La Natura nel Romanticismo
Il viaggio del diacono Martino nell’Adelchi
Le tragedie del Manzoni
I drammi costituiscono una tappa del percorso poetico di Manzoni verso l’obiettivo de “il Santo Vero mai non tradir”. Le due tragedie ( Il conte di Carmagnola, composta nel 1819, e l’Adelchi del 1822) sono un tentativo di rappresentazione della Storia e delle passioni umane secondo l’intendimento poi esposto nella lettera a Mr Chauvet. In esse Manzoni attua il proposito di rifiutare la narrazione delle vicende di eroi dalla passioni titaniche, tipici della tragedia classica fino all’Alfieri, per scegliere il racconto di situazioni storiche concrete. La struttura della tragedia non segue le unità classiche, perché secondo Manzoni falsano il vero storico e psicologico, in quanto esagerano le passioni, coinvolgendo in modo esagerato il pubblico; inoltre le regole classiche di composizione avevano un senso nel passato, quanto rispondevano alle necessità della tragedia greca. Della classicità Manzoni mantiene due elementi: il coro e la catastrofe. Nella tragedia greca il coro serviva a narrare eventi avvenuti lontano dalla scena, ma necessari per comprendere l’evoluzione del racconto; Manzoni ne cambia completamente il significato, infatti il coro si presenta come lo spazio in cui l’autore può esprimere le sue idee senza “la tentazione di introdursi nell’azione”. La catastrofe rappresenta la conclusione della vicenda, evento tragico verso cui tutto tende e che dà significato alla traversie dei personaggi
Adelchi: trama, idee e struttura
La tragedia narra il crollo del regno longobardo ad opera dei Franchi. La guerra tra Franchi e Longobardi permette a manzoni di evidenziare come il conflitto tra eserciti stranieri opprima le popolazioni italiche innocenti. Inoltre tra i dominatori si riconoscono due schiere: coloro che seguono la logica del potere, destinati alla dannazione, e coloro che saranno salvati per la “provvida sventura” (espresso nel coro dell’atto V, “Sparsa le trecce morbide”, che descrive la morte di Ermengarda), dunque Adelchi ed Ermengarda, figli del re longobardo Desiderio, soffrendo per le loro disgrazie, otterranno la Salvezza eterna. In particolare Adelchi è combattuto tra la condanna cristiana della violenza e il dovere di figlio che lo obbliga a combattere.
Il messaggio politico della tragedia è enunciato dal coro dell’atto III “Dagli atri muscosi, dai fori cadenti” dove Manzoni si esprime l’esortazione agli Italiani a combattere per la propria libertà, senza affidarsi ad aiuti stranieri.
Adelchi (atto II, scena III, vv. 162–258; scena IV, vv. 284–315) analisi del testo
L’esercito di Carlo è bloccato al passo delle Chiuse, in Val di Susa, difeso dai Longobardi. Arriva al campo dei Franchi il diacono Martino, inviato dal vescovo di Ravenna: egli comunica al re il timore del pontefice Adriano I che i Longobardi possano raggiungere la città di Roma e racconta di aver trovato un passaggio attraverso i monti per aggirare le difese dei Longobardi e prenderli alle spalle. Il sovrano allora riacquista fiducia.
Forma metrica: endecasillabi sciolti.
Martino
[…] Pensai
che dall’aspetto salvator di Carlo
un breve tratto mi partia: risolsi
la via cercarne, e la rinvenni.
Carlo
E come?
nota a te fu? come al nemico ascosa?
Martino
Dio gli accecò, Dio mi guidò. Dal campo
inosservato uscii; l’orme ripresi
poco innanzi calcate; indi alla manca
piegai verso aquilone, e abbandonando
i battuti sentieri, in un’angusta
oscura valle m’internai: ma quanto
più il passo procedea, tanto allo sguardo
più spaziosa ella si fea. Qui scorsi
gregge erranti e tuguri: era codesta
l’ultima stanza de’ mortali. Entrai
presso un pastor, chiesi l’ospizio, e sovra
lanose pelli riposai la notte.
Sorto all’aurora, al buon pastor la via
addimandai di Francia. — Oltre quei monti
sono altri monti, ei disse, ed altri ancora;
e lontano lontan Francia; ma via
non avvi; e mille son que’ monti, e tutti
erti, nudi, tremendi, inabitati,
se non da spirti, ed uom mortal giammai
non li varcò. — Le vie di Dio son molte,
più assai di quelle del mortal, risposi;
e Dio mi manda. — E Dio ti scorga, ei disse:
La natura fa da sfondo al personaggio che rappresenta la fede disinteressata, il puro di cuore. Essa è romanticamente descritta come stato d’animo, secondo il punto di vista del diacono Martino, il quale la percepisce religiosamente, come espressione della potenza divina, misteriosa e misericordiosa a un tempo (il viaggio, tutto in salita, comunica un’idea di purificazione e di elevazione spirituale).
