delle città).
La struttura delle città invisibile ricostruisce la geografia di un immaginario paese in cui le Città invisibili si trovano; geografia che può essere ricostruita dalle 55 descrizioni di città, distribuite in 11 serie, ognuna delle quali comprende 5 città e ritorna in ognuno dei 9 capitoli. Ogni capitolo è precedutoe seguito dai dialoghi tra Kublai Kan e Marco Polo, che hanno carattere riflessivo. Lo spazio del libro è assimilabile a una scacchiera, perché se si sommano le 55 descrizioni e i 9 capitoli si ottiene 64, il numero delle caselle del gioco degli scacchi, oggetto simbolico di riferimento dei colloqui tra i due personaggi.
Si propongono qui l’incipit del libro, la descrizione di una delle città nascoste e il dialogo finale.
I due dialoghi con cui si apre e si chiude il confronto tra Marco Polo e Kublai Kan si incentrano sui temi cardinali della narrazione come antidoto al caos del mondo e alla molteplicità dell’esistente, persino nelle sue possibilità utopiche. La narrazione di Marco Polo (e di Calvino) appare come un tentativo di rintracciare “la filigrana sottile d’un disegno sottile” in mezzo ai crolli di un mondo in sfacelo. Si svela qui la funzione primaria che l’autore attribuisce alla letteratura: essere l’unico argine possibile di fronte al caos.
Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo quando gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie, ma certo l’imperatore dei tartari continua ad ascoltare il giovane veneziano con più curiosità e attenzione che ogni altro suo messo o esploratore. Nella vita degli imperatori c’è un momento, che segue all’orgoglio per l’ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato, alla malinconia e al sollievo di sapere che presto rinunceremo a conoscerli e a comprenderli; un senso come di vuoto che ci prende una sera con l’odore degli elefanti dopo la pioggia e della cenere di sandalo che si raffredda nei bracieri. È il momento disperato in cui si scopre che quest’impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma, che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo, che il trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi della loro lunga rovina. Solo nei resoconti di Marco Polo, Kublai Kan riusciva a discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana d’un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti. […]
L’impero del kan rappresenta un tentativo di opporsi alla dissoluzione minacciata dall’avanzare del caos; tuttavia non ci si può illudere che tale tentativo abbia successo, perché non c’è nulla di certo. Lo stesso kan dubita delle veridicità della narrazione di Marco Polo (Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo). In effetti la perplessità è confermata perché le città descritte, sia quelle reali, sia quelle immaginarie hanno una realtà solo presunta, inconoscibile, come la città nascosta di Berenice. Berenice appartiene alla serie delle città nascoste, che aprono una prospettiva sulle potenzialità celate in ogni luogo, quindi sulla trasformazione della realtà.
Le città nascoste. 3. 19
Anziché dirti di Berenice, città ingiusta dei suoi macchinari tritacarne dovrei parlarti ella Berenice nascosta, la città dei giusti, armeggianti con materiali di fortuna nell’ombra di retrobotteghe e sottoscale; anziché rappresentarti le vasche profumate delle terme sdraiati sul cui bordo gli ingiusti di Berenice intessono con rotonda eloquenza i loro intrighi e osservano con occhio proprietario le rotonde carni delle odalische che si bagnano, dovrei dirti di come i giusti, sempre guardinghi per sottrarsi alle spiate si riconoscano dal modo di parlare, dai costumi che serbano austeri e innocenti; dalla cucina sobria ma saporita, che rievoca un’antica età dell’oro: minestrone di riso e sedano, fave bollite, fiori di zucchino fritti.
Da questi dati è possibile dedurre un’immagine della Berenice futura. Sempre che tu tenga conto di ciò che sto per dirti: nel seme della città dei giusti sta nascosta a sua volta una semenza maligna; la certezza e l’orgoglio d’essere nel giusto fermentano in rancori rivalità ripicchi, e il naturale desiderio di rivalsa sugli ingiusti si tinge della smania d’essere al loro posto a far lo stesso di loro. Un’altra città ingiusta, pur sempre diversa dalla prima, sta dunque scavando il suo spazio dentro il doppio involucro delle Berenici ingiusta e giusta. Detto questo, devo attrarre la tua attenzione su una qualità intrinseca di questa città ingiusta che germoglia in segreto nella segreta città giusta: ed è il possibile risveglio — come un concitato aprirsi di finestre — d’un latente amore per il giusto, capace di ricomporre una città più giusta ancora di quanto non fosse prima di diventare recipiente dell’ingiustizia.
