La nuova vita di Cosimo

Italo Calvino, Il barone rampante, capitolo 1

Luca Pirola
7 min readApr 8, 2022

I capitoli iniziali del romanzo raccontano i primi giorni della nuova vita del protagonista, il giovane Cosimo Piovasco di Rondò, il quale trasforma la sua protesta contro in piatto di lumache che non vuole mangiare in una scelta irrevocabile: salire sugli alberi e non scenderne mai più. Staccatosi da terra, Cosimo scopre un nuovo punto di vista sul mondo, vivendo tuttavia a stretto contatto con gli uomini e con le idee del suo tempo.

L’apparente aspetto favolistico nasconde un messaggio di impegno, non di evasione o isolamento dell’intellettuale, come Calvino conferma in una sua lettera:

Ho voluto proporre una figura d’uomo (di “intellettuale” se vogliamo) impegnato, che partecipa profondamente alla storia e al progresso della società, ma che sa di dover battere vie diverse dagli altri, com’è il destino dei non conformisti. Ho voluto esprimere anche un imperativo morale di volontà, di fedeltà a se stessi, alla legge che ci si è imposta, anche quando essa costa la separazione dal resto degli uomini […] É nella propria forza e moralità individuale che sta la forza e la moralità che ci fa combattenti di lotte collettive.

Il narratore è Biagio, fratello minore di Cosimo, e ammiratore del Barone rampante; Biagio riconosce la tristezza della propria mediocrità

Fu il 15 di giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per l’ultima volta in mezzo a noi. Ricordo come fosse oggi. Eravamo nella sala da pranzo della nostra villa d’Ombrosa, le finestre inquadravano i folti rami del grande elce del parco. Era mezzogiorno, e la nostra famiglia per vecchia tradizione sedeva a tavola a quell’ora, nonostante fosse già invalsa tra i nobili la moda, venuta dalla poco mattiniera Corte di Francia, d’andare a desinare a metà del pomeriggio. Tirava vento dal mare, ricordo, e si muovevano le foglie. Cosimo disse: — Ho detto che non voglio e non voglio! — e respinse il piatto di lumache. Mai s’era vista disubbidienza più grave. […]

Il carattere di Cosimo evidenzia fin dalle prime righe una forza d’animo e una tenacia coerente, che spiccano in contrasto con il carattere ordinario del fratello. Il protagonista è circondato da una serie di personaggi (qui è citato nel dettaglio solo il precettore) che sono accomunati dall’essere dei solitari, ognuno in una maniera sbagliata d’esserlo intorno a quell’unica maniera giusta che è quella del protagonista. Ciascuno è perso nei suoi personali interessi, e inclinazioni, senza sostanziali rapporti con gli altri: un tratto particolarmente evidente nell’abate di Fauchelafleur con la sua fondamentale vocazione per l’indifferenza.

Da pochi mesi, Cosimo avendo compiuto i dodici anni ed io gli otto, eravamo stati ammessi allo stesso desco dei nostri genitori; ossia, io avevo beneficiato della stessa promozione di mio fratello prima del tempo, perché non vollero lasciarmi di là a mangiare da solo. Dico beneficiato così per dire: in realtà sia per Cosimo che per me era finita la cuccagna, e rimpiangevamo i desinari nella nostra stanzetta, noi due soli con l’Abate Fauchelafleur. L’Abate era un vecchietto secco e grinzoso, che aveva fama di giansenista, ed era difatti fuggito dal Delfìnato, sua terra natale, per scampare a un processo dell’Inquisizione. Ma il carattere rigoroso che di lui solitamente tutti lodavano, la severità interiore che imponeva a sé e agli altri, cedevano continuamente a una sua fondamentale vocazione per l’indifferenza e il lasciar correre, come se le sue lunghe meditazioni a occhi fissi nel vuoto non avessero approdato che a una gran noia e svogliatezza, e in ogni difficoltà anche minima vedesse il segno d’una fatalità cui non valeva opporsi.

Biagio presenta il fratello come un ragazzo inflessibile, tenace fino all’ostinazione: vorrebbe seguirne l’esempio, ma si sente inadeguato, schernendosi dietro la più giovane età. Biagio riconosce l’ostinazione sovrumana di Cosimo, lasciando intravedere motivazioni più profonde: dietro la protesta del fratello, il narratore coglie una più generale ribellione contro la famiglia, la società e il mondo in generale. Tale atteggiamento dimostra l’impegno intellettuale del personaggio.

I nostri pasti in compagnia dell’Abate cominciavano dopo lunghe orazioni, con movimenti di cucchiai composti, rituali, silenziosi, e guai a chi alzava gli occhi dal piatto o faceva anche il più lieve risucchio sorbendo il brodo; ma alla fine della minestra l’Abate era già stanco, annoiato, guardava nel vuoto, schioccava la lingua a ogni sorso di vino, come se soltanto le sensazioni più superficiali e caduche riuscissero a raggiungerlo; alla pietanza noi già ci potevamo mettere a mangiare con le mani, e finivamo il pasto tirandoci torsoli di pera, mentre l’Abate faceva cadere ogni tanto uno dei suoi pigri: — … Ooo bien!… Ooo alors! […]

Il tempo della narrazione risulta mosso dai flashback e dalle digressioni, che rendono ragione, a più riprese, della decisione di Cosimo: questa apre e chiude il capitolo, ma è inframmezzata da preziosi elementi di contesto (i giochi dei due fratelli, le lezioni con l’Abate). A questa scelta narrativa corrisponde una sintassi resa vivace dall’alternarsi di periodi estesi e articolati con frasi secche e nominali.

