L’ascesa al Monte Ventoso
Francesco Petrarca, le Familiares
Le opere latine di Petrarca costituiscono la parte più sostanziosa della sua produzione, quella a cui l’autore affidava soprattutto la propria fama. Per Petrarca il latino rappresenta la lingua della comunicazione, che egli usa per esprimersi nelle situazioni quotidiane, e che utilizza per mostrare la sua dimensione di intellettuale europeo.
Il ricco epistolario compone l’immagine ufficiale — umana e intellettuale — del poeta nella sua complessità. Infatti il corpus delle opere in latino ha rappresentato la produzione più conosciuta e apprezzata durante la vita di Petrarca e nei primi decenni dopo la sua morte, tanto da connotare il poeta come un precursore dell’Umanesimo.
La lettera in cui Petrarca racconta della salita in vetta al Monte Ventoso (presso Avignone) è inserita nelle Familiare, ed è indirizzata a Dionigi di Borgo San Sepolcro, confessore e direttore spirituale del poeta. Petrarca racconta di un’escursione compiuta nel 1336 con il fratello Gherardo: la narrazione, in apparenza realistica, è piena di dettagli che ne rivelano il significato allegorico.
A DIONIGI DA BORGO SAN SEPOLCRO,
DELL’ORDINE DI SANT’AGOSTINO, PROFESSORE DELLA SACRA PAGINA.
SUI PROPRI AFFANNI.Oggi, spinto dal solo desiderio di vedere un luogo celebre per la sua altezza, sono salito sul più alto monte di questa regione, chiamato giustamente Ventoso. Da molti anni mi ero proposto questa gita; come sai, infatti, per quel destino che regola le vicende degli uomini, ho abitato in questi luoghi sino dall’infanzia e questo monte, che facilmente si può ammirare da ogni parte, mi è stato quasi sempre negli occhi. Ebbi finalmente l’impulso di realizzare ciò che mi ripromettevo ogni giorno […]. Sennonché, quando dovetti pensare a un compagno di viaggio, nessuno dei miei amici, meravìgliati pure, mi parve in tutto adatto: tanto rara, anche tra persone care, è una perfetta concordia di volontà e di indoli […]. E così, esigente com’ero e desideroso di un onesto svago, pur senza offendere in nulla l’amicizia, mi guardavo intorno soppesando il pro e il contro, silenziosamente rifiutando tutto quello che mi pareva potesse intralciare la gita progettata. Finalmente — che pensavi? — mi rivolgo agli aiuti di casa e mi confidai con l’unico fratello, di me più giovane e che tu ben conosci. Nulla avrebbe potuto ascoltare con maggiore letizia, felice di potersi considerare, verso di me, fratello e amico.
Il racconto dell’escursione si mescola a ciò che accade interiormente al poeta; tale scelta narrativa è tipica dell’immaginario medievale secondo il quale ogni esperienza concreta è considerata il riflesso di una realtà ultraterrena, quindi carica di significati spirituali.
Lo stile è equilibrato tra colloquialità e ricercatezza, infatti le frequenti citazioni di autori antichi (Ovidio, Virgilio, Sant’Agostino) e di proverbi e sentenze di saggezza elevano il tono, ma si mantiene sempre un atteggiamento confidenziale esplicitato dall’uso della seconda persona per indicare l’interlocutore — Dionigi di Borgo San Sepolcro — ma anche il lettore.
La prima parte della lettera riferisce della salita verso la vetta: le soste lungo il cammino aprono momenti di riflessione interiore, che svelano il significato metaforico dell’ascesa, cioè quello di un cammino spirituale verso la beatitudine.
