La ricerca delle cose perdute

Astolfo sulla luna, Orlando Furioso XXXIV, 70–86 e XXXV, 1–2

Luca Pirola
12 min readNov 8, 2020

Il conte Astolfo compare più volte, nel corso del poema, come impavido protagonista di stravaganti imprese. L’ultima lo ha condotto in cima al monte del Purgatorio, dove si trova l’Eden. Nel Paradiso terrestre ha incontrato san Giovanni evangelista, che gli ha affidato il compito di recuperare il senno perduto di Orlando; per fare ciò deve recarsi sulla luna, dove si trovano tutte le cose che si sono perdute in Terra. Il paladino e il santo compiono il viaggio verso la luna sopra il carro tirato da cavalli di fuoco nel quale, secondo la Bibbia, il profeta Elia fu trasportato in cielo (Secondo libro dei Re, 2, 11)

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Quattro destrier via più che fiamma rossi
al giogo il santo evangelista aggiunse;
e poi che con Astolfo rassettossi,
e prese il freno, inverso il ciel li punse.
Ruotando il carro, per l’aria levossi,
e tosto in mezzo il fuoco eterno giunse;
che ‘l vecchio fe’ miracolosamente,
che, mentre lo passar, non era ardente.

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Tutta la sfera varcano del fuoco,
et indi vanno al regno de la luna.
Veggon per la più parte esser quel loco
come un acciar che non ha macchia alcuna;
e lo trovano uguale, o minor poco
di ciò ch’in questo globo si raguna,
in questo ultimo globo de la terra,
mettendo il mar che la circonda e serra.

Astolfo, giunto al paradiso terrestre in groppa all’ippogrifo, ha incontrato san Giovanni che lo conduce sulla Luna col carro di Elia per recuperare il senno di Orlando. Ariosto sfrutta per questa narrazione l’esempio di Dante che, per salire al cielo, ha bisogno della guida di Beatrice. Tuttavia il tono della narrazione ariostesca è ben differente da quello della Commedia: dove in Dante figurano trattazioni spirituali e teologiche, in Ariosto è presente solo una dimensione comica e satirica.

La descrizione della Luna è ripresa da Dante che aveva dato una simile descrizione della Luna (Paradiso, II, vv. 32–33) definita lucida, spessa, solida e pulita,/quasi adamante che lo sol ferisse.
La quartina finale la descrizione della Luna è desunta dalla Storia naturale(II, 11) di Plinio il Vecchio (I secolo d.C.), che attribuiva al corpo celeste dimensioni identiche a quelle terrestri.

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Quivi ebbe Astolfo doppia maraviglia:
che quel paese appresso era sì grande,
il quale a un picciol tondo rassimiglia
a noi che lo miriam da queste bande;
e ch’aguzzar conviengli ambe le ciglia,
s’indi la terra e ’l mar ch’intorno spande
discerner vuol; che non avendo luce,
l’imagin lor poco alta si conduce.

L’episodio è caratterizzato dal motivo conduttore della meraviglia. Astolfo rimane colpito dalle dimensioni della Luna che noi siamo soliti ammirare come un picciol tondo. Inoltre, l’eroe si meraviglia anche per la relativa piccolezza del pianeta Terra che, da lassù, sembra un punto dai contorni difficilmente discernibili. Il tema, che Ariosto desume dal canto XXII del Paradiso (vv. 124–154), è funzionale a mostrare il capovolgimento di prospettiva sul quale il brano è giocato

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Altri fiumi, altri laghi, altre campagne
sono là su, che non son qui tra noi;
altri piani, altre valli, altre montagne,
c’han le cittadi, hanno i castelli suoi,
con case de le quai mai le più magne
non vide il paladin prima né poi:
e vi sono ample e solitarie selve,
ove le ninfe ognor cacciano belve.

Fin dalla prima descrizione, la Luna appare come un mondo “altro” rispetto alla Terra, simile eppure diverso. Per censire i caratteri del paesaggio lunare Ariosto impiega la figura dell’enumerazione, che gli consente di costruire un ampio catalogo del mondo visitato da Astolfo.