La descrizione della città tocca la questione del rapporto fra la città dei giusti e la città degli ingiusti. Calvino la dipinge così: c’è un annidamento progressivo della città dei giusti in quella degli ingiusti, ma nella città annidata (che è quella dei giusti), si annida a sua volta un germe d’ingiustizia, dentro il quale (la città degli ingiusti) a sua volta si annida un germe di giustizia e così via, in una fuga infinita di specchi. Sembra un’immagine modellata sulla teoria matematica della ricorsione.
Ma se si scruta ancora nell’interno di questo nuovo germe del giusto vi si scopre una macchiolina che si dilata come la crescente inclinazione a imporre ciò che è giusto attraverso ciò che è ingiusto, e forse è il germe d’un’immensa metropoli…
La vera Berenice è una successione nel tempo di città diverse, alternativamente giuste e ingiuste.
Tutte le Berenici future sono già presenti in questo istante, avvolte l’una dentro l’altra, strette pigiate indistricabili.
La città utopica è costruita dai frammenti di tutte le città possibili, ma è discontinua, conserva le differenze al di là del tempo e dello spazio. Ad ogni descrizione di associa una conclusione possibile, segno della molteplicità del reale: se dentro la Berenice giusta si insinua un germe di ingiustizia, la nuova Berenice ingiusta nasconderà nuovamente in sé una Berenice giusta.
Il groviglio rappresentato dalla città rappresenta un contrasto che avviene nel tempo (la fuga delle Berenici) e insieme uno stato stazionario (la città che Marco rivela infine al Gran Kan). La figura della metropoli non è che il ponte gettato fra queste due visioni opposte. La descrizione antitetica tra imobilismo e dinamicità si svolge in tre fasi:
1) una città si capovolge nel suo contrario e viceversa, in un processo piatto e infinitamente uguale a se stesso;
2) se questo processo non continuasse sempre uguale, ma desse origine a una immensa metropoli, tutti i processi di capovolgimento nell’opposto sarebbero attivi in essa;
3) infatti Berenice in realtà è un punto senza tempo in cui nulla si può sviluppare e tutto è compresente
L’atlante del Gran Kan contiene anche le carte delle terre promesse visitate nel pensiero ma non ancora scoperte o fondate: la Nuova Atlantide, Utopia, la Città del Sole, Tamoè, Armonia, Icaria.
Chiese a Marco Kublai: — Tu che esplori intorno e vedi i segni, saprai dirmi verso quale di questi futuri ci spingono i venti propizi.- Per questi porti non saprei tracciare la rotta sulla carta né fissare la data dell’approdo. Alle volte mi basta uno scorcio che s’apre nel bel mezzo d’un paesaggio incongruo, un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s’incontrano nel viavai, per pensare che partendo di lì metterò assieme pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, d’istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie. Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla. Forse mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero; puoi rintracciarla, ma a quel modo che t’ho detto.
Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte delle città che minacciano negli íncubi e nelle maledizioni: Enoch, Babilonia, Yahoo, Butua, Brave New World.
Le città citate corrispondono a città utopiche (la prima lista all’inizio dell’intervento del kan) e distopiche.
Nell’atlante — mappa delineato dai racconti di Marco Polo si procede verso una crescente astrattezza: alle città reali del qui e ora si affiancano le città esistenti in luoghi lontani, le città reali e possibili che non esistono, fino alle città impossibili, che esistono solo nell’immaginazione degli uomini.
Dice: — Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente.
E Polo: — L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
Calvino suggerisce nel finale che le città dell’utopia o della distopia sono gli orizzonti verso cui l’uomo può tendere a seconda delle forze che sarà in grado di far prevalere: sta all’uomo la responsabilità della scelta ovvero di riordinare i frammenti di realtà mescolati dal caos per mettere assieme la città perfetta.