La vita non conclude
Uno, nessuno centomila di Luigi Pirandello
“noi pensiamo di essere uno, ma gli altri come ci vedono? Ciascuno a modo suo, e noi non siamo uno, ma centomila: il che significa essere nessuno” (Vitangelo Moscarda)
Vitangelo Moscarda ha scoperto un giorno, in conseguenza dell’osservazione della moglie, di avere un naso diverso da come pensava. Di lì comincia il suo male e inizia a chiedere a chiunque come lo vede; roso dalla disperazione, cerca di rompere le forme che gli hanno imposto gli altri e trovare la sua vera identità. Dona la casa a un inquilino che aveva sfrattato, regala i suoi beni, mette in crisi il matrimonio. Un’amica, seguendo le sue fissazioni, impazzisce e tenta di ucciderlo. Ritenuto folle, è rinchiuso nell’ospizio dei poveri, dove raggiunge la felicità: nel giardino del ricovero cercala vita “non più in sé, ma in ogni cosa fuori”, negli alberi, nelle nuvole, nel vento … Vitangelo è approdato alla certezza di non essere “uno” ma “centomila” e perciò nessuno. Rinunciando a tutto, anche al suo nome, Vitangelo è finalmente in pace con se stesso.
Nelle ultime pagine del romanzo (libro VIII, capitolo IV dal titolo Non conclude) troviamo Vitangelo Moscarda nell’ospizio di mendicità, alla cui costruzione ha contribuito con i suoi averi; ha rinunciato anche al proprio nome, perché non vuole essere più nessuno.
Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita;
Moscarda non vuole più avere un nome, perché non vuole più essere nessuno: i nomi che definiscono le cose come oggetti esterni a noi, finiscono col sostituirsi per noi alle cose stesse, tanto che senza nome non le percepiamo neppure.
ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace non ne parli piú. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude.
La vita non conclude perché essendo un continuo fluire, la vita non sopporta i nomi che sono solo una «forma». Partito dallo specchio , in quel suo inseguire se stesso ora Moscarda arriva al totale rifiuto della propria immagine e identità: non vuole avere più nessun nome, perché non vuole più essere nessuno. Può abbandonarsi al fluire libero e mutevole della «vita», una volta spezzata la prigionia di qualsiasi «forma» e, anche, della forza corrosiva del pensiero, responsabile delle false costruzioni mentali.
E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo.
Libero da ogni identità individuale, Moscarda ha definitivamente spezzato la prigionia della forma per abbandonarsi al fluire libero e mutevole della “vita”. Tagliato fuori dalla società, si sente una cosa sola con i più vari aspetti della natura nella loro eterna metamorfosi, oltre i limiti esposti dall’esistenza individuale e la paura della morte.
I periodi brevi e nominali esprimono, in assenza di verbo (Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani… Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove… Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo), la fissità atemporale dell’essere naturale, senza passato, senza futuro, che rinasce a ogni istante e che esprime lo stare in qualche modo al di fuori e al di sopra della realtà. L’orientamento di Pirandello verso il Surrealismo si riflette anche nel tono lirico, insolito nello scrittore, qui determinato dall’uso sovrabbondante di aggettivi qualificativi e di metafore.
L’ospizio sorge in campagna, in un luogo amenissimo. Io esco ogni mattina, all’alba, perché ora voglio serbare lo spirito cosí, fresco d’alba, con tutte le cose come appena si scoprono, che sanno ancora del crudo della notte, prima che il sole ne secchi il respiro umido e le abbagli. Quelle nubi d’acqua là pese plumbee ammassate sui monti lividi, che fanno parere piú larga e chiara nella grana d’ombra ancora notturna, quella verde piaga di cielo. E qua questi fili d’erba, teneri d’acqua anch’essi, freschezza viva delle prode. E quell’asinello rimasto al sereno tutta la notte, che ora guarda con occhi appannati e sbruffa in questo silenzio che gli è tanto vicino e a mano a mano pare gli s’allontani cominciando, ma senza stupore a schiarirglisi attorno, con la luce che dilaga appena sulle campagne deserte e attonite. E queste carraje qua, tra siepi nere e muricce screpolate, che su lo strazio dei loro solchi ancora stanno e non vanno.
Il linguaggio è analogico, infatti i solchi tracciati dai carri sulle strade sono visti come ferite (strazio); all’alba sono deserti, su di essi non vi è ancora movimento (metaforicamente le strade stanno e non vanno).
E l’aria è nuova. E tutto, attimo per attimo, è com’è, che s’avviva per apparire. Volto subito gli occhi per non vedere piú nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Cosí soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni.
La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. Ma ora quelle campane le odo non piú dentro di me, ma fuori, per sé sonare, che forse ne fremono di gioja nella loro cavità ronzante, in un bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridío delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e cosí alte sui campanili aerei. Pensa alla morte, pregare. C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho piú questo bisogno, perché muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non piú in me, ma in ogni cosa fuori.
Il protagonista, anche se socialmente emarginato (la città è lontana), dal punto di vista esistenziale recupera l’essenza del suo essere originario e trova finalmente appagamento nella gioiosa partecipazione alla vita della natura. Dalla coscienza della condizione anarchica dell’individuo Pirandello approda a una «surrealtà» (come nelle altre opere degli anni Trenta) dove diventa possibile la conciliazione fra la vita dolorosa dell’uomo e la natura: luogo incontaminato dalla civilizzazione, essa è vista come consolatrice e rigeneratrice. Vivere a contatto con la natura e dissolversi in essa, morendo e rinascendo a ogni attimo, come se si fosse senza memoria (muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi), significa esistere senza più identità né maschere.
La pagina conclusiva del romanzo riassume il senso dell’ideologia pirandelliana, distruttiva nei confronti della società e critica fino al paradosso: il massimo di «nullità» finisce col coincidere con il massimo di libertà e di disponibilità dell’individuo verso una nuova dimensione spazio-temporale, fuori di ogni compagine sociale.