L’antitesi è la caratteristica dominante del monologo del diacono Martino, che si apre ripetendo con un’anafora il nome di Dio (Dio gli accecò vs Dio mi guidò). Alla descrizione di un paesaggio lontano, sconfinato, suggestivo e fiabesco (la capanna, il pastore, la sua ospitalità, le greggi) si contrappone nei versi centrali la natura delineata nella sua asprezza montana, cui subentra il paesaggio ridente, portatore di messaggi positivi. Infine, la gioia del diacono giunto in prossimità dell’accam- pamento dei franchi è resa ancora mediante un’antitesi (Non eran… non era… ma veramente) rafforzata dalla climax (un rumor… un indistinto suon… un agitarsi)
Il paesaggio fiabesco della prima parte della descrizione è caratterizzato da frequenti ripetizioni (quei monti… altri monti… ed altri), da stilemi fiabeschi (lontano lontan), da un aggettivazione forte ed elementare (erti, nudi, tremendi, inabitati è una climax), dall’allusione a fantastiche creature (spiriti)
indi, tra i pani che teneva in serbo,
tanti pigliò di quanti un pellegrino
puote andar carco; e, in rude sacco avvolti,
ne gravò le mie spalle: il guiderdone
io gli pregai dal cielo, e in via mi posi.
Giunsi in capo alla valle, un giogo ascesi,
e in Dio fidando, lo varcai. Qui nulla
Il diacono Martino è lo strumento della volontà divina che consente a Carlo di portare aiuto alla Chiesa. Questo motivo dominante si sviluppa attraverso il filo conduttore della parola chiave «Dio»: Dio mi guidò (v. 167), Dio mi manda (v. 188), in Dio fidando (v. 195). La giustizia divina interviene nella storia degli uomini per punire gli oppressori — i Longobardi non vedono il passaggio, come accecati da Dio (Dio gli accecò) — e per premiare i Franchi difensori degli oppressi: le tende del loro accampamento assimilate a quelle degli ebrei diventano il simbolo del popolo eletto e giusto.
traccia d’uomo apparia; solo foreste
d’intatti abeti, ignoti fiumi, e valli
senza sentier: tutto tacea; null’altro
che i miei passi io sentiva, e ad ora ad ora
lo scrosciar dei torrenti, o l’improvviso
stridir del falco, o l’aquila, dall’erto
nido spiccata sul mattin, rombando
passar sovra il mio capo, o, sul meriggio,
tocchi dal sole, crepitar del pino
silvestre i coni. Andai così tre giorni;
e sotto l’alte piante, o ne’ burroni
posai tre notti. Era mia guida il sole;
io sorgeva con esso, e il suo viaggio
seguia, rivolto al suo tramonto. Incerto
La Natura diventa aspra quando Martino prosegue verso le vette: predominano la solitudine (nulla / traccia d’uomo apparìa) e il silenzio (tutto tacea); le uniche presenze sono di animali selvaggi e rapaci (falco, aquila). La Natura è inviolata e inaccessibile all’uomo (intatti abeti, ignoti fiumi e valli / senza sentier)
pur del cammino io gìa, di valle in valle
trapassando mai sempre; o se talvolta
d’accessibil pendio sorgermi innanzi
vedeva un giogo, e n’attingea la cima,
altre più eccelse cime, innanzi, intorno
sovrastavanmi ancora; altre, di neve
da sommo ad imo biancheggianti, e quasi
ripidi, acuti padiglioni, al suolo
confitti; altre ferrigne, erette a guisa
di mura, insuperabili. — Cadeva
il terzo sol quando un gran monte io scersi,
che sovra gli altri ergea la fronte, ed era
tutto una verde china, e la sua vetta
coronata di piante. A quella parte
Martino, infine, vede la meta, ha superato le asperità delle vette e riprende la speranza di una felice conclusione del suo viaggio. Il paesaggio, quindi diventa ridente; la Natura non è più aspra e inospitale, diventa verdeggiante (verde china… coronata di piante) presagio di felice conclusione (Una ridente / speranza). I rumori (un rumor di viventi… un agitarsi d’uomini immenso) annunciano un ritorno alla civiltà che fa affrettare il passo al diacono per giungere all’accampamento dei Franchi è come quello del popolo d’Israele scelto dalla mano di Dio per una missione provvidenziale (le tende d’Israello). Infatti Martino, una volta giunto agli accampamenti dei franchi, esprime la sua gioia con una citazione biblica: le tende di Israele, i sospirati accampamenti di Giacobbe
tosto il passo io rivolsi. — Era la costa
oriental di questo monte istesso,
a cui, di contro al sol cadente, il tuo
campo s’appoggia, o sire. — In su le falde
mi colsero le tenebre: le secche
lubriche spoglie degli abeti, ond’era
il suol gremito, mi fur letto, e sponda
gli antichissimi tronchi. Una ridente
speranza, all’alba, risvegliommi; e pieno
di novello vigor la costa ascesi.
