La notte degli avi e la notte moderna
La Notte, vv. 1–60
Questi versi costituiscono l’apertura della quarta parte del Giorno, che inizia con la descrizione della notte. Parini ritrae qui due tipi di notti, contrapponendole in modo ironico: la notte antica o medievale, buia, piena di pericoli e mostri orrendi; e la notte moderna, luminosa e splendente, dove il Giovin Signore e la nobiltà si pavoneggiano nel lusso e nello sfarzo.
Nella parte conclusiva del Meriggio il poeta lamenta che l’arrivo della notte gli impedisce di seguire con cura il Giovin Signore, perciò il precettore invita la Notte, personificata, a permettergli di continuare ad ammaestrare il suo allievo, anche dopo che il suo dominio è subentrato a quello del giorno.
Né tu contenderai benigna Notte,
che il mio Giovane illustre io cerchi e guidi
con gli estremi precetti entro al tuo regno.
Già di tenebre involta e di perigli,
sola squallida mesta alto sedevi
su la timida terra. Il debil raggio
de le stelle remote e de’ pianeti,
che nel silenzio camminando vanno,
rompea gli orrori tuoi sol quanto è duopo
a sentirli assai più. Terribil ombra
giganteggiando si vedea salire
su per le case e su per l’alte torri
di teschi antiqui seminate al piede.
In passato si riteneva erroneamente che ai piedi delle torri medievali vi fossero depositati dei teschi. La descrizione serve qui a Parini per accrescere l’orrore della scena rappresentata.
Parini descrive due notti. La prima descrizione occupa una trentina di versi e rappresenta la notte antica o medievale, buia, lugubre e spaventosa: la luce delle stelle rischiara di quel poco che serve a rendere l’atmosfera più spaventosa; gli animali portatori di sventura volano nell’aria cupa; i fuochi fatui salgono dal terreno come fantasmi. La descrizione della notte è costruita anche con l’uso sapiente dei suoni. Si noti per esempio la ripetizione del suono /s/: sola squallida mesta alto sedevi (v. 5).
E upupe e gufi e mostri avversi al sole
svolazzavan per essa; e con ferali
stridi portavan miserandi augurj.
E lievi dal terreno e smorte fiamme
sorgeano in tanto; e quelle smorte fiamme
di su di giù vagavano per l’aere
orribilmente tacito ed opaco;
Le allitterazioni della u e della o, che riproducono un’eco onomatopeica del lamento spettrale e dell’ululato dei cani, contribuiscono a creare un contesto inquietante.
La descrizione può essere anche una caricatura: Parini qui non fa altro che rappresentare la notte antica secondo gli occhi e il gusto del Giovin Signore.
e al sospettoso adultero, che lento
col cappel su le ciglia e tutto avvolto
entro al manto sen gìa con l’armi ascose,
colpìeno il core, e lo strignean d’affanno.
L’adultero è qui una figura senza dubbio riprovevole, ma Parini ne fa una sorta di esempio al contrario per il Giovin Signore. Egli, pur di vedere la sua donna, aveva almeno il coraggio di sfidare i pericoli della notte, coraggio che il Giovin Signore non possiede.
E fama è ancor che pallide fantasime
lungo le mura de i deserti tetti
spargean lungo acutissimo lamento,
cui di lontano per lo vasto buio
i cani rispondevano ululando.
Tal fusti o Notte allor che gl’inclit’avi,
onde pur sempre il mio garzon si vanta,
eran duri ed alpestri; e con l’occaso
cadean dopo lor cene al sonno in preda;
fin che l’aurora sbadigliante ancora
li richiamasse a vigilar su l’opre
de i per novo cammin guidati rivi
e su i campi nascenti; onde poi grandi
furo i nipoti e le cittadi e i regni.
La conclusione della notte medievale culmina con le figure degli avi del Giovin Signore: essi impiegavano la loro giornata in opere utili e costruttive, conducendo uno stile di vita secondo natura (dormire la notte e lavorare durante il giorno). Il confronto tra le due notti è dunque anche un confronto tra due diversi stili di vita, uno operoso e attivo, l’altro inerte e parassitario.
Parini non critica dunque tutta la nobiltà, ma solo quella che ha deviato dalla tradizione e, invece di proporsi come promotrice del progresso sociale, si occupa solo di sperperare le ricchezze accumulate dagli avi. In questo senso la posizione di Parini riflette una concezione illuministica della società, in grado di distinguere ciò che genera progresso da ciò che invece non lo produce.
Inizia poi la descrizione della notte moderna, caratterizzata dalla luce, tanto quanto in quella medievale era presente il buio. La luce che illumina la notte diventa l’immagine metaforica dell’inversione delle leggi della natura: la nuova nobiltà, che ha perduto il legame con le sue origini, vive nella notte il punto più alto di mondanità. La Notte presente è, infatti, ben diversa: piena di luci festose, interamente dedicate alla vita mondana, alle galanterie (Amore, Venere), al gioco d’azzardo e al godimento della ricchezza. Il buio è cancellato dalle torce e dai mille riverberi dei monili e delle suppellettili preziose che adornano i nobili e i loro palazzi, tanto che la Notte stessa rimane stupefatta da tale luminosità artificiale.
Ma ecco Amore, ecco la madre Venere,
ecco del gioco, ecco del fasto i Genj,
che trionfanti per la notte scorrono,
per la notte, che sacra è al mio signore.
Tutto davanti a lor tutto s’irradia
di nova luce. Le inimiche tenebre
fuggono riversate; e l’ali spandono
sopra i covili, ove le fere e gli uomini
da la fatica condannati dormono.
L’antitesi tra la notte medievale e quella presente è creata con la vivacità di immagini e di ritmo dei versi in cui tutto, compresa la luce, è artificiale.
Proprio in questi versi — dove la vita dei nobili è paragonata a quella del popolo — parini rappresenta una forte denuncia delle ingiustizie sociali. Parini sottolinea ironicamente il fatto che la situazione è una condanna, quasi fosse un destino e una necessità di natura.
Dal punto di vista lessicale il poeta colloca sullo stesso piano le fere e gli uomini; anzi prima le fere poi gli uomini, indicando con questa sequenza l’inferiorità degli uomini rispetto alle bestie.
Stupefatta la Notte intorno vedesi
riverberar più che dinanzi al sole
auree cornici, e di cristalli e spegli
pareti adorne, e vesti varie, e bianchi
omeri e braccia, e pupillette mobili,
e tabacchiere preziose, e fulgide
fibbie ed anella e mille cose e mille.
Così l’eterno caos, allor che Amore
sopra posovvi e il fomentò con l’ale,
sentì il generator moto crearsi,
sentì schiuder la luce; e sè medesmo
vide meravigliando e i tanti aprirsi
tesori di natura entro al suo grembo.
Come nell’incipit del Mattino, Parini sottolinea l’artificiosità della vita aristocratica; gli antenati del Giovin Signore che rispettavano i ritmi naturali del sonno e della veglia, dedicandosi ad attività produttive, erano degni del privilegio di casta. Il contrasto con il comportamento dell’aristocrazia contemporanea è anche sociale, perché Parini evidenzia il sonno dei lavoratori stanchi per le attività del giorno passato e la vivacità degli oziosi aristocratici che si dedicano febbrilmente ai piaceri notturni.