Cosimo e Biagio architettano un piano per liberare le lumache catturate da Battista e chiuse in un barile in attesa di essere cucinate: la marachella viene scoperta e i due fratelli sono puniti e chiusi in uno stanzino.

Ci tennero lì tre giorni, a pane acqua insalata cotenne di bue e minestrone freddo (che, fortunatamente, ci piaceva). Poi, primo pasto in famiglia, come niente fosse stato, tutti a puntino, quel mezzogiorno del 15 giugno: e cos’aveva preparato nostra sorella Battista, sovrintendente alla cucina? Zuppa di lumache e pietanza di lumache. Cosimo non volle toccare neanche un guscio. — Mangiate o subito vi rinchiudiamo nello stanzino! — Io cedetti, e cominciai a trangugiare quei molluschi. (Fu un po’ una viltà, da parte mia, e fece sì che mio fratello si sentisse più solo, cosicché nel suo lasciarci c’era anche una protesta contro di me, che l’avevo deluso; ma avevo solo otto anni, e poi a che vale paragonare la mia forza di volontà, anzi, quella che potevo avere da bambino, con l’ostinazione sovrumana che contrassegnò la vita di mio fratello?)
- E allora? — disse nostro padre a Cosimo.
No, e poi no! — fece Cosimo, e respinse il piatto.
- Via da questa tavola!
Ma già Cosimo aveva voltato le spalle a tutti noi e stava uscendo dalla sala.
- Dove vai?
Lo vedevamo dalla porta a vetri mentre nel vestibolo prendeva il suo tricorno e il suo spadino.
- Lo so io! — Corse in giardino.
Di lì a poco, dalle finestre, lo vedemmo che s’arrampicava su per l’elce. Era vestito e acconciato con grande proprietà, come nostro padre voleva venisse a tavola, nonostante i suoi dodici anni: capelli incipriati col nastro al codino, tricorno, cravatta di pizzo, marsina verde a code, calzonetti color malva, spadino, e lunghe ghette di pelle bianca a mezza coscia, unica concessione a un modo di vestirsi più intonato alla nostra vita campagnola. (Io, avendo solo otto anni, ero esentato dalla cipria sui capelli, se non nelle occasioni di gala, e dallo spadino, che pure mi sarebbe piaciuto portare).

L’abbigliamento di Cosimo corrisponde alla moda che seguivano i gentiluomini del XVIII secolo. I vestiti da piccolo adulto appaiono come costrizioni indossati dal dodicenne Cosimo.

Così egli saliva per il nodoso albero, muovendo braccia e gambe per i rami con la sicurezza e la rapidità che gli venivano dalla lunga pratica fatta insieme. Ho già detto che sugli alberi noi trascorrevamo ore e ore, e non per motivi utilitari come fanno tanti ragazzi, che ci salgono solo per cercar frutta o nidi d’uccelli, ma per il piacere di superare difficili bugne del tronco e inforcature, e arrivare più in alto che si poteva, e trovare bei posti dove fermarci a guardare il mondo laggiù, a fare scherzi e voci a chi passava sotto. Trovai quindi naturale che il primo pensiero di Cosimo, a quell’ingiusto accanirsi contro di lui, fosse stato d’arrampicarsi sull’elce, albero a noi familiare, e che protendendo i rami all’altezza delle finestre della sala, imponeva il suo contegno sdegnoso e offeso alla vista di tutta la famiglia.

Calvino compie una scelta di precisione realistica quando descrive la fuga di Cosimo sugli alberi e — successivamente — la sua vita “sospesa”, per dare plausibilità alla scelta del personaggio che diventa immagine portante di tutta la narrazione. Gli alberi sono descritti con botanica precisione e dovizia di dettagli, perciò la narrazione è condotta sempre con un linguaggio piano ed esatto e con una sintassi equilibrata e lineare. Inoltre si riscontra una varietà di registri linguistici (ad esempio parole tratte da lingue straniere) nei dialoghi.

- Vorsicht! Vorsicht! Ora casca, poverino! — esclamò piena d’ansia nostra madre, che ci avrebbe visto volentieri alla carica sotto le cannonate, ma intanto stava in pena per ogni nostro gioco. Cosimo salì fino alla forcella d’un grosso ramo dove poteva stare comodo, e si sedette lì, a gambe penzoloni, a braccia incrociate con le mani sotto le ascelle, la testa insaccata nelle spalle, il tricorno calcato sulla fronte. Nostro padre si sporse dal davanzale. — Quando sarai stanco di star lì cambierai idea! — gli gridò.
- Non cambierò mai idea, — fece mio fratello, dal ramo.
- Ti farò vedere io, appena scendi! — E io non scenderò più! — E mantenne la parola.

Di fronte al conformismo di casa, alle preoccupazioni meschine dei genitori (le mode del momento, l’abbigliamento, i pasti), Cosimo cova un risentimento che esibisce prima con la liberazione delle lumache, quindi di se stesso. La sua impulsività, pur mossa da un capriccio infantile, rivela nella perseveranza un’anima adulta, capace di gesti davvero politici.

audiolettura del capitolo

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Luca Pirola
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Written by Luca Pirola

History and Italian literature teacher

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