La patente
Novelle per un anno
La novella La patente, pubblicata la prima volta nel 1911 sul “Corriere della Sera”, è incentrata sulla superstizione, diffusa nel Meridione d’Italia, del menagramo o jettatore. Vittima di questa assurdità è Rosario Chiàrchiaro, che si reca da un giudice per avere la patente di jettatore, in quanto ha perso il lavoro per questa sua fama e vuole sopravvivere in qualche modo approfittando almeno delle proprie presunte capacità. Pirandello disegna con maestria i personaggi del giudice — un buon uomo preoccupato dalla paradossalità del caso — e dello sfortunato Rosario, impiegato disoccupato, disperato, ma deciso a giocare le carte che il destino gli ha posto in mano a causa dell’irrazionalità e dell’elevazione al rango di “verità” delle più bizzarre opinioni soggettive.
La novella si apre con la figura del giudice istruttore D’Andrea, puntuale nel lavoro e vittima dell’insonnia. Uno dei pensieri che lo tormentano la notte è il caso della querela per diffamazione sporta da Rosario Chiàrchiaro — ritenuto in paese uno iettatore — contro due giovani, colpevoli di aver fatto le corna al suo passaggio, per tenere lontano il malocchio. Il giudice D’Andrea sa bene che Chiàrchiaro non potrà mai vincere la sua battaglia in tribunale e per questo decide di farlo chiamare nel suo ufficio per farlo recedere dalla querela.
Il Chiàrchiaro s’era combinata una faccia da jettatore, ch’era una meraviglia a vedere. S’era lasciata crescere su le cave gote gialle una barbaccia ispida e cespugliuta; s’era insellato sul naso un pajo di grossi occhiali cerchiati d’osso, che gli davano l’aspetto d’un barbagianni; aveva poi indossato un abito lustro, sorcigno, che gli sgonfiava da tutte le parti.
La prima descrizione che Pirandello dà di Chiàrchiaro è comica, quasi grottesca. L’uomo, però, se poniamo attenzione al testo, non è così per natura ma fa di tutto per abbruttire ulteriormente i suoi tratti, per sembrare a chiunque lo guardi uno iettatore (s’era combinata una faccia da jettatore)
Allo scatto del giudice non si scompose. Dilatò le nari, digrignò i denti gialli e disse sottovoce:
«Lei dunque non ci crede?».
«Ma fatemi il piacere!» ripeté il giudice D’Andrea. «Non facciamo scherzi, caro Chiàrchiaro! O siete impazzito? Via, via, sedete, sedete qua.»
E gli s’accostò e fece per posargli una mano su la spalla. Subito il Chiàrchiaro sfagliò come un mulo, fremendo:
«Signor giudice, non mi tocchi! Se ne guardi bene! O lei, com’è vero Dio, diventa cieco!».
Pirandello presenta un ritratto espressionisticamente molto caricato di Chiàrchiaro, descrivendolo con i tratti tipici dell’animalità, come si evince da alcuni verbi (dilatò, digrignò, sfagliò, fremendo) e dalla similitudine come un mulo. Chiàrchiaro, come molti altri personaggi pirandelliani, è l’espressione di un “brutto” antirealistico che non ha fini comici, ma umoristici: ha la funzione di sorprendere e far riflettere il lettore
Il D’Andrea stette a guardarlo freddamente, poi disse:
«Quando sarete comodo… Vi ho mandato a chiamare per il vostro bene. Là c’è una sedia, sedete».
Il giudice è persona razionale, considera iniquo il processo, è sensibile, si rende conto dell’inadeguatezza della razionalità del diritto davanti all’irrazionalità della superstizione diventata “verità soggettiva” condivisa da un intero paese
Il Chiàrchiaro sedette e, facendo rotolar con le mani su le cosce la canna d’India a mo’ d’un matterello, si mise a tentennare il capo.
I personaggi di Pirandello indossano sempre una maschera. Nel caso di Chiàrchiaro la maschera è già insita nel nome: il suo comportamento, infatti, non è per nulla “chiaro”; egli anzi è il primo a comprendere che, se desidera campare e dare di che vivere alla propria famiglia, deve dimostrare di essere veramente ciò che gli altri credono che sia, ovvero uno iettatore, e comportarsi di conseguenza.
«Per il mio bene? Ah, lei si figura di fare il mio bene, signor giudice, dicendo di non credere alla jettatura?»
Il D’Andrea sedette anche lui e disse:
«Volete che vi dica che ci credo? E vi dirò che ci credo! Va bene così?».
«Nossignore,» negò recisamente il Chiàrchiaro, col tono di chi non ammette scherzi. «Lei deve crederci sul serio, e deve anche dimostrarlo istruendo il processo!»
