L’ascesa di Dante in Paradiso
Canto I de Il Paradiso
Comincia la terza cantica de la Commedia di Dante Alighieri di Fiorenza, ne la quale si tratta de’ beati e de la celestiale gloria e de’ meriti e premi de’ santi, e dividesi in nove parti. Canto primo, nel cui principio l’auttore proemizza a la seguente cantica; e sono ne lo elemento del fuoco e Beatrice solve a l’auttore una questione; nel quale canto l’auttore promette di trattare de le cose divine invocando la scienza poetica, cioè Appollo chiamato il deo de la Sapienza.
L’argomento della cantica (vv. 1–12)
La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.Nel ciel che più de la sua luce prende
fu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende;perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.Veramente quant’io del regno santo
ne la mia mente potei far tesoro,
sarà ora materia del mio canto.
Mentre le precedenti cantiche iniziavano mettendo in primo piano la personalità del poeta, il Paradiso inizia con un’affermazione esultante e solenne della gloria di Dio che pervade e illumina tutto l’universo. Il poeta compare immediatamente dopo (seconda terzina) nella dichiarazione di esser stato al cospetto di Dio. Qui riafferma il significato del suo viaggio: la missione di raccontare agli uomini ciò che ha visto, descrivendo ciò che è indicibile e che può essere ricordato solo in minima parte. L’introduzione si conclude con l’ammissione dell’incapacità di Dante di svolgere adeguatamente la sua missione, perché l’intelletto umano non può contenere né concepire quanto ha contemplato, perciò nel suo canto riporterà solo la minima parte di ciò di cui ha avuto esperienza, ovverosia quel poco che riesce a riportare alla memoria.
Invocazione ad Apollo (vv. 13–36)
O buono Appollo, a l’ultimo lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso,
come dimandi a dar l’amato alloro.Infino a qui l’un giogo di Parnaso
assai mi fu; ma or con amendue
m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso.Entra nel petto mio, e spira tue
sì come quando Marsïa traesti
de la vagina de le membra sue.
Per scrivere un poema che descriva l’essenza di Dio e dei beati non è sufficiente appellarsi a doti e sensi umani, quindi Dante non invoca più le Muse, ma Apollo, il dio stesso della poesia, che qui rappresenta la somma capacità poetica, tanto che afferma che non è più sufficiente ispirarsi a una tipologia poetica (uno o l’altro giogo di Parnaso), ma gli è necessario ricorrere a entrambi le cime del monte, (il Parnaso ha una vetta costituita da due cime) per poter cantare una materia tanto sublime. Dante — come ha fatto già nel Purgatorio — rende cristiani i riferimenti mitologici antichi: Apollo rappresenta Dio nella qualità di fonte ispiratrice della poesia. Tale procedimento prosegue nell’invocazione a Dio di entrare in lui e dettargli le parole giuste, impadronendosi della voce di Dante. Questa invocazione ricorda la definizione dantesca della novità della poesia stilnovista, auqndo il poeta afferma che lui è uno di quelli che scrive ciò che Amore gli detta intimamente.
Il richiamo alla storia del satiro Marsia (che aveva sfidato Apollo e, sconfitto, fu scuoiato dal dio per punizione) simboleggia la presunzione della poesia umana che non riconosce l’origine divina dell’ispirazione. Proprio su questo insiste Dante nei versi successivi, quando invoca la Divina virtù di prestargli la capacità di rievocare almeno l’ombra di ciò che ha contemplato
O divina virtù, se mi ti presti
tanto che l’ombra del beato regno
segnata nel mio capo io manifesti,vedra’ mi al piè del tuo diletto legno
venire, e coronarmi de le foglie
che la materia e tu mi farai degno.Sì rade volte, padre, se ne coglie
per trïunfare o cesare o poeta,
colpa e vergogna de l’umane voglie,che parturir letizia in su la lieta
delfica deïtà dovria la fronda
peneia, quando alcun di sé asseta.Poca favilla gran fiamma seconda:
forse di retro a me con miglior voci
si pregherà perché Cirra risponda.
Se l’ispirazione divina aiuterà Dante, allora potrà ritenersi degno di ricevere la corona d’alloro, che dovrebbe incoronare (se l’umanità non fosse corrotta) i grandi poeti e i grandi imperatori. L’accostamento tra poeti e imperatori non è solo di carattere storico, ma attesta l’importanza attribuita da Dante alla poesia , che esercita una funzione di guida e stimolo dell’uomo, così come agli imperatori spetta il compito di garantire la pace e la giustizia nel mondo. Questo concetto è esplicitato dall’ultima terzina della sequenza, dove Dante si augura che, come un gran fuoco è acceso da una scintilla, la sua opera ispiri voci migliori che proseguano la missione da lui iniziata. (Cirra è una delle due cime del Parnaso).