Appena il sommo ne toccai, l’orecchio
mi percosse un ronzio che di lontano
parea venir, cupo, incessante; io stetti,
ed immoto ascoltai. Non eran l’acque
rotte fra i sassi in giù; non era il vento
che investia le foreste, e, sibilando
d’una in altra scorrea, ma veramente
un rumor di viventi, un indistinto
suon di favelle e d’opre e di pedate
brulicanti da lungi, un agitarsi
d’uomini immenso. Il cor balzommi; e il passo
accelerai. Su questa, o re, che a noi
sembra di qui lunga ed acuta cima
fendere il ciel, quasi affilata scure,
giace un’ampia pianura, e d’erbe è folta
non mai calcate in pria. Presi di quella
il più breve tragitto: ad ogni istante
si fea il rumor più presso: divorai
l’estrema via; giunsi sull’orlo: il guardo
lanciai giù nella valle, e vidi… oh! vidi
le tende d’Israello, i sospirati
padiglion di Giacobbe: al suol prostrato,
Dio ringraziai, li benedissi, e scesi.
Carlo
Empio colui, che non vorrà la destra
qui riconoscer dell’Eccelso!
[…]
Carlo Magno è una figura ricca di luci e ombre: è il campione della fede ma agisce per interessi politici; la sua azione non è disinteressata, mira ad affermare la propria potenza, anche se riscattata all’interno di un disegno provvidenziale. Egli ripudia la moglie Ermengarda e sposa Ildegarde; posto dinanzi ai sensi di colpa, adduce motivi di realismo politico, trova giustificazioni nella ragion di Stato: la via del potere è necessariamente seminata di vittime, perché il potere non può tenere conto dei sentimenti individuali e quindi della sofferenza di Ermengarda, che egli condanna a morire di dolore.
In definitiva, Manzoni considera l’impresa del re dei franchi come un atto voluto dalla Provvidenza per salvare la civiltà cristiana, ma ridimensiona la figura di Carlo Magno rispetto a quella tramandata dall’epopea medioevale della Canzone di Orlando. Carlo è portavoce della ragion di Stato e la politica è la prima fonte del male: vittorie e sconfitte, sopraffazioni e sofferenze non sono eventi diversi, ma uno stesso evento osservato da diversi punti di vista.
scena IV
Carlo
Così, Carlo reddiva. Il riso amaro
del suo nemico e dell’età ventura
gli stava innanzi; ma l’avea giurato,
egli in Francia reddia. — Qual de’ miei prodi,
qual de’ miei fidi, per consiglio o prego,
smosso m’avria dal mio proposto? E un solo,
un uom di pace, uno stranier, m’apporta
novi pensier! No: quei che in petto a Carlo
rimette il cor, non è costui. La stella
che scintillava al mio partir, che ascosa
stette alcun tempo, io la riveggo. Egli era
un fantasma d’error quel che parea
dall’Italia rispingermi; bugiarda
era la voce che diceami in core:
no mai, no, rege esser non puoi nel suolo
ove nacque Ermengarda. — Oh! del tuo sangue
mondo son io; tu vivi: e perché dunque
ostinata così mi stavi innanzi,
tacita, in atto di rampogna, afflitta,
pallida, e come del sepolcro uscita?
Ermengarda è apparsa ripetutamente dinanzi a Carlo come se fosse un fantasma (larva) persecutorio: ora che il sole sorge e le trombe squillano, Carlo spera che quell’incubo si dissolva.
Dio riprovata ha la tua casa; ed io
starle unito dovea? Se agli occhi miei
piacque Ildegarde, al letto mio compagna
non la chiamava alta ragion di regno?
Se minor degli eventi è il femminile
tuo cor, che far poss’io? Che mai faria
colui che tutti, pria d’ oprar, volesse
prevedere i dolori? Un re non puote
correr l’alta sua via, senza che alcuno
cada sotto il suo piè. Larva cresciuta
nel silenzio e nell’ombra, il sol si leva,
squillan le trombe; ti dilegua.
Il monologo di Carlo, nella scena IV, è contraddistinto da un lessico realistico: anche se inquieto e interiormente combattuto, il re difende cinicamente le sue scelte, dettate dall’alto compito cui Dio stesso lo ha chiamato (… del tuo sangue / mondo son io, vv. 299–300; Un re non puote / correr l’alta sua via, senza che alcuno / cada sotto il suo piè, vv. 311–313).