«Questo sarà un po’ difficile,» sorrise mestamente il D’Andrea. «Ma vediamo di intenderci, caro Chiàrchiaro. Voglio dimostrarvi che la via che avete preso non è propriamente quella che possa condurvi a buon porto.»
«Via? porto? Che porto e che via?» domandò, aggrondato, il Chiàrchiaro.
«Né questa d’adesso,» rispose il D’Andrea, «né quella là del processo. Già l’una e l’altra, scusate, son tra loro così.»
E il giudice D’Andrea infrontò gl’indici delle mani per significare che le due vie gli parevano opposte.
Il Chiàrchiaro si chinò e tra i due indici così infrontati del giudice ne inserì uno suo, tozzo, peloso e non molto pulito.
«Non è vero niente, signor giudice!» disse, agitando quel dito.
«Come no?» esclamò il D’Andrea. «Là accusate come diffamatori due giovani perché vi credono jettatore, e ora qua voi stesso vi presentate innanzi a me in veste di jettatore e pretendete anzi ch’io creda alla vostra jettatura.»
«Sissignore.»
«E non vi pare che ci sia contraddizione?»
Il Chiàrchiaro scosse più volte il capo con la bocca aperta a un muto ghigno di sdegnosa commiserazione.
«Mi pare piuttosto, signor giudice,» poi disse, «che lei non capisca niente.»
Il D’Andrea lo guardò un pezzo, imbalordito.
«Dite pure, dite pure, caro Chiàrchiaro. Forse è una verità sacrosanta questa che vi è scappata dalla bocca. Ma abbiate la bontà di spiegarmi perché non capisco niente.»
«Sissignore. Eccomi qua,» disse il Chiàrchiaro, accostando la seggiola. «Non solo le farò vedere che lei non capisce niente; ma anche che lei è un mio mortale nemico. Lei, lei, sissignore. Lei che crede di fare il mio bene. Il mio più acerrimo nemico! Sa o non sa che i due imputati hanno chiesto il patrocinio dell’avvocato Manin Baracca?»
«Sì. Questo lo so.»
«Ebbene, all’avvocato Manin Baracca io, Rosario Chiàrchiaro, io stesso sono andato a fornire le prove del fatto: cioè, che non solo mi ero accorto da più d’un anno che tutti, vedendomi passare, facevano le corna, ma le prove anche, prove documentate e testimonianze irrepetibili dei fatti spaventosi su cui è edificata incrollabilmente, incrollabilmente, capisce, signor giudice? la mia fama di jettatore!»
«Voi? Dal Baracca?»
«Sissignore, io.»
Il giudice lo guardò, più imbalordito che mai:
«Capisco anche meno di prima. Ma come? Per render più sicura l’assoluzione di quei giovanotti? E perché allora vi siete querelato?».
Il Chiàrchiaro ebbe un prorompimento di stizza per la durezza di mente del giudice D’Andrea; si levò in piedi, gridando con le braccia per aria:
«Ma perché io voglio, signor giudice, un riconoscimento ufficiale della mia potenza, non capisce ancora? Voglio che sia ufficialmente riconosciuta questa mia potenza spaventosa, che è ormai l’unico mio capitale!».
Nel dialogo serrato tra i due protagonisti, Chiàrchiaro rivela al giudice D’Andrea il proprio punto di vista, cercando di portarlo dalla posizione di nemico a quella di “amico”.
Il pregiudizio intorno a Chiàrchiaro è esteso ormai a tutto il paese ed è talmente radicato che il poveretto non può che farsene una ragione di vita: così decide di trasformare quel marchio di infamia in una fonte di guadagno.
E ansimando, protese il braccio, batté forte sul pavimento la canna d’India e rimase un pezzo impostato in quell’atteggiamento grottescamente imperioso.
Il giudice D’Andrea si curvò, si prese la testa tra le mani, commosso, e ripeté:
«Povero caro Chiàrchiaro mio, povero caro Chiàrchiaro mio, bel capitale! E che te ne fai? che te ne fai?».
«Che me ne faccio?» rimbeccò pronto il Chiàrchiaro. «Lei, padrone mio, per esercitare codesta professione di giudice, anche così male come la esercita, mi dica un po’, non ha dovuto prender la laurea?»
«La laurea, sì.»
È forse proprio in questo punto che la vicenda raggiunge il picco della comicità, stravolgendo completamente i valori in campo. La jettatura è infatti definita una potenza spaventosa e addirittura un capitale per Chiàrchiaro, che cerca di fare di necessità virtù. Ancora comico è il fatto che il riconoscimento, o meglio la patente di iettatore, venga assimilato alla laurea, necessaria al giudice per svolgere la sua professione.