Il modello per la scena descritta in questa ottava è dell’umanista Leon Battista Alberti. In questo brano un uomo racconta di aver visitato in sogno un mondo fantastico dove si conservano le cose perdute dagli uomini. Ariosto sembra seguire scrupolosamente la fonte albertiana, ma allo stesso tempo la arricchisce con un’interpretazione personale che rende la Luna un vero e proprio mondo “altro” rispetto alla Terra, attraverso una narrazione giocata su toni spiccatamente ironici.

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Non stette il duca a ricercare il tutto;
che là non era asceso a quello effetto.
Da l’apostolo santo fu condutto
in un vallon fra due montagne istretto,
ove mirabilmente era ridutto
ciò che si perde o per nostro diffetto,
o per colpa di tempo o di Fortuna:
ciò che si perde qui, là si raguna.

Inizia in questo punto il nucleo centrale della narrazione, costituito dalla presenza della lunga valle (vallon) nella quale trova posto tutto ciò che viene smarrito sulla Terra. La Luna è dunque il mondo opposto, lo specchio rovesciato della Terra che conserva le cose perdute, sprecate, consunte. Si noti che in questa ottava continua il tema della meraviglia (mirabilmente), già incontrato all’inizio del brano.

Com’è stato sottolineato dalla critica, il verbo “perdere” è usato con un’ampia sfumatura di significati: si perde nel senso che si cessa di avere (ricchezze, gioielli, opere d’arte); nel senso che si produce senza risultato (lacrime e sospiri, amori non ricambiati, progetti e desideri vani…); nel senso che si spreca (il tempo nel gioco e nell’ozio); nel senso che cessa di esistere (regni, fama, bellezza); con valore riflessivo, nel senso di si esaurisce.

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Non pur di regni o di ricchezze parlo,
in che la ruota instabile lavora;
ma di quel ch’in poter di tor, di darlo
non ha Fortuna, intender voglio ancora.
Molta fama è là su, che come tarlo,
il tempo al lungo andar qua giù divora:
là su infiniti prieghi e voti stanno,
che da noi peccatori a Dio si fanno.

Ariosto inizia a comporre il lungo catalogo delle cose perdute. Tra le prime vi sono due concetti che appartengono all’intima speranza degli uomini: da un lato, la fama, che rappresenta il grande desiderio della cultura umanistica, vista come unico modo per sfuggire alla morte e alla dimenticanza; dall’altro, le preghiere rivolte a Dio. Il poeta esprime una forte critica delle aspirazioni umane attraverso l’ironia: tutte le speranze e le preghiere dell’uomo finiscono sulla Luna, senza portare il frutto desiderato.

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Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l’inutil tempo che si perde a giuoco,
e l’ozio lungo d’uomini ignoranti,
vani disegni che non han mai loco,
i vani desidèri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giù perdesti mai,
là su salendo ritrovar potrai.

Il vallone delle cose perdute è un vero e proprio cimitero di simboli che rappresentano la vanità dei desideri umani. La critica moralistica di Ariosto è infatti rivolta ai vani desidèri, ossia alle passioni umane che non portano a nulla.

Il tema della vanitas (“vanità, inconsistenza”) delle cose e dei desideri appartiene alla tradizione religiosa (Vanità di vanità, tutto è vanità, si legge nella Bibbia, nel libro di Qohelet o Ecclesiaste), come riflessione il cui risultato spinge l’uomo a rivolgersi a Dio. Ritroviamo questo insegnamento anche nel Canzonierepetrarchesco. Tuttavia il tema non è impiegato da Ariosto in funzione religiosa, ma laica: non si tratta dunque di una concezione pessimistica che sprona l’uomo alla ricerca delle cose celesti, ma di una semplice presa di coscienza della realtà

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Passando il paladin per quelle biche,
or di questo or di quel chiede alla guida.
Vide un monte di tumide vesiche,
che dentro parea aver tumulti e grida;
e seppe ch’eran le corone antiche
e degli Assirii e de la terra lida,
e de’ Persi e de’ Greci, che già furo
incliti, et or n’è quasi il nome oscuro.

