La sera fiesolana
L’inizio del cammino di fusione con la natura. Laudi, libro III: Alcyone
Le 88 liriche di Alcyone sono ordinate secondo un disegno organico: è la rievocazione trasfigurata di una felice estate trascorsa in Versilia in compagnia della donna amata, Eleonora Duse, la grande attrice drammatica. Il tema dominante del mito di una vita vissuta in perfetta fusione con la natura è suddiviso in cinque sezioni in cui D’Annunzio rievoca la serena atmosfera di giugno, che prelude l’estate (1), esalta la pienezza solare di una stagione al suo culmine (2), racconta una serie di metamorfosi (3), che culminano con la fusione dell’uomo con la natura (4), descrive i primi segni di un’estate in declino (5).
In questa lirica il poeta si trova con la sua amata a Fiesole, da dove ha inizio la sua lunga vacanza estiva che sarà descritta nell’Alcyone, ed eleva un canto di lode alla fresca sera estiva e alla sua pace.
Metrica: tre strofe di quattordici versi rimati, di metro variabile (dal quinario al tredecasillabo, ma quasi sempre di misura dispari e con netta prevalenza di endecasillabi), ciascuna seguita da una coda di tre versi: endecasillabo; trisillabo + endecasillabo; quinario. Lo schema di rime è flessibile, ma non si danno versi sciolti.
Ogni strofa è composta da un unico lungo periodo, che si articola in ben quattordici versi. Questa particolarità sintattica viene risolta in modo sempre diverso: nella prima strofa il poeta impiega una concatenazione di relative e la reiterazione del nesso coordinante e par che.
La poesia può essere suddivisa in base alla sua struttura metrica, e cioè in tre parti, dal momento che a ogni strofa corrisponde un diverso nucleo tematico. Nella prima strofa, il poeta si rivolge alla donna descrivendole ciò che vede, ovvero la campagna toscana attorno a Fiesole sul far della sera, in un giorno di fine primavera.
Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscìo che fan le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie
silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta
su l’alta scala che s’annera
contro il fusto che s’inargenta
con le sue rame spoglie
mentre la Luna è prossima a le soglie
cerule e par che innanzi a sé distenda un velo
ove il nostro sogno si giace
e par che la campagna già si senta
da lei sommersa nel notturno gelo
e da lei beva la sperata pace
senza vederla.
Il poeta si rivolge direttamente alla sua amata, con la quale trascorrerà nella campagna toscana l’intera estate. La donna è al momento una figura ancora indeterminata e solo più avanti (come si vedrà nella Pioggia nel pineto) assumerà il nome mitologico di Ermione.
La sera sorprende il contadino che s’attarda a cogliere le foglie del gelso che servono da nutrimento ai bachi da seta. Il suo arrivo è indicato da due annotazioni coloristiche espresse dai verbi s’annera e s’inargenta: se gli oggetti perdono il loro colore per l’arrivo della notte, al contempo assumono una velatura argentina per la luce della luna che sta sorgendo.
Il riferimento alla raccolta delle foglie di gelso, che avveniva prima della mietitura, ci dice che siamo nel mese di giugno. Il velo di luce prodotto dalla luna diventa nell’ardita immaginazione del poeta una sorta di lenzuolo sul quale si adagia il sogno di pace e d’amore suo e della sua compagna.
Laudata sii pel tuo viso di perla,
o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace
l’acqua del cielo!
Nella terzina che costituisce la coda di ogni strofa il ricorrere della lode in questi ritornelli, come un’antifona liturgica, richiama il Cantico delle creature di san Francesco d’Assisi; ma se il Cantico di san Francesco è una lode a Dio attraverso l’enumerazione di ogni cosa da lui creata, la lode di D’Annunzio, al contrario, è una divinizzazione della natura attraverso il canto poetico.
Nella seconda strofa, il poeta ricorda alla sua amata (e al lettore) la pioggia che ha ricoperto la campagna durante la giornata appena trascorsa.
Dal punto di vista sintattico, anche questa seconda strofa (come già la prima) è composta da un unico periodo. Il poeta procede qui per elencazioni, reiterando la preposizione su, legata in coordinazione (e), in modo da enumerare le varie piante su cui la pioggia è caduta.
