L’affettuoso saluto alla Mosca

Satura, Xenia, 1, 4, 5 e 14

Luca Pirola
6 min readFeb 16, 2021
Giorgio De Chirico, Le consolateur

Satura

La rielaborazione del lutto per la moglie morta spinge montale a scrivere nuovamente dopo un lungo periodo di silenzio. Le liriche sono raccolte in Satura, pubblicata nel 1971, in cui il poeta riflette sulla insensatezza della società consumistica, tanto che non risulta più possibile distinguere ciò che rappresenta un valore o un disvalore. In conseguenza di ciò la poesia diventa inclusiva, accetta ogni tipo di materiale e predilige uno stile basso, prosastico, satirico. Il titolo rimanda proprio a questa mescolanza di temi e argomenti, infatti Satura rimanda a un genere letterario della poesia latina dedicato alla rappresentazione mordace dei vizi e dei desideri umani. Montale definisce questa raccolta come una

“presentazione di poesie di tipo diverso, d’intonazione e di argomento diverso”,

infatti le poesie riguardano ritratti, dipinti con tratti espressionistici, meditazioni, in cui il poeta esprime un il pessimismo lucido e velato da ironia erudita, e ricordi, rievocati dagli oggetti in un’atmosfera di tenera tristezza.

Montale adotta un linguaggio semplice e quotidiano per parlare, con tono sarcastico e amaro, dei piccoli accadimenti della vita quotidiana. Estraneo a un mondo che non riesce a capire e che lo disgusta, il poeta sembra abbandonarsi al pessimismo: nulla di angelico o di miracoloso può trovare spazio in un mondo segnato dalla banalità e dalla volgarità («non può nascere l’aquila /dal topo»). I versi in assenza di melodia rappresentano l’unica voce possibile in un mondo senza luce, infatti la poesia rispecchia rigorosamente la visione esistenziale.

Satura, nonostante presenti testi di apparente semplicità, è composta da liriche sapientemente costruite per ottenere raffinati effetti di musicalità, grazie alle rime e alle parole o alle strutture sintattiche ripetute in modo da creare efficaci parallelismi.

L’opera comprende quattro sezioni, di cui le prime (Xenia 1 e Xenia 2) includono le liriche dedicate alla moglie Drusilla Tanzi, morta nel 1963, che era chiamata dal poeta e dagli amici con il soprannome di “Mosca”, probabilmente per la sua corporatura minuta e fragile.
Nella sezione Xenia Montale raccoglie i versi che rievocano la moglie morta ritratta in un’atmosfera domestica e quotidiana attraverso il ricordo di abitudini e atteggiamenti minimi.
Anche la presenza femminile perde i suoi tratti angelicati per farsi figura quotidiana e concreta, come nelle poesie dedicate alla moglie morta, in cui vengono rievocate le piccole avventure di un’esistenza normale.

I, 1
Caro piccolo insetto
che chiamavano mosca non so perché,
stasera quasi al buio
mentre leggevo il Deuteroisaia
5sei ricomparsa accanto a me,
ma non avevi occhiali,
non potevi vedermi
né potevo io senza quel luccichìo
riconoscere te nella foschia.

Questo componimento descrive l’improvvisa apparizione della donna amata nonostante la distanza tra lei e il poeta sia ormai incolmabile a causa della morte della moglie. Il ricongiungimento però non avviene pienamente. Il poeta è quasi al buio e sperimenta la foschia della mente; d’altra parte la donna ricompare priva dei propri elementi distintivi (gli occhiali) e così il poeta non può riconoscerla, né essere visto da lei, perciò l’apparizione si risolve con un mancato incontro.

Gli elementi descrittivi impiegati da Montale non hanno una mera valenza pittorica o cronologica, ma intendono definire una condizione conoscitiva. Il poeta — ma diremmo l’uomo in generale — si trova quasi al buio perché non padroneggia una conoscenza totale ed esaustiva della realtà.
i termini buio (v.3), luccichio (v.8) e foschia (v. 9)appaiono in forma dimessa, quotidiana, senza i significati metafisici che avevano assunto nelle raccolte precedenti; infatti l’apparizione di Mosca non ha nulla di mistico, ma fa emergere una dimensione di tenerezza affettuosa fino a questo momento sconosciuta alla poesia di Montale.

La moglie continua a svolgere la sua opera salvifica nei confronti del poeta, ma non agisce attraverso apparizioni miracolose, bensì nel tempo lungo e non eroico di una fedeltà silenziosa. Il ritratto si presenta come la realizzazione di una presenza misteriosa, che riprende l’assistenza appartata ma attenta della donna accanto al poeta.

I, 4
Avevamo studiato per l’aldilà
un fischio, un segno di riconoscimento.
Mi provo a modularlo nella speranza
che tutti siamo già morti senza saperlo.