L’ottava ricorda da vicino il clima dell’Inferno, dove Dante chiede a più riprese a Virgilio il significato di ciò che vede. Ma il modello dantesco è qui impiegato in funzione ironica. Astolfo non compie il viaggio per raggiungere Dio, ma solo per recuperare il senno di Orlando; inoltre il suo viaggio finisce con la Luna, dove quello di Dante invece iniziava. Infine, il carattere di mondo ribaltato che ha la Luna genera un marcato effetto di grottesco, assai diverso dalla visione beatifica tipica del Paradiso.

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Ami d’oro e d’argento appresso vede
in una massa, ch’erano quei doni
che si fan con speranza di mercede
ai re, agli avari principi, ai patroni.
Vede in ghirlande ascosi lacci; e chiede,
et ode che son tutte adulazioni.
Di cicale scoppiate imagine hanno
versi ch’in laude dei signor si fanno.

L’uso di immagini metaforiche contribuisce a creare uno spiccato senso di ironia e grottesco grazie al loro forte valore icastico (realistico): i regali fatti ai potenti sono ami, le adulazioni sono ghirlande, i versi d’occasione sono cicale scoppiate. L’immagine delineata da Ariosto assume così tutta la valenza semantica di un simbolo.

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Di nodi d’oro e di gemmati ceppi
vede c’han forma i mal seguiti amori.
V’eran d’aquile artigli; e che fur, seppi,
l’autorità ch’ai suoi danno i signori.
I mantici ch’intorno han pieni i greppi,
sono i fumi dei principi e i favori
che danno un tempo ai ganimedi suoi,
che se ne van col fior degli anni poi.

Gli amori sono mal seguiti perché hanno richiesto un grave spreco di tempo e di energie. Il poeta non intende qui soltanto gli amori infelici, ma in generale tutti gli amori poiché, anche se “dorati”, avvincono gli uomini con nodi e catene, senza lasciare dunque spazio alla piena libertà del singolo.

L’autorità concessa dai potenti è rappresentata con gli artigli d’aquila perché l’artiglio stringe i governati, ma allo stesso tempo fa lo stesso con coloro che hanno ottenuto la carica, legandoli ai loro principi e imponendo loro la stretta osservanza dei loro desideri. Il potere è dunque un dono che si rivolge contro chi lo riceve.

Al settimo verso si cita Ganimede che era un giovane bellissimo assunto a essere il coppiere degli dèi. I ganimedi sono i favoriti dei principi, promossi a servire i signori in virtù della loro bella presenza: a essi è donato solo “fumo” e il favore dei principi fugge con la giovinezza dei destinatari, lasciandoli vecchi e soli una volta che hanno ottenuto il loro scopo

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Ruine di cittadi e di castella
stavan con gran tesor quivi sozzopra.
Domanda, e sa che son trattati, e quella
congiura che sì mal par che si cuopra.
Vide serpi con faccia di donzella,
di monetieri e di ladroni l’opra:
poi vide boccie rotte di più sorti,
ch’era il servir de le misere corti.

La struttura a catalogo impiegata da Ariosto ha la funzione di mostrare l’impossibilità dell’uomo di stabilire rapporti autentici. Nella società cortigiana a lui contemporanea tutto è falso, tutto è finzione. Ariosto può denunciare questo stato di cose non in modo diretto, ma solo attraverso le immagini e soltanto nel mondo irreale e “al contrario” che è la Luna. Questo mondo “altro” è dunque un mirabile artificio retorico che permette al poeta di denunciare l’ipocrisia della società in cui vive.

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Di versate minestre una gran massa
vede, e domanda al suo dottor ch’importe.
– L’elemosina è — dice — che si lassa
alcun, che fatta sia dopo la morte. –
Di varii fiori ad un gran monte passa,
ch’ebbe già buono odore, or putia forte.
Questo era il dono (se però dir lece)
che Constantino al buon Silvestro fece.