Dolci le mie parole ne la sera
ti sien come la pioggia che bruiva
tepida e fuggitiva,
commiato lacrimoso de la primavera,
su i gelsi e su gli olmi e su le viti
e su i pini dai novelli rosei diti
che giocano con l’aura che si perde,
e su ’l grano che non è biondo ancóra
e non è verde,
e su ’l fieno che già patì la falce
e trascolora,
e su gli olivi, su i fratelli olivi
che fan di santità pallidi i clivi
e sorridenti.
Il grano non è ancora del tutto maturo, ma ormai non è più verde. Il fieno è già stato falciato ed è lasciato sul terreno a essiccare (per questo trascolora, cioè cambia colore). Questi dati descrittivi collocano il tempo della narrazione sul finire della primavera. Peraltro già al v. 21 il poeta ha parlato di commiato lacrimoso della primavera.
La scelta dell’aggettivo fratelli per indicare un elemento della natura non è casuale. Si tratta anzi di una precisa citazione del Cantico delle creature di san Francesco, che nella sua poesia salutava tutte le creature come fratelli e sorelle.
Laudata sii per le tue vesti aulenti,
o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce
il fien che odora!
La figura fondamentale che regge il componimento dal punto di vista retorico e figurativo, in particolare in questa strofa, è la personificazione: la primavera saluta piangendo (commiato lacrimoso), i pini hanno rosei diti, il fieno patì la falce che lo tagliò, i clivi sono sorridenti, la Sera indossa vesti profumate (aulenti) e ha una cintura che la cinge. Questa personificazione reiterata prepara l’avvicinamento dell’io lirico alla natura e la fusione in essa: l’uomo è parte integrante della natura e obbedisce alle medesime leggi.
Nella terza strofa, descrivendo il mormorio del fiume Arno e il profilo dei colli, il poeta annuncia il mistero della natura, mentre la sera a poco a poco si muta nella notte.
Dal punto di vista sintattico, anche la terza strofa (come già le precedenti) è composta da un unico periodo. Qui il poeta ottiene un blocco fortemente coeso grazie all’anafora di ti dirò.
Io ti dirò verso quali reami
d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti
eterne a l’ombra de gli antichi rami
parlano nel mistero sacro dei monti;
e ti dirò per qual segreto
le colline su i limpidi orizzonti
s’incùrvino come labbra che un divieto
chiuda, e perché la volontà di dire
le faccia belle
oltre ogni uman desire
e nel silenzio lor sempre novelle
consolatrici, sì che pare
che ogni sera l’anima le possa amare
d’amor più forte.
La natura, con il suo mistero sacro, è vissuta attraverso il filtro di una religiosità quasi pagana, che vedeva le montagne, le fonti e i boschi popolati di ninfe e altre divinità.
In questa strofa la fitta trama di rime, assonanze e allitterazioni dona ai versi una intensa musicalità e mira a costruire quell’armonia che, idealmente, l’uomo deve condividere con la natura.
Laudata sii per la tua pura morte,
o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare
le prime stelle!
Il Cantico delle creature di san Francesco si chiudeva con la lode a Dio per la morte (anch’essa, come altri elementi della natura, sorella dell’uomo). Anche il testo dannunziano evoca la pura morte, ma si tratta di una morte metaforica, quella cioè della sera che si trasforma nella notte.
La poesia è uno dei risultati migliori della maestria di D’Annunzio nell’intonare musicalmente il discorso lirico. Le tre strofe sono tre movimenti musicali, avviati dalla ripresa tematica quasi identica nelle prime due, conclusi dalla triplice laude che si ripete mutata nelle immagini, ma con la stessa cadenza di sacra litania.
L’interesse di D’Annunzio, dandy spendaccione e mondano, per san Francesco è comprensibile per il fascino per il Medioevo primitivo che accomuna diversi artisti del periodo liberty; D’Annunzio, in particolare, doveva trovare affascinante nel santo non certo l’aspetto più propriamente religioso, che anzi gli rimane sempre estraneo, quanto il suo rapporto genuino e diretto con la natura.