Partimmo da casa il giorno stabilito e a sera eravamo giunti a Malaucena, alle falde del monte, verso settentrione. Qui ci fermammo un giorno e oggi, finalmente, con un servo ciascuno, abbiamo cominciato la salita, e molto a stento. La mole del monte, infatti, tutta sassi, è assai scoscesa e quasi inaccessibile, ma ben disse il poeta [Virgilio, Georgiche] che «l’ostinata fatica vince ogni cosa». Il giorno lungo, l’aria mite, l’entusiasmo, il vigore, l’agilità del corpo e tutto il resto ci favorivano nella salita; ci ostacolava soltanto la natura del luogo. In una valletta del monte incontrammo un vecchio pastore che tentò in mille modi di dissuaderci dal salire, raccontandoci che anche lui, cinquant’anni prima, preso dal nostro stesso entusiasmo giovanile, era salito fino sulla vetta, ma che non ne aveva riportato che delusione e fatica, il corpo e le vesti lacerati dai sassi e dai pruni, e che non aveva mai sentito dire che altri, prima o dopo di lui, avesse ripetuto il tentativo. Ma mentre ci gridava queste cose, a noi — così sono i giovani, restii a ogni consiglio — il desiderio cresceva per il divieto. Allora il vecchio, accortosi dell’inutilità dei suoi sforzi, inoltrandosi un bel po’ tra le rocce, ci mostrò col dito un sentiero tutto erto, dandoci molti avvertimenti e ripetendocene altri alle spalle, che già eravamo lontani.
L’incontro con il vecchio pastore che prova a scoraggiare Francesco e suo fratello dalla salita alla cima ha quasi il ruolo di una prolessi, nel senso che evidenzia il rischio di un fallimento, quale — per certi aspetti — almeno parzialmente risulterà per Petrarca questa escursione.
Lasciate presso di lui le vesti e gli oggetti che ci potevano essere d’impaccio, tutti soli ci accingiamo a salire e ci incamminiamo alacremente. Ma come spesso avviene, a un grosso sforzo segue rapidamente la stanchezza, ed eccoci a sostare su una rupe non lontana. Rimessici in marcia, avanziamo di nuovo, ma con più lentezza; io soprattutto, che mi arrampicavo per la montagna con passo più faticoso, mentre mio fratello, per una scorciatoia lungo il crinale del monte, saliva sempre più in alto. Io, più fiacco, scendevo giù, e a lui che mi richiamava e mi indicava il cammino più diritto, rispondevo che speravo di trovare un sentiero più agevole dall’altra parte del monte e che non mi dispiaceva di fare una strada più lunga, ma più piana. Pretendevo così di scusare la mia pigrizia e mentre i miei compagni erano già in alto, io vagavo tra le valli, senza scorgere da nessuna parte un sentiero più dolce; la via, invece, cresceva, e l’inutile fatica mi stancava. Annoiatomi e pentito oramai di questo girovagare, decisi di puntare direttamente verso l’alto e quando, stanco e ansimante, riuscii a raggiungere mio fratello, che si era intanto rinfrancato con un lungo riposo, per un poco procedemmo insieme.
Anche nelle sezioni più chiaramente autobiografiche che raccontano l’escursione, Petrarca inserisce la rappresentazione metaforica della propria vicenda spirituale. Il monte è la via che avvicina l’uomo alla Salvezza, ma questo percorso è rallentato da difficoltà e dubbi nell’ascesa, questi sono ostacoli che impediscono l’elevazione spirituale. A differenza del poeta, che si attarda e cerca una strada meno ripida, Gherardo — che ha già compiuto una scelta religiosa — sceglie una via più diretta per la Salvezza e rappresenta un modello di virtù. Francesco presto si accorge che la strada in apparenza più facile lo sposta verso il basso, con una direzione incerta che fiacca il corpo e lo spirito. Le due vie riflettono dunque la natura dei due personaggi: l’attitudine alla vita monastica e contemplativa del fratello e l’attrazione per i valori terreni di Francesco.
La noia (Annoiatomi) e l’accidia — la mancanza di volontà — (Volevo differire la fatica del salire) sono sentimenti frequenti nell’animo instabile di Petrarca. Egli esprime spesso la debolezza della volontà, colpa che il poeta ammette di avere anche in altre opere.
Avevamo appena lasciato quel colle che già io, dimentico del primo errabondare, sono di nuovo trascinato verso il basso, e mentre attraverso la vallata vado di nuovo alla ricerca di un sentiero pianeggiante, ecco che ricado in gravi difficoltà. Volevo differire la fatica del salire, ma la natura non cede alla volontà umana, né può accadere che qualcosa di corporeo raggiunga l’altezza discendendo. Insomma, in poco tempo, tra le risa di mio fratello e nel mio avvilimento, ciò mi accadde tre volte o più. […]
La seconda parte inizia con la conquista della vetta; la meta raggiunta è occasione di un momento riflessivo, in cui Petrarca ragiona sulla maturità e sull’equilibrio interiore non ancora raggiunti. Le riflessioni del poeta sono arricchite e guidate dalle citazioni di Ovidio e dalla lettura di Sant’Agostino. La lettera, infatti, fa emergere una sorta di piccola “biblioteca” di Petrarca lettore, che frequenta i classici e i padri della Chiesa.
