La signorina Felicita, ovvero la Felicità

Guido Gozzano, I colloqui

Luca Pirola
15 min readFeb 14, 2024
Telemaco Signorini, Sulle colline a Settignano, 1885

La signorina Felicita è il componimento più celebre di Gozzano, in cui il poeta offre una rappresentazione letteraria della sensibilità crepuscolare, quasi una sua messa in scena che il poeta allestisce con lo sguardo distaccato dell’ironia.

Il poeta, in villeggiatura nel Canavese, viene presentato dal farmacista del luogo come un promettente avvocato e viene accolto nell’antica Villa Amarena, dove ora abita un commerciante agricolo con la figlia Felicita. La donna, nonostante sia poco istruita e poco attraente, intreccia una tenera relazione d’amore con il poeta. La signorina felicita è semplice, ingenua, priva di cultura, ma rappresenta un ideale di vita elementare e sano, lontano dalle astrazioni proprie del mondo dell’arte a cui il poeta è legato. Il legame sentimentale, tuttavia, viene bruscamente interrotto, sia per ragioni sociali, sia perché il poeta non riesce ad abbandonarsi a facili sentimenti romantici.

Schema metrico: strofe di sei endecasillabi concatenati secondo un sistema variabile ma sempre binario di rime. Lo schema di rime principale è ABBAAB. Gli schemi secondari sono ABABAB, ABABBA e ABBABA.

É sera e il poeta torna con il ricordo alla Signorina Felicita e alla sua casa, Villa Amarena, depositaria di un passato cadente e ingrigito, ma il cui fascino dipende proprio dalla malinconia che suscita

I.

Signorina Felicita, a quest’ora
scende la sera nel giardino antico
della tua casa. Nel mio cuore amico
scende il ricordo. E ti rivedo ancora,
e Ivrea rivedo e la cerulea Dora
e quel dolce paese che non dico.

Signorina Felicita, è il tuo giorno!
A quest’ora che fai? Tosti il caffè:
e il buon aroma si diffonde intorno?
O cuci i lini e canti e pensi a me,
all’avvocato che non fa ritorno?
E l’avvocato è qui: che pensa a te.

Il giardino, la casa, il ricordo: sono definiti in pochi tratti gli spazi dell’azione della Signorina Felicita, gli spazi in cui il poeta vuole stare. La luce del tramonto e propriamente crepuscolare: in quest’ora scende il ricordo mentre scende la sera.
Collocata la vicenda in un luogo della provincia piemontese, a Ivrea (v.5), Gozzano delimita dal principio i confini della sua visione, contenuta in un giardino antico e poi riportata nel chiuso di una stanza, con il caffè tostato e i lini (vv. 8–9), o nella cucina tra le stoviglie (vv.109–110).

Pensa i bei giorni d’un autunno addietro,
Vill’Amarena a sommo dell’ascesa
coi suoi ciliegi e con la sua Marchesa
dannata, e l’orto dal profumo tetro
di busso e i cocci innumeri di vetro
sulla cinta vetusta, alla difesa…

L’uso delle doppie (autunno, addietro, villa, sommo, dannata, busso, cocci innumeri) rendono accorata l’intensità del ricordo.

Vill’Amarena! Dolce la tua casa
in quella grande pace settembrina!
La tua casa che veste una cortina
di granoturco fino alla cimasa:
come una dama secentista, invasa
dal Tempo, che vestì da contadina.

Bell’edificio triste inabitato!
Grate panciute, logore, contorte!
Silenzio! Fuga dalle stanze morte!
Odore d’ombra! Odore di passato!
Odore d’abbandono desolato!
Fiabe defunte delle sovrapporte!

Ercole furibondo ed il Centauro,
le gesta dell’eroe navigatore,
Fetonte e il Po, lo sventurato amore
d’Arianna, Minosse, il Minotauro,
Dafne rincorsa, trasmutata in lauro
tra le braccia del Nume ghermitore…

Il tramonto è il momento e il colore della nostalgia, la quale a sua volta si materializza nell’aspetto di Villa Amarena triste e inabitata, e nel suo odore che ugualmente sa di ombra, di passato, di abbandono desolato. Specularmente, la malinconia — altro sentimento “crepuscolare” — si materializza nella rappresentazione dell’interno della villa, nell’arredo, negli oggetti desueti che sono una costante della poesia di Gozzano.