Ascesa alla sfera del fuoco. Il trasumanare di Dante (vv. 37–81)
Surge ai mortali per diverse foci
la lucerna del mondo; ma da quella
che quattro cerchi giugne con tre croci,
Dante inizia la narrazione dell’ascesa al Paradiso con un’indicazione temporale, per indicare con precisione il momento dell’evento straordinario. Egli afferma che il sole (la luce del mondo) stava sorgendo nel punto che unisce quattro cerchi e tre croci, proprio dove si presenta con i migliori auspici per le influenze celesti esercitate, che rappresentano una combinazione quanto mai favorevole per iniziare un’impresa ardua come il viaggio in Paradiso.
Si sono date diverse interpretazioni su quali siano i quattro cerchi che incrociandosi formano le tre croci. La più probabile sostiene che i quattro cerchi siano il coluro equinoziale (cerchio verde nel disegno, che corrisponde al meridiano che passa per il punto equinoziale), l’equatore celeste (rosso), l’eclittica (giallo) e l’orizzonte (grigio) che si vede dal Paradiso terrestre. Il punto in cui i quattro cerchi si incrociano (formando tre croci) indica l’equinozio, in questo caso di primavera.
Il significato allegorico di tale disposizione astrale è molteplici: innanzitutto rimanda all’unione tra la divinità, di cui il cerchio è simbolo fin dalla filosofia greca, e umanità, rappresentata dalla croce su cui Cristo soffrì come uomo per redimere il mondo dal peccato originale; un secondo significato individua l’unione delle quattro virtù cardinale (cerchi, perché virtù umane) e delle tre virtù teologali (croci, in quanto virtù divine)
con miglior corso e con migliore stella
esce congiunta, e la mondana cera
più a suo modo tempera e suggella.Fatto avea di là mane e di qua sera
tal foce, e quasi tutto era là bianco
quello emisperio, e l’altra parte nera,
La prospettiva di Dante è quella dello scrittore, quindi l’avverbio di là indica il Paradiso terrestre, mentre di qua è la terra abitata dall’uomo: quando Dante sale dall’Eden verso il cielo è mezzogiorno, quindi l’emisfero australe è tutto illuminato, mentre quello boreale è completamente al buio. La terzina indica un periodo di sei ore, perché il Fatto avea del verso 43 si riferisce all’alba, già avvenuta, mentre l’era del verso 44 si riferisce al momento dell’esperienza che Dante sta narrando. L’allegoria delle ore del giorno è significativa, se si pensa all’inizio della discesa nell’Inferno che comincia al tramonto (l’oscuramento dell’anima, Inf. II, 1–3), all’inizio della scalata del Purgatorio, che comincia all’alba (la speranza Purg. II, 1–9) e a questa ascesa in cielo che avviene a mezzogiorno (la beatitudine).
quando Beatrice in sul sinistro fianco
vidi rivolta e riguardar nel sole:
aguglia sì non li s’affisse unquanco.
L’aquila era ritenuto l’unico animale in grado di fissare il sole senza essere abbagliata, per questo sia i Padri della Chiesa sia i bestiari medievali la indicano come allegoria del Padre per maestà e luminosità e del Figlio, perché sale verso la luce come nella resurrezione.
E sì come secondo raggio suole
uscir del primo e risalire in suso,
pur come pelegrin che tornar vuole,così de l’atto suo, per li occhi infuso
ne l’imagine mia, il mio si fece,
e fissi li occhi al sole oltre nostr’uso.
Le due similitudini si accavallano e nascono una dall’altra. La prima, quella del raggio che nasce dal riflesso di un altro raggio, rimanda al tema paradisiaco della luce; la seconda, quella del pellegrino che vuole tornare a casa, rimanda all’idea della vita terrena come pellegrinaggio e del PAradiso come vera casa a cui l’anima vuole tornare.
Inizia nel secondo termine di paragone (Dante fa come Beatrice e fissa la luce solare più di quanto possa fare un uomo) il tema del trasumanare, cioè del superamento della condizione umana necessario per ascendere al Paradiso. Dante descrive questo processo attraverso la possibilità di passare indenne nel fuoco e di sopportare un calore intenso come quello del metallo fuso. Dopo questa prova, Dante si ritorva in una dimensione che può descrivere solo con l’immagine di una luce talmente forte che sembra che al sole se ne sia aggiunto un altro.
Molto è licito là, che qui non lece
a le nostre virtù, mercé del loco
fatto per proprio de l’umana spece.Io nol soffersi molto, né sì poco,
ch’io nol vedessi sfavillar dintorno,
com’ ferro che bogliente esce del foco;e di sùbito parve giorno a giorno
essere aggiunto, come quei che puote
avesse il ciel d’un altro sole addorno.Beatrice tutta ne l’etterne rote
fissa con li occhi stava; e io in lei
le luci fissi, di là sù rimote.Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
qual si fé Glauco nel gustar de l’erba
che ’l fé consorto in mar de li altri dèi.