C’è una cima più alta di tutte, che i montanari chiamano il “Figliuolo”; perché non so dirti; se non forse per antifrasi, come talora si fa: sembra infatti il padre di tutti i monti vicini. Sulla sua cima c’è un piccolo pianoro e qui, stanchi, riposammo. […]. Dapprima, colpito da quell’aria insolitamente leggera e da quello spettacolo grandioso, rimasi come istupidito. Mi volgo d’attorno: le nuvole mi erano sotto i piedi e già mi divennero meno incredibili l’Athos e l’Olimpo [due monti della Grecia. Il monte Athos è fin dalla tarda antichità sede di importanti monasteri. L’Olimpo era considerato la sede degli dei.] nel vedere coi miei occhi, su un monte meno celebrato, quanto avevo letto e udito di essi.
Volgo lo sguardo verso le regioni italiane, laddove più inclina il mio cuore; ed ecco che le Alpi gelide e nevose, per le quali un giorno passò quel feroce nemico del nome di Roma [Annibale. Petrarca si riferisce subito dopo a un evento narrato da Livio, secondo cui il condottiero cartaginese avrebbe distrutto con il fuoco e l’aceto una rupe che ostacolava il suo cammino] rompendone, come dicono, le rocce con l’aceto, mi parvero, pur così lontane, vicine. Lo confesso: ho sospirato verso quel cielo d’Italia che scorgevo con l’anima più che con gli occhi e m’invase un desiderio bruciante di rivedere l’amico e la patria anche se, in quello stesso momento, provai un poco di vergogna per questo doppio desiderio non ancora virile; eppure non mi sarebbero mancate, per l’uno e per l’altro, giustificazioni confermate da grandi testimonianze. Ma ecco entrare in me un nuovo pensiero che dai luoghi mi portò ai tempi. «Oggi» mi dicevo «si compie il decimo anno da quando, lasciati gli studi giovanili, hai abbandonato Bologna: Dio immortale, eterna Saggezza, quanti e quali sono stati nel frattempo i cambiamenti della tua vita! Così tanti che non ne parlo; del resto non sono ancora così sicuro in porto da rievocare le trascorse tempeste. Verrà forse un giorno in cui potrò enumerarle nell’ordine stesso in cui sono avvenute, premettendovi le parole di Agostino: “Voglio ricordare le mie passate turpitudini, le carnali corruzioni dell’anima mia, non perché le ami, ma per amare te, Dio mio”. [incipit de Le confessioni] Troppi sono ancora gli interessi che mi producono incertezza e impaccio. Ciò che ero solito amare, non amo più; mento: lo amo, ma meno; ecco, ho mentito di nuovo: lo amo, ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità. È proprio così: amo, ma ciò che amerei non amare, ciò che vorrei odiare; amo tuttavia, ma contro voglia, nella costrizione, nel pianto, nella sofferenza. In me faccio triste esperienza di quel verso di un famosissimo poeta: “Ti odierò, se posso; se no, t’amerò contro voglia” [Ovidio, Amores III, II 55].
Petrarca esprime con una serie di antitesi la fatica dell’essere sinceri — prima di tutto con se stessi (amo, ma ciò che amerei non amare, ciò che vorrei odiare; amo tuttavia, ma contro voglia): i contrasti esprimono le oscillazioni con cui Francesco tenta faticosamente di approssimarsi alla verità.
Il momento decisivo di questo percorso interiore è individuato nel dono — ricevuto tra anni prima (Non sono ancora passati tre anni …) proprio da Dionigi — di una copia delle Confessioni di Sant’Agostino; è a questa lettura che Petrarca fa risalire l’inizio della propria “conversione” morale.
Non sono ancora passati tre anni da quando quella volontà malvagia e perversa che tutto mi possedeva e che regnava incontrastata nel mio spirito cominciò a provarne un’altra, ribelle e contraria; e tra l’una e l’altra da un pezzo, nel campo dei miei pensieri, s’intreccia una battaglia ancor oggi durissima e incerta per il possesso di quel doppio uomo che è in me». Così andavo col pensiero a quel passato decennio.