Si tratta della cosiddetta “donazione di Costantino”, con la quale l’imperatore Costantino avrebbe concesso al papa Silvestro I e ai suoi successori la sovranità temporale su vasti territori, tra cui Roma. Questo atto, che costituiva il fondamento giuridico del potere temporale dei papi, fu dimostrato essere falso dall’umanista Lorenzo Valla. Dalla falsità dei rapporti umani ai vari livelli non è nemmeno esente l’autorità ecclesiastica che ha tratto vantaggio da un documento falso.

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Vide gran copia di panie con visco,
ch’erano, o donne, le bellezze vostre.
Lungo sarà, se tutte in verso ordisco
le cose che gli fur quivi dimostre;
che dopo mille e mille io non finisco,
e vi son tutte l’occurrenzie nostre:
sol la pazzia non v’è poca né assai;
che sta qua giù, né se ne parte mai.

Anche la bellezza è dunque una finzione: proprio come una trappola ricoperta di vischio, l’avvenenza femminile è un’esca e un’insidia che intrappola e rende folle l’uomo. È significativo che il tema della bellezza compaia in questa ottava al fianco della pazzia, in modo da riassumere la storia di Angelica che con la sua bellezza ha fatto impazzire Orlando, tema sul quale si regge l’invenzione narrativa del Furioso

82
Quivi ad alcuni giorni e fatti sui,
ch’egli già avea perduti, si converse;
che se non era interprete con lui,
non discernea le forme lor diverse.
Poi giunse a quel che par sì averlo a nui,
che mai per esso a Dio voti non ferse;
io dico il senno: e n’era quivi un monte,
solo assai più che l’altre cose conte.

Ariosto introduce il tema del senno con una serie di ottave caratterizzate da una forte ironia. In questi versi il poeta ironizza sul fatto che gli uomini sono convinti di possedere la capacità di giudizio, tanto che mai nessuno ha pensato di chiederla a Dio in preghiera. Eppure sulla Luna ve n’è addirittura un monte, a significare che sulla Terra è andato perduto in gran quantità

83
Era come un liquor suttile e molle,
atto a esalar, se non si tien ben chiuso;
e si vedea raccolto in varie ampolle,
qual più, qual men capace, atte a quell’uso.
Quella è maggior di tutte, in che del folle
signor d’Anglante era il gran senno infuso;
e fu da l’altre conosciuta, quando
avea scritto di fuor: «Senno d’Orlando».

84
E così tutte l’altre avean scritto anco
il nome di color di chi fu il senno.
Del suo gran parte vide il duca franco;
ma molto più maravigliar lo fenno
molti ch’egli credea che dramma manco
non dovessero averne, e quivi denno
chiara notizia che ne tenean poco;
che molta quantità n’era in quel loco.

L’ironia del poeta giunge qui al culmine: nel vallone delle cose perdute Astolfo trova le ampolle ripiene del senno con i nomi dei loro proprietari. Nello specchio della Luna, dunque, Ariosto può mostrare che il vero mondo all’incontrario è la Terra, dove tutti credono di possedere qualità che in realtà non hanno. Ariosto insiste ancora sul tema della meraviglia (più maravigliar lo fenno) che caratterizza tutto il brano.

85
Altri in amar lo perde, altri in onori,
altri in cercar, scorrendo il mar, richezze;
altri ne le speranze de’ signori,
altri dietro alle magiche sciocchezze;
altri in gemme, altri in opre di pittori,
et altri in altro che più d’altro aprezze.
Di sofisti e d’astrologhi raccolto,
e di poeti ancor ve n’era molto.

