La volpe e il leone
Machiavelli, Il principe, cap. 18
Nel Principe Machiavelli descrive come deve comportarsi il capo dello Stato: egli deve anche sapere usare la violenza quando è necessario. Per queste affermazioni il libro di Machiavelli viene molto criticato nel Cinquecento e anche dopo. Infatti, nel Rinascimento la politica non era ancora considerata una scienza con le sue leggi, ma seguiva le leggi della religione cristiana. Il ritratto del principe che si leggeva nelle varie opere era quindi anche il ritratto del buon cristiano. Machiavelli vuole invece descrivere un principe reale e non un uomo perfetto che può esistere solo nei libri.
Quomodo fides a principibus sit servanda.
[In che modo e’ principi abbino a mantenere la fede]
Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende: non di manco si vede, per esperienzia ne’ nostri tempi, quelli principi avere fatto gran cose che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli delli uomini; et alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà.
Machiavelli si chiede se un principe deve mantenere la parola data. la risposta disorientante di Machiavelli è: i principi che non hanno mantenuto la parola data hanno ottenuto risultati migliori dei principi onesti. Tale asserzione completa un ragionamento molto sottile sull’autonomia della politica, da cui emerge effettivamente la non coincidenza tra moralità e utilità politica dell’agire.
Dovete adunque sapere come sono dua generazione di combattere: l’uno con le leggi, l’altro con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie: ma, perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo. Per tanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo. Questa parte è suta insegnata a’ principi copertamente dalli antichi scrittori; li quali scrivono come Achille, e molti altri di quelli principi antichi, furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li custodissi. Il che non vuol dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura; e l’una sanza l’altra non è durabile.
Machiavelli rilegge il mito del centauro in chiave allegorica: Chirone è considerato come educatore degli eroi, in quanto secondo il mito aveva allevato Achille, Giasone, Ercole e Teseo; la sua duplice natura, bestiale e umana, significa che gli allievi ricevono da lui un’educazione sia fisica sia intellettuale. L’allegoria ribalta l’affermazione consolidata secondo cui esercitare il potere nel rispetto delle leggi morali sarebbe tipico degli uomini, mentre farlo servendosi della forza sarebbe proprio delle bestie. Il centauro, metà uomo e metà cavallo, dimostra che le due modalità del comportamento politico, le leggi e la forza, possono e devono coesistere. Il personaggio mitologico si trasforma in una figura antropologica, allo scopo di sottolineare la legittimità dell’uso della forza al pari di quello delle leggi.
Sendo adunque, uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione; perché il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si difende da’ lupi. Bisogna, adunque, essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano. Non può per tanto uno signore prudente, né debbe, osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E, se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché sono tristi, e non la osservarebbano a te, tu etiam non l’hai ad osservare a loro. Né mai a uno principe mancorono cagioni legittime di colorare la inosservanzia. Di questo se ne potrebbe dare infiniti esempli moderni e monstrare quante pace, quante promesse sono state fatte irrite e vane per la infedelità de’ principi: e quello che ha saputo meglio usare la golpe, è meglio capitato. Ma è necessario questa natura saperla bene colorire, et essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici li uomini, e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare.
La metafora della volpe e del leone serve a Machiavelli per indicare le qualità che deve avere un principe. I due animali diventano simboli positivi dell’agire politico, la cui morale è completamente rovesciata poiché Machiavelli afferma che quello che ha saputo meglio usare la golpe [l’inganno, la furbizia], è meglio capitato. Machiavelli ritiene, dunque, la simulazione (esprimere ciò in cui in realtà non si crede) e la dissimulazione (nascondere il proprio pensiero) requisiti indispensabili per poter ben governare. Anche questi due atteggiamenti — come il ricorso alla violenza — vanno intesi come il frutto di una attenta valutazione razionale (la virtù nel lessico di Machiavelli).