L’esame di coscienza rivela l’esistenza del conflitto interiore di Petrarca, dibattuto tra il desiderio carnale che lo lega a Laura e l’attrazione verso i beni dello spirito.
Rivolgendomi all’avvenire, mi domandavo: «Se ti accadesse di prolungare per altri due lustri questa vita che fugge e di avvicinarti alla virtù nella stessa proporzione in cui, in questo biennio, per l’insorgere della nuova volontà contro la vecchia, ti sei allontanato dalla primitiva protervia, non potresti forse allora, se non con certezza almeno con speranza, andare incontro alla morte sui quarant’anni e questi residui anni di una vita che già declina verso la vecchiezza, trascurarli senza rimpianti?». Questi e altri simili erano i pensieri, padre mio, che mi ricorrevano nella mente. Gioivo dei miei progressi, piangevo sulle mie imperfezioni, commiseravo la comune instabilità delle azioni umane; e già mi pareva d’aver dimenticato il luogo dove mi trovavo e perché vi ero venuto, quando, lasciate queste riflessioni che altrove sarebbero state più opportune, mi volgo indietro, verso occidente, per guardare e ammirare ciò che ero venuto a vedere: m’ero accorto infatti, stupito, che era ormai tempo di levarsi, che già il sole declinava e l’ombra del monte s’allungava […]. Mentre ammiravo questo spettacolo in ogni suo aspetto e ora pensavo a cose terrene e ora, invece, come avevo fatto con il corpo, levavo più in alto l’anima, credetti giusto dare uno sguardo alle Confessioni di Agostino, dono del tuo affetto, libro che in memoria dell’autore e di chi me l’ha donato io porto sempre con me: libretto di piccola mole ma d’infinita dolcezza. Lo apro per leggere quello che mi cadesse sott’occhio: quale pagina poteva capitarmi che non fosse pia e devota? Era il decimo libro. Mio fratello, che attendeva per mia bocca di udire una parola di Agostino, era attentissimo. Lo chiamo con Dio a testimonio che dove dapprima gettai lo sguardo, vi lessi: «e vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e trascurano se stessi».
La fitta trama di riferimenti classici e biblici rivelano come l’esperienza della scalata alluda a un’ascesa spirituale. Le antitesi monte/valle e alto/basso, ricorrenti nel corso della narrazione, definiscono una relazione simbolica fra paesaggio “esterno” e paesaggio “interiore”. In questa chiave deve essere interpretato anche il passo rivelatore letto da Francesco nelle Confessioni, aperte “casualmente” dal poeta in cima al monte. Il passo è un monito al “conosci te stesso”, che per un cristiano significa che, per conoscere Dio, le sue creature e il mondo, è essenziale penetrare nel profondo della propria coscienza. La situazione del libro aperto a caso è della perfetta aderenza del passo alla propria condizione interiore ha un preciso riscontro proprio nell’opera citata di sant’Agostino: il filosofo infatti afferma di aver aperto a caso le Lettere di san Paolo e di avervi letto le parole decisive per la sua conversione.
Stupii, lo confesso; e pregato mio fratello che desiderava udire altro di non disturbarmi, chiusi il libro, sdegnato con me stesso dell’ammirazione che ancora provavo per cose terrene quando già da tempo, dagli stessi filosofi pagani, avrei dovuto imparare che niente è da ammirare tranne l’anima, di fronte alla cui grandezza non c’è nulla di grande.
Infine la terza parte del testo è dedicata alla discesa, compiuta in silenzio e riflessione.
Soddisfatto oramai, e persino sazio della vista di quel monte, rivolsi gli occhi della mente in me stesso e da allora nessuno mi udì parlare per tutta la discesa: quelle parole tormentavano il mio silenzio. Non potevo certo pensare che tutto fosse accaduto casualmente; sapevo anzi che quanto avevo letto era stato scritto per me, non per altri; tanto più che ricordavo ciò che di se stesso aveva pensato Agostino quando, aprendo il libro dell’Apostolo, come lui stesso racconta, lesse queste parole: «non gozzoviglie ed ebbrezze, non lasciva e impudicizie, non risse e gelosia, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo, e non seguite la carne nelle sue concupiscenze».