Pirandello qui sottolinea l’importanza dei documenti burocratici per avere un’identità nella società. Questo fatto è utile e non è in sé un assurdo: lo diventa nel caso specifico di Rosario Chiàrchiaro, causato dall’irrompere dell’irrazionalità degli altri per la vittima della superstizione. Da realistica e umoristica, la novella diventa perciò filosofica: la tesi evidenzia come, sia per l’individuo, sia per la società, la “verità” è individuata sulla base dei documenti burocratici e legali e dell’opinione di massa, anche quando contrasta palesemente con la realtà.
«Ebbene, voglio anch’io la mia patente, signor giudice! La patente di jettatore. Col bollo. Con tanto di bollo legale! Jettatore patentato dal regio tribunale.»
«E poi?»
«E poi? Me lo metto come titolo nei biglietti da visita. Signor giudice, mi hanno assassinato. Lavoravo. Mi hanno fatto cacciar via dal banco dov’ero scritturale, con la scusa che, essendoci io, nessuno più veniva a far debiti e pegni; mi hanno buttato in mezzo a una strada, con la moglie paralitica da tre anni e due ragazze nubili, di cui nessuno vorrà più sapere, perché sono figlie mie; viviamo del soccorso che ci manda da Napoli un mio figliuolo, il quale ha famiglia anche lui, quattro bambini, e non può fare a lungo questo sacrifizio per noi. Signor giudice, non mi resta altro che di mettermi a fare la professione del jettatore! Mi sono parato così, con questi occhiali, con quest’abito; mi sono lasciato crescere la barba; e ora aspetto la patente per entrare in campo! Lei mi domanda come? Me lo domanda perché, le ripeto, lei è un mio nemico!»
È solo a questo punto della novella che il lettore comprende la motivazione che spinge Chiàrchiaro ad abbruttirsi e a sembrare a tutti i costi ciò che la gente crede che sia, cioè uno iettatore. La sua fama di portasfortuna lo ha privato dell’impiego e della possibilità di trovarne un altro, e per di più egli deve mantenere una moglie paralitica e due figlie nubili che nessuno vuole sposare. Quella che sembrava comicità si rivela ora come umorismo: scatta la riflessione, il “sentimento del contrario”, la pietà di fronte alla constatazione della tragedia sottesa alla vita di quell’uomo
«Io?»
«Sissignore. Perché mostra di non credere alla mia potenza! Ma per fortuna ci credono gli altri, sa? Tutti, tutti ci credono! E ci son tante case da giuoco in questo paese! Basterà che io mi presenti; non ci sarà bisogno di dir nulla. Mi pagheranno per farmi andar via! Mi metterò a ronzare attorno a tutte le fabbriche; mi pianterò innanzi a tutte le botteghe; e tutti, tutti mi pagheranno la tassa, lei dice dell’ignoranza? io dico la tassa della salute! Perché, signor giudice, ho accumulato tanta bile e tanto odio, io, contro tutta questa schifosa umanità, che veramente credo d’aver ormai in questi occhi la potenza di far crollare dalle fondamenta una intera città!»
Chiàrchiaro decide dunque di convertire il marchio di iettatore con cui è stato bollato in una fonte di guadagno: sarà proprio la patente di iettatore a consentirgli di vivere. In questo modo egli può vendicarsi della schifosa umanità che lo ha emarginato
Il giudice D’Andrea, ancora con la testa tra le mani, aspettò un pezzo che l’angoscia che gli serrava la gola desse adito alla voce. Ma la voce non volle venir fuori; e allora egli, socchiudendo dietro le lenti i piccoli occhi plumbei, stese le mani e abbracciò il Chiàrchiaro a lungo, forte forte, a lungo. Questi lo lasciò fare.
«Mi vuol bene davvero?» gli domandò. «E allora istruisca subito il processo, e in modo da farmi avere al più presto quello che desidero.»
«La patente?»
Alla fine del dialogo Chiàrchiaro sembra realmente convinto di possedere il potere della iettatura, mentre l’unico a non crederci, fino alla fine, è il giudice D’Andrea, che, al contrario della schifosa umanità, è capace di un gesto di pietà
Il Chiàrchiaro protese di nuovo il braccio, batté la canna d’India sul pavimento e, portandosi l’altra mano al petto, ripeté con tragica solennità:
«La patente».
La novella sembra concludersi con una vera eterogenesi dei fini: il giudice, l’unico che ha adottato un comportamento umano con Chiàrchiaro, si vede costretto a vidimare la credenza popolare conferendogli la patente di iettatore.