L’intento del poeta è di rappresentare in chiave ironica le passioni umane e i caratteri della società cortigiana, che vengono così derisi e disprezzati. Il modello cui Ariosto si rifà è probabilmente da rintracciare nella Storia vera di Luciano di Samosata (II secolo d.C.), dove l’autore denuncia e irride le passioni più forti che agitano la vita degli uomini: il potere, la ricchezza, l’avarizia, la bellezza. Tali fini non hanno alcun valore, ma gli uomini si affannano comunque per raggiungerli, sacrificando la loro vita e il bene più prezioso: il senno.

86
Astolfo tolse il suo; che gliel concesse
lo scrittor de l’oscura Apocalisse.
L’ampolla in ch’era la naso sol si messe,
e par che quello al luogo suo ne gisse:
e che Turpin da indi in qua confesse
ch’Astolfo lungo tempo saggio visse;
ma ch’uno error che fece poi, fu quello
ch’un’altra volta gli levò il cervello.

[…]

Ariosto affida ad Astolfo l’incarico di ritrovare il senno d’Orlando perché è l’eroe più razionale ed equilibrato di tutto il poema. Sulla luna poi ritrova il proprio senno, ma Ariosto anticipa che lo perderà di nuovo: nessun cavaliere è perfetto.

L’episodio di Astolfo sulla luna è uno dei più famosi del poema, non solo per la svolta narrativa che imprime alla storia (recuperando il senno di Orlando, gli permetterà di tornare in battaglia e vincere la guerra), ma anche perché contiene la sintesi di tutto Ariosto: la vanità dei disegni umani, il ruolo della fortuna, l’amarezza nei confronti della vita di corte, l’autoironia sulla sua condizione di poeta, il dolce disinganno dell’amore.

1
Chi salirà per me, madonna, in cielo
a riportarne il mio perduto ingegno?
che, poi ch’uscì da’ bei vostri occhi il telo
che ‘l cor mi fisse, ognor perdendo vegno.
Né di tanta iattura mi querelo,
pur che non cresca, ma stia a questo segno;
ch’io dubito, se più si va scemando,
di venir tal, qual ho descritto Orlando.

L’incipit del canto successivo trasforma l’ironia dell’Ariosto in autoironia: nella prima ottava il poeta riferisce a se stesso la medesima sorte subita da Orlando e Astolfo, riprendendo il tema dell’invocazione della seconda ottava del primo canto.

2
Per riaver l’ingegno mio m’è aviso
che non bisogna che per l’aria io poggi
nel cerchio de la luna o in paradiso;
che ‘l mio non credo che tanto alto alloggi.
Ne’ bei vostri occhi e nel sereno viso,
nel sen d’avorio e alabastrini poggi
se ne va errando; ed io con queste labbia
lo corrò, se vi par ch’io lo riabbia.

Il senno di Ariosto, tuttavia, sarà recuperato semplicemente guardando gli occhi, il viso e i seni della donna amata. In questa ottava Ariosto introduce una raffinata ironia che ha come oggetto la tradizione letteraria. Qui, infatti, si trova una delle poche rime canoniche (paradiso/viso) attestata dai Siciliani a Dante e Petrarca; tuttavia Ariosto ribalta il significato della rima, che non allude alla donna angelo, ma alla contemplazione dei seni della propria amante, sottolineata ironicamente dalla rima equivoca di poggi. che mandano in paradiso l’innamorato.

L’ascesa al cielo perde in Ariosto tutte le valenze religiose e morali: la figura di san Giovanni ha più le prerogative di un mago buono che quelle religiose e morali di un santo. Anche la luna ha perduto ogni riferimetno al cielo in prospettiva soprannaturale, perché viene immaginata come un immenso deposito di oggetti smarriti. Terra e Luna assumono funzioni complementari: quello che non è qua si trova là e viceversa. Sulla Luna non c’è trccia di pazzia perché si trova tutta in Terra; d’altra parte la Luna è piena di senno perché sulla Terra ce n’é poco. La descrizione della Luna diviene dunque un modo indiretto per fare un’ironica rassegna delle vanità e delle follie umane, guardando al nostro pianeta da lontano, con uno sguardo distaccato e superiore.

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