Mentre nelle composizioni precedenti era Mosca ad apparire al poeta, ora è il poeta che vorrebbe mettersi in contatto con lei attraverso quel fischio che realmente i due avevano studiato per comunicare anche oltre la morte. Montale apre la via al paradossale: i morti sono in realtà i vivi e i vivi sono invece morti. Almeno questa è la speranza del poeta, dunque scrive il Forti «il fischio di riconoscimento per l’aldilà è un’illusoria meditazione, un ennesimo tentativo di contatto, ma, modulato nel tempo, è un assaggio della consistenza del reale, essendo più che mai precari i confini tra vita e morte, fra qui e là, fra l’apparente e l’invisibile». Forse l’unica comunicazione possibile è, dunque, quella tra morti e, in questa direzione, si accende quella che è stata definita come la «fantasia paradossale del poeta che vorrebbe essere già morto per comunicare con l’amata». Solo con questa speranza, può resistere la misteriosa contiguità tra la dimensione della vita e quella della morte, così che fra di esse si possa conservare un canale di comunicazione, labile come un fischio o un segno di riconoscimento.

I, 5
Non ho mai capito se io fossi
il tuo cane fedele e incimurrito
o tu lo fossi per me.
Per chi altri no, eri un insetto miope
smarrito nel blabla
dell’alta società: Erano ingenui
quei furbi e non sapevano
di essere loro il tuo zimbello:
di esser visti anche al buio, e smascherati
da un tuo senso infallibile, dal tuo
radar di pipistrello.

Montale afferma in una lettera: «Io ho sempre vissuto per far vivere qualche altro e più di tutto la povera Mosca che era cieca ma aveva un fiuto infallibile e non si è mai sbagliata nel giudicare gli uomini.», e il «fiuto» di Mosca è il tema di questo componimento.

È fondamentale evidenziare come, nei tre versi introduttivi, sia sottolineata la quasi interscambiabilità tra il poeta e Mosca: «Non ho mai capito se io fossi / il tuo cane fedele e incimurrito / o tu lo fossi per me», dove il termine-chiave, che il poeta attribuisce ora a sé, ora alla moglie, è cane, animale che, tra quelli del bestiario montaliano, ha valenza assolutamente positiva.

Agli occhi degli altri, del mondo esterno ed estraneo ai due, Mosca riprende però l’aspetto di un insetto miope divenendo per coloro che non la conoscono, per gli altri, insetto nel senso deteriore del termine, colpevole di non inserirsi nel contesto artificioso e vuoto (e il neologismo «blabla» del v. 5 ne è una prova) di quella alta società che Montale frequentava spesso per motivi di lavoro. Una società di ingenui, che si considerano furbi, intelligenti, al sicuro da ogni derisione (e da notare è l’ossimoro evidenziato dall’enjambement, al centro della poesia, tra i vv. 6–7). Gli altri sono, dunque, ciechi, e non Mosca che capace smascherarli, di farne il suo zimbello grazie alla sua metamorfosi in pipistrello si eleva al di sopra di coloro che si credono più furbi di lei.
Mosca, quindi, è superiore a tutto ciò che la circonda e il componimento non si conclude, come i precedenti, con un’amara riflessione del poeta sul proprio stato di tristezza e solitudine, bensì, con un tono di ironia, sulle qualità della sua amata.

I, 14
Dicono che la mia
sia una poesia d’inappartenenza.
Ma s’era tua era di qualcuno;
di te che non sei più forma, ma essenza.
Dicono che la poesia al suo culmine
magnifica il Tutto in fuga,
negano che la testuggine
sia più veloce del fulmine.
Tu sola sapevi che il moto
non è diverso dalla stasi,
che il vuoto è il pieno e il sereno
è la più diffusa delle nubi.
Così meglio intendo il tuo lungo viaggio
imprigionata tra le bende e i gessi.
Eppure non mi dà riposo
sapere che in uno o in due noi siamo una cosa sola.

Non si conosce l’identità di coloro che dicono che la poesia dell’autore sia una poesia di inappartenenza, cioè non impegnata, tuttavia, giocando sull’ambiguità dei significati, Montale risponde che la poesia appartiene a qualcuno, a Mosca che, pur non essendo più forma, è comunque sempre presente nella vita del poeta come essenza. Ed è proprio Mosca l’unica a possedere la capacità di vedere oltre le apparenze, capendo che non c’è differenza tra gli estremi (moto-stasi, vuoto-pieno), e quindi, comprendere i paradossi della realtà indicati dalla tartaruga più veloce del fulmine o dal sereno uguale alla iù grande delle nubi. Montale vuole qui far oltrepassare i limiti di una percezione puramente materiale della vita.

Mosca ha raggiunto questa consapevolezza comprendendo che non esiste differenza tra la malattia e la vitalità: la sua prigione di gesso, che l’ha costretta all’immobilità, in verità è stata l’occasione di un lungo viaggio che le ha permesso di conoscere e capire la verità delle cose. Il poeta ora se ne rende conto, eppure la consapevolezza dell’unicità di Mosca, della sua intelligenza, non è sufficiente a distoglierlo dalla sua tristezza e permettergli di continuare a vivere, né gli basta l’illusione d’essere un tutt’uno con l’ombra di lei a dargli quel riposo il cui desiderio tanto lo tormenta.

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Luca Pirola
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Written by Luca Pirola

History and Italian literature teacher

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