Penso l’arredo — che malinconia! -
penso l’arredo squallido e severo,
antico e nuovo: la pirografia
sui divani corinzi dell’Impero,
la cartolina della Bella Otero
alle specchiere… Che malinconia!
Antica suppellettile forbita!

Armadi immensi pieni di lenzuola
che tu rammendi pazïente… Avita
semplicità che l’anima consola,
semplicità dove tu vivi sola
con tuo padre la tua semplice vita!

Si definiscono così gli spazi angusti e tranquilli, domestici di una quotidianità più che piana, cui corrisponde un campionario di oggetti e azioni insolti per la tradizione poetica, perché comuni: il caffè tostato, i lini, i divani, la cartolina, la specchiera, le lenzuola, i tappeti …

Gozzano usa ancora la geminatio (la ripetizione di elementi indentici) dando origine a ripetute anafore e un’epifora: Signorina Felicita (vv. 1 e 7), Penso l’arredo (vv. 37 e 38), che malinconia! (vv.37 e 42) e semplicità (vv. 46 e 47).

La memoria va poi all’aspetto della donna, alla sua bellezza non canonica, discreta e non appariscente: risulta particolarmente incisiva l’esaltazione della bruttezza che, presentata in modo ironico, Gozzano ci rende cara.

III
Sei quasi brutta, priva di lusinga
nelle tue vesti quasi campagnole,
ma la tua faccia buona e casalinga,
ma i bei capelli di color di sole,
attorti in minutissime trecciuole,
ti fanno un tipo di beltà fiamminga…

La terza sezione del componimento inizia con un ritratto, in alcuni punti davvero impietoso, di Felicita. La donna si presenta subito distante dal canone tracciato dalla nostra tradizione lirica; il poeta la definisce quasi brutta, completamente priva di fascino, e tuttavia la faccia buona e casalinga e le trecciuole le danno un tocco di beltà fiamminga, di una semplicità però un po’ grossolana

E rivedo la tua bocca vermiglia
così larga nel ridere e nel bere,
e il volto quadro, senza sopracciglia,
tutto sparso d’efelidi leggiere
e gli occhi fermi, l’iridi sincere
azzurre d’un azzurro di stoviglia…

Come le donne della tradizione letteraria, anche Felicita ha le labbra rosse e gli occhi azzurri, ma la descrizione che ne fa Gozzano ribaltano totalmente l’idea tradizionale della bellezza femminile: Felicita è sgraziata nel ridere e nel bere (bocca… larga), ha un volto quadro(dai lineamenti non delicati, più simili a quelli di un uomo che di una donna) e l’azzurro dei suoi occhi ricorda non quello chiaro e luminoso del cielo, ma quello un po’ opaco delle stoviglie.

Gozzano fa “cozzare l’aulico con il prosaico” (Eugenio Montale), ricorrendo a due registri di lingua e stile diversi: l’uno elevato e sublime, l’altro comune, quotidiano e basso.

Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
rideva una blandizie femminina.
Tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina:
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

La conquista cittadina contro quella di campagna. Inizia un sommesso raffronto tra il sofisticato mondo cittadino e quello semplice e dimesso della provincia, con le sue figure umane: il farmacista (v.93) e l’inclito collegio politico locale (vv.104–105).

Nonostante Felicita sia una borghesuccia poco istruita, il poeta ne è conquistato in virtù del desiderio manifesto della donna di piacere a lui, così diverso dalla malizia delle donne sofisticate di città. La giovane mette in campo una serie di civetterie e blandizie, per la verità un po’ goffe, che lo lusingano. Si noti la presenza di un lessico tipico della tradizione, come in sottili schermi.

Ogni giorno salivo alla tua volta
pel soleggiato ripido sentiero.
Il farmacista non pensò davvero
un’amicizia così bene accolta,
quando ti presentò la prima volta
l’ignoto villeggiante forestiero.

Il poeta nel settembre 1907 si trova in villeggiatura in una località del Canavese e il farmacista locale lo ha presentato come giovane e promettente avvocato al commerciante e alla figlia Felicita, che abitano nell’antica Villa Amarena. Si noti come al primo distico di questa strofa, di tono dichiaratamente lirico, facciano da contraltare i quattro versi successivi, di marcato tono ironico.

