La quiete dopo la tempesta

I grandi idilli di Leopardi

Luca Pirola
6 min readApr 22, 2020

I grandi idilli comprendono liriche scritte tra il 1828 e il 1830, le più conosciute delle quali sono A Silvia, Il sabato del villaggio, La quiete dopo la tempesta, I canto notturno di un pastore errante dell’Asia, solo per citarne alcuni. In queste liriche la riflessione e la descrizione sono fuse, superando la divisione dei piccoli idilli.
I temi trattati sono l’odio per la Natura matrigna, il lamento per la sorte comune a tutti gli uomini, la nostalgia per l’infanzia e la giovinezza e la polemica contro le illusioni. le uniche certezze affermate indiscutibilmente sono il nulla, la morte e la sofferenza.

Leopardi, superata l’esclusione, partecipa alla vita del villaggio attraverso le figure semplici dei paesani che compaiono nelle descrizioni del borgo natio. Le immagini e i personaggi sono simbolici della condizione di tutta l’umanità, in quanto il dato biografico diventa paradigma dell’esistenza umanaLa rimembranza è interpretata come il ricordo, che recupera i desideri e le emozioni della gioventù, unito tuttavia al dolore per la perdita delle illusioni

A tali contenuti Leopardi fa corrispondere delle precise scelte lessicali, infatti i tema delle ricordanze è spesso reso per mezzo di vocativi (O Nerina!; Silvia)e la frequenza dei verbi di memoria (mi sovvien l’eterno; io mi rammento). la riflessione sul nulla e la noia utilizza la tecnica della negazione e forme come dis- ;in- (disumano; inabitato), nonché la scelta del lessico mortuario (tomba ignuda).

La quiete dopo la tempesta — analisi del testo

Joseph Mallord William Turner — Snow Storm, Hannibal and his Army Crossing the Alps

Questa lirica venne scritta a Recanati in soli quattro giorni, tra il 17 e il 20 settembre 1829 e nell’edizione definitiva dei Canti occupa la posizione successiva al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. La vita del paese e degli animali che riprende dopo il temporale è l’occasione per il poeta per riflettere sulla condizione umana, caratterizzata dall’alternanza di dolore e di attimi di quiete.

Passata è la tempesta:
odo augelli far festa, e la gallina,
tornata in su la via,
che ripete il suo verso. Ecco il sereno
rompe là da ponente, alla montagna;
sgombrasi la campagna,
e chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato
risorge il romorio
torna il lavoro usato.
L’artigiano a mirar l’umido cielo,
con l’opra in man, cantando,
fassi in su l’uscio; a prova
vien fuor la femminetta a còr dell’acqua
della novella piova;
e l’erbaiuol rinnova
di sentiero in sentiero
il grido giornaliero.
Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
per li poggi e le ville. Apre i balconi,
apre terrazzi e logge la famiglia:
e, dalla via corrente, odi lontano
tintinnio di sonagli; il carro stride
del passeggier che il suo cammin ripiglia.

Il testo è suddiviso in due parti: la prima è costituita dalla prima strofa; la seconda è costituita dalla seconda e dalla terza strofa.
La prima strofa è di carattere descrittivo: in essa il poeta delinea un vero e proprio quadro della natura e delle attività dell’uomo dopo lo sconvolgimento operato dalla tempesta. Il piccolo mondo agreste descritto nel momento in cui riprende con gioia la sua vita sul finire della tempesta.

Si rallegra ogni core.
Sì dolce, sì gradita
quand’è, com’or, la vita?
Quando con tanto amore
l’uomo a’ suoi studi intende?
O torna all’opre? o cosa nova imprende?
Quando de’ mali suoi men si ricorda?
Piacer figlio d’affanno;
gioia vana, ch’è frutto
del passato timore, onde si scosse
e paventò la morte
chi la vita abborria;
onde in lungo tormento,
fredde, tacite, smorte,
sudàr le genti e palpitàr, vedendo
mossi alle nostre offese
folgori, nembi e vento.

