La vana ricerca della solitudine
Solo et pensoso i più deserti campi
Travolto dalla passione e dalla vergogna, il poeta si reca in luoghi isolati per non farsi vedere dagli altri. Nonostante ciò, per quanto cerchi di rifugiarsi nella natura, l’Amore lo insegue, perché il travaglio è dentro il suo animo, non fuori. Il paesaggio — composta da monti, fiumi e boschi — diventa l’unico testimone del tormento interiore dell’io lirico.
La necessità di tener nascosto l’amore è uno dei topoi della lirica cortese, perché l’amore, sentimento intimo e prezioso, sarebbe involgarito se andasse sulle bocche altrui. Petrarca dà a questo tema tradizionale un’espressione nuova e toccante, infatti lo inserisce in una situazione precisa, creando la figura dell’innamorato che vaga alla ricerca della solitudine in un colloquio assorto con il paesaggio.
metro: sonetto con rime ABBA, ABBA, CDE, CDE
Solo et pensoso i piú deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l’arena stampi.
I primi due versi definiscono il ritmo lento del passo dell’io lirico, riprendendo lo scorrere della sua meditazione. Il verbo vo mesurando (v.2) amplifica tale concetto poiché rende l’immagine di un camminare candenzato, come di colui che stia misurando uno spazio. Passi e pensieri corrispondono, l’errare fisico e mentale si identificano perché ogni passo si traduce in una riflessione. La dimensione solitaria della meditazione si rispecchia nella natura deserta, senza tracce di vita umana.
Lo stesso effetto di rallentamento è dato dalle endiadi solo et pensoso (v.1) e tardi et lenti (v.2) nonché dall’anomalo andamento sintattico dei versi 3 e 4, caratterizzato dall’anastrofe (la costruzione regolare sarebbe: “et porto gli occhi intenti per fuggire ove vestigio human stampi l’arena”); L’effetto è quello di uno studiato rallentamento del ritmo che accompagna la lentezza dei passi del soggetto, ma comunica anche un sentimento di ansia, che connota il senso di raccoglimento del poeta.
La scelta di utilizzare un presente atemporale, vago e indefinito, per descrivere il suo tormento indica la volontà di delineare non uno stato d’animo passeggero e occasionale, ma una condizione esistenziale dell’io, un tratto esemplare e costitutivo della personalità dell’io lirico.
Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi:
Il poeta vuole fuggire alle chiacchiere delle genti (v.6), che giudicherebbero la sua situazione di innamorato: nonostante la passione e il travaglio siano tutti interiori, l’aspetto triste e dimesso permette che si interpreti facilmente la condizione psicologica del poeta.
La vocazione alla solitudine è un’autodifesa dalle sofferenze e dalla curiosità del volgo, ma diventa occasione per un più profonda introspezione.
La lentezza del ritmo è data anche dalla sintassi: ogni quartina è occupata da un periodo diviso in due frasi di pari lunghezza, in questo modo le strofe sono scandite in due coppie di versi.
sí ch’io mi credo omai che monti et piagge
et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch’è celata altrui.
Il paesaggio è chiamato a testimone del travaglio interiore, infatti l’io lirico costruisce una corrispondenza diretta tra la natura e lo stato d’animo, tanto che uno diventa proiezione dell’altro. Il paesaggio in cui il poeta cerca conforto corrisponde ai suoi sentimenti, infatti i campi appaiono deserti e la natura circostante si riduce a uno scarno elenco di tipologie di luoghi. Il paesaggio in cui l’io lirico cerca rifugio è, dunque, un luogo descritto per rapidi accenni, non caratterizzato: i sostantivi utilizzati per descriverlo sono generici e l’aggettivazione è vaga e scarsa. Gli spazi che il poeta ricerca non hanno un valore in sé, ma, funzionali al suo raccoglimento interiore, sono lo sfondo indistinto e impreciso su cui egli proietta il suo stato d’animo quindi i luoghi si fanno una proiezione fisica della sofferenza interiore.
La natura, perciò, diventa uno spazio mentale, non fisico: attraversare boschi, fiumi e monti è percorrere il paesaggio della propria anima. Petrarca per primo traduce la condizione intima e soggettiva nelle vie aspre e selvaggedella natura.
Il polisindeto con l’insistenza della congiunzione et (vv.9–10) accelera il ritmo da un verso all’altro grazie anche all’enjambement.
Ma pur sí aspre vie né sí selvagge
cercar non so ch’Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co llui.
In realtà Petrarca non è solo, perché Amore è sempre con lui, Amore è interiorizzato, diventa una presenza costante e ossessiva nell’animo dell’io lirico, incapace di sottrarsi alla sua forza. Monologo e dialogo si compenetrano, dando l’idea del conflitto interiore, parlare con se stessi è parlare con Amore, parlare con Amore è parlare con se stessi.
La perifrasi venga … ragionando (vv. 13–14) sottolinea la durata dell’azione, accentuata inoltre dall’avverbio sempre (v.13) e dall’enjambement: Amore è una presenza insidiosa che non dà tregua all’io lirico.
Anche le terzine hanno un’organizzazione sintattica binaria, avendo una pausa a metà del verso centrale, da cui consegue una distribuzione alternata di enjambements più o meno marcati.
La struttura binaria è ripresa nelle frequenti endiadi che, già individuate nella prima quartina, si ritrovano in monti et piagge/et fiumi et selve (vv.9–10), aspre … selvagge (v.12), e di antitesi, come fuor … dentro (v.8) e spenti … avvampi (vv.7–8); tale armonica struttura formale rimarca per contrasto le tensioni dell’animo frammentato, che la poesia tenta di placare.