Il poeta ricorda poi la frequentazione quotidiana di Villa Amarena, scandita dal silenzio, dai gesti banali e ripetuti, e dal nascere dei versi nella sua mente.

Talora — già la mensa era imbandita -
mi trattenevi a cena. Era una cena
d’altri tempi, col gatto e la falena
e la stoviglia semplice e fiorita
e il commento dei cibi e Maddalena
decrepita, e la siesta e la partita…

Il poeta narra della monotona e tranquillizzante vita a Villa Amarena, la cena, con la presenza del gatto e delle falene, e la partita a carte per la quale arrivano alla villa i “notabili” del paese: il notaio, il sindaco e il dottore. Ma egli, invece di giocare, preferisce starsene in cucina a meditare sulla propria vita e la propria malattia. L’uso della coordinazione nella descrizione della cena riesce a rappresentare il momento conviviale in tutta la sua piacevole, prolungata durata.

Per la partita, verso ventun’ore
giungeva tutto l’inclito collegio
politico locale: il molto Regio
Notaio, il signor Sindaco, il Dottore;
ma — poiché trasognato giocatore -
quei signori m’avevano in dispregio…

M’era più dolce starmene in cucina
tra le stoviglie a vividi colori:
tu tacevi, tacevo, Signorina:
godevo quel silenzio e quegli odori
tanto tanto per me consolatori,
di basilico d’aglio di cedrina…

Maddalena con sordo brontolio
disponeva gli arredi ben detersi,
rigovernava lentamente ed io,
già smarrito nei sogni più diversi,
accordavo le sillabe dei versi
sul ritmo eguale dell’acciottolio.

Sotto l’immensa cappa del camino
(in me rivive l’anima d’un cuoco
forse…) godevo il sibilo del fuoco;
la canzone d’un grillo canterino
mi diceva parole, a poco a poco,
e vedevo Pinocchio e il mio destino…

Vedevo questa vita che m’avanza:
chiudevo gli occhi nei presagi grevi;
aprivo gli occhi: tu mi sorridevi,
ed ecco rifioriva la speranza!
Giungevano le risa, i motti brevi
dei giocatori, da quell’altra stanza.

Sono frequentissimi gli echi letterari nelle strofe di Gozzano (da Dante, Petrarca, Pascoli, Leopardi) a volte come citazioni esplicite (l’erba cedrina, v.114, è una diretta citazione pascoliana), altre come semplici affioramenti di una memoria poetica ormai sedimentata e qusi involontaria (la vita che m’avanza, v.127, rimanda al petrarchesco A quel poco di viver che m’avanza dell’ultimo sonetto del Canzoniere); queste citazioni alludono a una tradizione poetica che si accumula nei suoi versi con connotazioni mutate rispetto all’originale.

La quarta sezione del componimento mostra un momento del corteggiamento, il cui sfondo non è costituito da una scenografia tradizionale (come un giardino, un salotto elegante ecc.), ma da una soffitta, utilizzata oltretutto come deposito delle cianfrusaglie accumulate nei secoli. È questo un esempio del depotenziamento della tradizione lirica tipico della poetica di Gozzano.

IV
Bellezza riposata dei solai
dove il rifiuto secolare dorme!
In quella tomba, tra le vane forme
di ciò ch’è stato e non sarà più mai,
bianca bella così che sussultai,
la Dama apparve nella tela enorme:

Il termine tomba nel secondo verso della strofa è una metafora per indicare come le soffitte si riempiano di oggetti vecchi, inutilizzati e dunque morti. Nei primi quattro versi compaiono elementi lessicali appartenenti al sistema semantico dell’obsolescenza e del rifiuto: riposata, rifiuto, dorme, tomba, vane forme, mai più.

Lo sguardo del poeta si posa su questi venerandi oggetti impolverati, a cui si è affezionati provando un po’ di vergogna, come sulle citazioni letterarie che lui stesso inserisce nel testo. É il sentimento che emerge nella sezione VI quando Gozzano dichiara di vergognarsi del proprio essere poeta.