Inizia qui la seconda parte del testo — comprendente la seconda e la terza strofa –, che ha un andamento riflessivo. Nella seconda strofa, la conclusione della tempesta è l’occasione per mettere a fuoco il fatto che per l’uomo il termine di un affanno fa percepire come gradevoli le occupazioni quotidiane, che spesso appaiono invece noiose. La riflessione smaschera la serenità del quadretto con un brusco effetto di contrasto: l’autore sa che il sollievo che si diffonde per il paese è momentaneo e illusorio, nient’altro che una beffa della natura.
Sono descritti due “casi” di persone che dopo aver temuto di perdere la vita, sono tornate ad essere serene: il primo riguarda l’uomo che detesta la vita (chi la vita abborria) e che, nel momento in cui rischia di morire, ha paura della morte (figura che forse adombra il poeta), il secondo caso riguarda invece tutti coloro che hanno avuto paura del temporale e che ora, scampato il pericolo, riprendono le loro abitudini.
Il piacere è nient’altro che la conseguenza della sospensione della condizione di dolore (affanno). Il verso trova rispondenza in una pagina dello Zibaldone.
Il piacere è una gioia vana perché non esiste in sé e per sé, ma solo in quanto cessazione di una condizione di affanno o dolore: esso è infatti frutto / del passato timore

O natura cortese,
son questi i doni tuoi,
questi i diletti sono
che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
è diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
spontaneo sorge e di piacer, quel tanto
che per mostro e miracolo talvolta
nasce d’affanno, è gran guadagno. Umana
prole cara agli eterni! assai felice
se respirar ti lice
d’alcun dolor: beata
se te d’ogni dolor morte risana.

In quest’ultima strofa l’io lirico porta alle estreme conseguenze la riflessione dei versi precedenti. Il poeta si rivolge alla natura, ironicamente detta cortese, constatando l’ineluttabilità del dolore. Se la vita dell’uomo è dolore, l’unica beatitudine è nella morte, quale cessazione di ogni sofferenza. Il verso “Uscir di pena / è diletto fra noi” richiama un passo del Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie: «la cessazione di qualunque dolore, o disagio è piacere per sé medesima. La sola beatitudine è la morte, non vista però in senso cristiano come passaggio al Paradiso, ma come termine della vita e dunque della sofferenza che le è per destino collegata.

In questa strofa, Leopardi fa largo uso dell’ironia, con la quale sottolinea la negatività della condizione umana. L’Umana prole non è per nulla cara agli eterni né può essere davvero felice; anzi la sua “felicità” consiste nella temporanea cessazione del dolore, nel quale per destino è condannata a ricadere

Lo sfondo filosofico del canto è costituito dal tema dell’inesorabile inimicizia tra uomo e natura, che Leopardi ripropone in termini nuovi, introducendo uno sviluppo della teoria del piacere secondo il quale il piacere non esiste in sé, ma solo come cessazione di un dolore.

Nelle due parti della poesia Leopardi dà voce a due aspetti della sua personalità strettamente connessi tra loro: da un lato la condivisione del desiderio di piacere che anima tutte le creature viventi, evidenziato dalla simpatia con la quale descrive la gioia comune di uomini e animali; dall’altro la consapevolezza che ogni parvenza di felicità è un inganno, consapevolezza tanto più amara quanto più è forte l’adesione alla vita.

Stile
Il brusco contrasto tematico tra le due parti della poesia è sottolineato da due intonazioni nettamente diverse: affettuosa, semplice, idilliaca nella descrizione della scena iniziale; aspra, tesa, polemica nell’enunciazione della tesi filosofica che la sottende.
Si può notare in particolare il passaggio dalla struttura sintattica limpida e scorrevole della prima parte (frasi brevi, pochissime subordinate) a quella complessa e drammatica della seconda (brusca alternanza di periodi lunghi e brevissimi, abbondanza di interrogative retoriche); infatti nella seconda strofa il susseguirsi serrato di domande retoriche (con l’iterazione di quando) sottolinea la dolcezza della vita e la ripresa delle abitudini quotidiane in modo ancor più efficace di quanto avrebbe fatto una semplice affermazione.
In secondo luogo si evidenzia la distribuzione disomogenea delle rime e delle assonanze: mentre nella prima parte sono distribuite in modo uniforme, creando un effetto di armonia, nella seconda si infittiscono in alcuni gruppi di versi, altri ne sono totalmente privi. Infine l’uso dell’ironia introduce bruscamente una violenta nota sarcastica in stridente contrasto con la serenità della prima parte.

L’indeterminatezza è resa anche nella prima strofa dove l’uso della preposizione alla riferito a montagna con il significato di “verso la”, “nei pressi di”, conferisce l’effetto di vastità e lontananza, tanto caro a Leopardi. Una simile espressione che «tende a designare vastità spaziali».

Nei versi “Ogni cor si rallegra, in ogni lato / risorge il romorio / torna il lavoro usato” l’allitterazione del suono “r” nella prima strofa indica il ritorno dei rumori abituali delle varie attività dell’uomo.

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Luca Pirola
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Written by Luca Pirola

History and Italian literature teacher

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