Io non voglio, delli esempli freschi, tacerne uno. Alessandro VI non fece mai altro, non pensò mai ad altro, che ad ingannare uomini: e sempre trovò subietto da poterlo fare. E non fu mai uomo che avessi maggiore efficacia in asseverare, e con maggiori giuramenti affermassi una cosa, che l’osservassi meno; non di meno sempre li succederono li inganni ad votum, perché conosceva bene questa parte del mondo.
Fedele al suo metodo argomentativo, Machiavelli introduce degli esempi contemporanei dopo aver descritto le sue convinzione in termini generali. Qui sceglie Alessandro VI come modello di virtù politiche
A uno principe, adunque, non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle. Anzi ardirò di dire questo, che, avendole et osservandole sempre, sono dannose, e parendo di averle, sono utile: come parere pietoso, fedele, umano, intero, relligioso, et essere; ma stare in modo edificato con l’animo, che, bisognando non essere, tu possa e sappi mutare el contrario. Et hassi ad intendere questo, che uno principe, e massime uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali li uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione. E però bisogna che elli abbi uno animo disposto a volgersi secondo ch’e’ venti e le variazioni della fortuna li comandono, e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato.
Prima di tutto Alessandro VI ha dimostrato che il principe non deve possedere tutte le qualità morali, ma fare finta di possederle. Il principe deve cioè apparire al popolo come un uomo buono, leale e onesto, anche se non è davvero così. Infatti gli uomini credono al principe perché sono sciocchi e guardano solo l’apparenza.
Debbe, adunque, avere uno principe gran cura che non li esca mai di bocca una cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità, e paia, a vederlo et udirlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto relligione. E non è cosa più necessaria a parere di avere che questa ultima qualità. E li uomini in universali iudicano più alli occhi che alle mani; perché tocca a vedere a ognuno, a sentire a pochi. Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’; e quelli pochi non ardiscano opporsi alla opinione di molti che abbino la maestà dello stato che li difenda: e nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio da reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi saranno sempre iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati; perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa; e nel mondo non è se non vulgo; e li pochi ci hanno luogo quando li assai hanno dove appoggiarsi. Alcuno principe de’ presenti tempi, quale non è bene nominare, non predica mai altro che pace e fede, e dell’una e dell’altra è inimicissimo; e l’una e l’altra, quando e’ l’avessi osservata, li arebbe più volte tolto o la reputazione o lo stato.
Machiavelli completa in questo capitolo un sottile ragionamento sull’autonomia della politica, da cui emerge esplicitamente la non coincidenza tra moralità e utilità politica dell’agire. L’autore chiarisce l’idea secondo cui i comportamenti politici non devono essere giudicati in astratto, sulla base di un principio universale e morale, ma nel constesto dato. Per questo, se mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia è cosa laudative, anche usare l’inganno può esserlo, se consente al principe di raggiungere l’obiettivo perseguito, ovvero vincere e mantenere lo Stato. É confermato di nuovo il principio machiavelliano per cui è necessario guardare alla verità effettuale della cosa e non all’immaginazione di essa. La realtà politica va osservata in maniera razionale, consapevoli che i mezzi utilizzati dal principe saranno iudicati onorevoli e da ciascuno saranno laudati in relazione ai risultati raggiunti.
L’accusa di immoralità e spregiudicatezza, spesso lanciata a Machiavelli, cade leggendo la conclusione del capitolo, in cui si chiarisce che il fine non è inteso come mero interesse privato del principe, bensì come l’interesse pubblico dello Stato e quindi della comunità.
Tutto il capitolo, ma l’ultimo paragrafo in particolare, è esempio della rigorosa struttura logica dell’argomentazione di Machiavelli. Da una premessa, deriva consequenzialmente l’effetto, ma perchè il primo a volte non basta [premessa], conviene ricorrere al secondo [effetto]: pertanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e l’uomo [conclusione]. Tale struttura è rafforzata dall’uso di vocaboli connessi al concetto di necessità, che legata in modo univoco due o più elementi: Dovete, è necessario, bisogna.