Nel quinto verso la coppia di aggettivi bianca e bella è presente da sempre nella tradizione letteraria come stilema tipico per descrivere la purezza e la bellezza di una donna o di alcune sue parti del corpo. Qui l’impiego è però virato in funzione ironica: il biancore della Dama non è infatti quello della virginea delicatezza dell’incarnato, ma quello della morte, e il suo pallore è quello dei fantasmi.

«È quella che lasciò, per infortuni,
la casa al nonno di mio nonno… E noi
la confinammo nel solaio, poi
che porta pena… L’han veduta alcuni
lasciare il quadro; in certi noviluni
s’ode il suo passo lungo i corridoi…»

Il nostro passo diffondeva l’eco
tra quei rottami del passato vano,
e la Marchesa dal profilo greco,
altocinta, l’un piede ignudo in mano,
si riposava all’ombra d’uno speco
arcade, sotto un bel cielo pagano.

La Marchesa, ex proprietaria della villa, costretta a vendere l’immobile per debiti, è “confinata” nella soffitta. Il suo ritratto rispetta i canoni dell’iconografia settecentesca e Gozzano ne descrive i caratteri con un lessico e una sintassi ironicamente classicheggianti: altocinta… l’un piede ignudo in mano… speco arcade.

Intorno a quella che rideva illusa
nel ricco peplo, e che morì di fame,
v’era una stirpe logora e confusa:
topaie, materassi, vasellame,
lucerne, ceste, mobili: ciarpame
reietto, così caro alla mia Musa!

Tra i materassi logori e le ceste
v’erano stampe di persone egregie;
incoronato delle frondi regie
v’era Torquato nei giardini d’Este.
«Avvocato, perché su quelle teste
buffe si vede un ramo di ciliegie?»

Il poeta ambienta il proprio breve idillio con la giovane nella soffitta, un luogo assolutamente non canonico per la poesia amorosa. Queste cianfrusaglie ormai inutili hanno su Gozzano una grande attrattiva: esse rappresentano ciò che è passato e concluso, e simboleggiano quel destino di morte che il poeta, malato, condivide con loro. Non per nulla il solaio è definito una tomba.

Felicita, che nella sua ignoranza confonde l’alloro che incorona la testa di Torquato Tasso con un ramo di ciliegie, è esattamente il contrario delle donne raffinate che la letteratura di stampo romantico e poi dannunziano aveva cantato.
Nel solaio di Villa Amarena viene ribaltata tanto l’idea dell’amore quanto quella della stessa letteratura, incarnata dall’effigie di Tasso: una “testa buffa” coronata da un ramo di ciliegie.
La battuta di Felicita dissacra una plurisecolare tradizione culturale. Il riso di Gozzano — all’inizio della strofa successiva — non è segno di superiorità, ma anzi una mesta considerazione della fine inesorabile cui vanno incontro tutte le imprese umane. Tasso, il cui destino è quello di riposare in una buia soffitta, non fa altro che simboleggiare la sorte di ogni poeta (Gozzano incluso), destinato all’oblio

Io risi, tanto che fermammo il passo,
e ridendo pensai questo pensiero:
Oimè! La Gloria! un corridoio basso,
tre ceste, un canterano dell’Impero,
la brutta effigie incorniciata in nero
e sotto il nome di Torquato Tasso!

In questi versi trova spazio una malinconica riflessione sulla gloria. Nella moderna società borghese, la poesia ha scarso valore, tanto da finire in soffitta insieme ad altri oggetti inutili. Gozzano, poeta malato e perciò impossibilitato a fare altro nella vita, non può che restare fedele alla poesia, seppure consapevole della sua qualità illusoria e, in fin dei conti, della sua inutilità.
La letteratura, tuttavia, rimane l’unico modo possibile per rappresentare una condizione di reale malinconia, legata al distacco.

L’innamoramento, vagheggia il poeta, avrebbe potuto condurlo al matrimonio con una donna così lontana da lui, così lontana dalla sua vocazione letteraria, e proprio per questo in qualche modo agognata, come incarnazione di una “vita concreta”.

[…]

VI
Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
luceva una blandizie femminina;
tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina;
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

Nella sesta parte, l’io lirico medita sulla propria sorte e considera l’ipotesi di cambiare vita in modo radicale: sposare Felicita, dedicarsi agli affari e abbandonare la letteratura. L’intera strofa ripete i versi già presenti nella terza parte, in modo da sottolineare il tema amoroso del poemetto, che ora giunge alla sua conclusione

Unire la mia sorte alla tua sorte
per sempre, nella casa centenaria!
Ah! Con te, forse, piccola consorte
vivace, trasparente come l’aria,
rinnegherei la fede letteraria
che fa la vita simile alla morte…

Gozzano vagheggia una possibile alternativa di vita legando la propria sorte a quella di Felicita. Ma che cos’ha la ragazza per attrarre il poeta? Non è bella, non è intelligente né istruita: eppure rappresenta il mondo sano della campagna, sincero e semplice, incontaminato dalle sottigliezze della cultura. Un ideale per certi versi ancora “pascoliano”, ma che Gozzano rilegge con un marcato senso ironico.
Il tema dell’essere poeta è introdotto qui e ripreso ai versi 320 e 326 (Ed io non voglio più essere io!). La letteratura è sentita come un ostacolo ad aderire alla vita.

Oh! questa vita sterile, di sogno!
Meglio la vita ruvida concreta
del buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sferzati dal bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno,
sì, mi vergogno d’essere un poeta!

Gozzano contrappone la vita sterile, di sogno della letteratura a quella ruvida concreta del mercante. Scegliere Felicita significherebbe dunque abbandonare la propria vocazione letteraria e seguire un’altra strada. La vita del poeta è fatta di sogni sterili e di illusioni ed è per questo che egli se ne “vergogna”. Gozzano rappresenta l’intellettuale di inizio secolo, in crisi perché portatore di valori ormai estranei a quelli della società del suo tempo.

IN questi versi si maifesta molto della crisi che investe la figura e la funzione del poeta nei primi anni del Novecento: Gozzano esprime così i limiti dell’arte nella società di massa, ridotta ad attività vergognosa e inconcludente, alla quale resta solo la possibilità di recitare e fingere. La letteratura è un modo come un altro per esprimere, attraverso la recita e la finzione (cioè attraverso le strutture e i temi tradizionali), qualcosa di autentico.

Tu non fai versi. Tagli le camicie
per tuo padre. Hai fatta la seconda
classe, t’han detto che la Terra è tonda,
ma tu non credi… E non mediti Nietzsche…
Mi piaci. Mi faresti più felice
d’un’intellettuale gemebonda…

Facendo rimare il nome di un oggetto di uso comune (camicie) con il nome proprio di un grande filosofo (Nietzsche) Gozzano apre la strada all’uso ironico della rima che accosta elementi opposti.

Tu ignori questo male che s’apprende
in noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti,
tutta beata nelle tue faccende.
Mi piaci. Penso che leggendo questi
miei versi tuoi, non mi comprenderesti,
ed a me piace chi non mi comprende.

Nella riflessione conclusiva Gozzano confronta se stesso e i suoi valori con Felicita e le sue certezze. Felicita si fida più della propria esperienza diretta che di quel poco che ha appreso a scuola, frequentata fino alla seconda elementare. La rima camicie: Nietzsche esprime bene lo scontro tra questi due mondi, in chiave dissacratoria, dove nemmeno il più tormentato e celebre filosofo dell’epoca è risparmiato dall’ironia corrosiva di Gozzano

Ed io non voglio più essere io!
Non più l’esteta gelido, il sofista,
ma vivere nel tuo borgo natio,
ma vivere alla piccola conquista
mercanteggiando placido, in oblio
come tuo padre, come il farmacista…

Ed io non voglio più essere io!

Emerge il rapporto conflittuale con un estetismo che è presente in Gozzano, reale o appositamente coltivato, ma frustrato e limitato. Montale scriverà che Gozzano attraversa “d’Annunzio per approdare a un territorio suo”. Infatti nel suo esame di coscienza, pur condotto con estrema e raffinata ironia, Gozzano è sincero: egli accarezza l’idea di abbandonare per sempre la poesia per conquistare una posizione piccolo-borghese. Ma egli è poeta e tale rimarrà, pur nella consapevolezza dell’inutilità della poesia — e del poeta stesso — nella società del suo tempo.

Questo rinnegamento che suggella il poemetto non investe solo la poesia, ma la vita stessa del poeta: la dichiarazione di non voler più essere se stesso è anche un’estrema fuga dalla sua condizione di uomo malato e destinato a una morte precoce. Il male della letteratura per Gozzano è, infatti, una malattia troppo dolce per potersene liberare e, nonostante la protesta di non voler più essere se stesso (Ed io non voglio più essere io! v.326) egli sa già che la vita ruvida e concreta (v.303) di Felicita non è adatta a lui.

Torna infine alla mente la separazione, alla fine dell’estate, un distacco che (come la casa e la signorina Felicita) ha caratteri d’altri tempi.

VIII.

Nel mestissimo giorno degli addii
mi piacque rivedere la tua villa.
La morte dell’estate era tranquilla
in quel mattino chiaro che salii
tra i vigneti già spogli, tra i pendii
già trapunti da bei colchici lilla.

Forse vedendo il bel fiore malvagio
che i fiori uccide e semina le brume,
le rondini addestravano le piume
al primo volo, timido, randagio;
e a me randagio parve buon presagio
accompagnarmi loro nel costume.

«Vïaggio con le rondini stamane…»
«Dove andrà?» — «Dove andrò? Non so… Vïaggio,
vïaggio per fuggire altro vïaggio…
Oltre Marocco, ad isolette strane,
ricche in essenze, in datteri, in banane,
perdute nell’Atlantico selvaggio…

Signorina, s’io torni d’oltremare,
non sarà d’altri già? Sono sicuro
di ritrovarla ancora? Questo puro
amore nostro salirà l’altare?»
E vidi la tua bocca sillabare
a poco a poco le sillabe: giuro.

Giurasti e disegnasti una ghirlanda
sul muro, di viole e di saette,
coi nomi e con la data memoranda:
trenta settembre novecentosette
Io non sorrisi. L’animo godette
quel romantico gesto d’educanda.

Le rondini garrivano assordanti,
garrivano garrivano parole
d’addio, guizzando ratte come spole,
incitando le piccole migranti…
Tu seguivi gli stormi lontananti
ad uno ad uno per le vie del sole…

«Un altro stormo s’alza!…» — «Ecco s’avvia!»
«Sono partite…» — «E non le salutò!…»
«Lei devo salutare, quelle no:
quelle terranno la mia stessa via:
in un palmeto della Barberia
tra pochi giorni le ritroverò…»

Giunse il distacco, amaro senza fine,
e fu il distacco d’altri tempi, quando
le amate in bande lisce e in crinoline,
protese da un giardino venerando,
singhiozzavano forte, salutando
diligenze che andavano al confine…

M’apparisti così come in un cantico
del Prati, lacrimante l’abbandono
per l’isole perdute nell’Atlantico;
ed io fui l’uomo d’altri tempi, un buono
sentimentale giovine romantico…

Quello che fingo d’essere e non sono!

La scena immaginata dal poeta è quella, tipica del Romanticismo risorgimentale italiano, in cui il patriota, costretto all’esilio per evitare la persecuzione austriaca, saluta l’amata prima di avviarsi verso il confine. Il Prati, citato al verso 430, è Giovanni Prati, poeta e patriota risorgimentale autore di versi che fanno leva su un appassionato patetismo. La letteratura e l’ironia che su di essa si esercita si insinuano anche nei momenti di più intensa commozione. Il poeta non può fare a meno di trasfigurare il suo presente in un immaginario intriso di romanticismo di maniera di cui sorridere con distacco.

Per un attimo il poeta fantastica di poter condividere la vita attiva trovando nel matrimonio con la semplice e ingenua Felicita una redenzione del proprio male letterario. Anche questo non è altro che uno sterile sogno romantico (fui un buono sentimentale giovine romantico), che non può appartenere a Gozzano, che non è un poeta romantico e al massimo può fingere di esserlo (Quello che fingo d’essere e non sono!). La finzione è resa ancora più evidente se messa a paragone con l’ingenuità della fanciulla che al momento dell’addio giura di attendere il suo avvocato e piange. Per questo, per quanto amaro e senza fine (v. 423) possa essere il distacco dal sogno di felicità, il poeta non ha mai dubitato che esso sarebbe giunto a porre termine al suo vagheggiamento di un’esistenza lontana dalla sua fede letteraria.

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