Glauco era un pescatore della Beozia che Ovidio racconta essersi trasformato in divinità marina dopo che aveva mangiato un’alga che resuscitava i pesci. Dante ricorda questa vicenda per spiegare la metamorfosi che si stava operando in lui, rendendo le sue capacità superiori a quelle umane.
Trasumanar significar per verba
non si poria; però l’essemplo basti
a cui esperïenza grazia serba.S’i’ era sol di me quel che creasti
novellamente, amor che ’l ciel governi,
tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti.
Il verbo trasumanar è un neologismo inventato da Dante per raccontare la sua esperienza, come se le parole esistenti non fossero adeguate a esprimere il superamento delle facoltà umane che rendono possibile contemplare la luce del sole e accogliere una maggiore quantità di luce e di amore divino in sé. Questo concetto è rafforzato quando Dante dice che non può descrivere tutto ciò con parole (per verba), tanto che il lettore deve accontentarsi dell’esempio descritto. Il verso si apre con un neologismo e si chiude con un’espressione latina per indicare il fenomeno straordinario per cui non basta la lingua comune.
Quando la rota che tu sempiterni
desiderato, a sé mi fece atteso
con l’armonia che temperi e discerni,parvemi tanto allor del cielo acceso
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
lago non fece alcun tanto disteso.
la similitudine che accosta una distesa d’acqua alla distesa di fuoco esprime l’alto livello stilistico della cantica.
Dante non fornisce una narrazione precisa dell’ascesa alle sfere celesti, quanto esprime le sue mutevoli sensazioni di luce e di musica (armonia che temperi e discerni). Il poeta si sforza di spiegare razionalmente l’esperienza perché l’ascesa al Paradiso è la massima conquista spirituale dell’intelletto. La ragione umana trova la sua più alta realizzazione nel momento in cui riesce — nei suoi limiti — a comprendere Dio.
I due dubbi di Dante. L’ordine dell’universo(vv. 82–142)
La novità del suono e ’l grande lume
di lor cagion m’accesero un disio
mai non sentito di cotanto acume.Ond’ella, che vedea me sì com’io,
a quïetarmi l’animo commosso,
pria ch’io a dimandar, la bocca aprio
Una situazione tipica del Paradiso è qui per la prima volta introdotta: Beatrice, come ogni beato, è partecipe della mente di Dio, perciò sa già da dove nasce il desiderio di conoscenza di Dante, prima che il poeta esprima a voce i suoi dubbi. Spesso i beati chiedono a Dante di pronunciare ugualmente la domanda sia per esigenze narrative, sia per mostrare la loro carità con una risposta adeguata.
e cominciò: “Tu stesso ti fai grosso
col falso imaginar, sì che non vedi
ciò che vedresti se l’avessi scosso.Tu non se’ in terra, sì come tu credi;
ma folgore, fuggendo il proprio sito,
non corse come tu ch’ad esso riedi”.
La prima risposta invita Dante a superare l’apparenza e a ragionare eliminando tutte le false percezioni; se non si rendesse da solo ignorante, Dante saprebbe di non essere più in Terra, ma di salire velocemente verso la sfera del fuoco. Il viaggio di Dante è più veloce di un fulmine, questo dato descrittivo è introdotto da una similitudine naturalistica fatta per opposizione. Il fulmine si allontana dal proprio sito (la sfera del fuoco) scaricandosi a terra, non veloce quanto Dante sta salendo in senso opposto verso il proprio sito, cioè il Paradiso, vera sede dell’anima.
S’io fui del primo dubbio disvestito
per le sorrise parolette brevi,
dentro ad un nuovo più fu’ inretitoe dissi: “Già contento requïevi
di grande ammirazion; ma ora ammiro
com’io trascenda questi corpi levi”.
Soddisfatto della prima risposta, Dante ha un secondo dubbio: come è possiile che voli? Beatrice risponde con un pio sospiro, compassionevole, ma anche corrucciato per l’insufficienza della ragione umana, così come fa una madre con il figlio che delira per la febbre. Inizia poi la lunga spiegazione sull’ordine dell’universo creato da Dio. La perfezione del creato è data dall’armonia che lo rende somigliante a Dio, perciò ogni creatura rispetta naturalmente questo ordine armonico dirigendosi (come freccia scoccata dall’arciere o nave verso il porto) verso il luogo a lei assegnato. Questo istinto porta il fuoco a salire verso l’alto, dirigendosi cioè verso la sfera del fuoco, che circonda la Terra separando il mondo terreno corruttibile da quello celeste incorruttibile.
Ond’ella, appresso d’un pïo sospiro,
li occhi drizzò ver’ me con quel sembiante
che madre fa sovra figlio deliro,e cominciò: “Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l’universo a Dio fa simigliante.Qui veggion l’alte creature l’orma
de l’etterno valore, il qual è fine
al quale è fatta la toccata norma.Ne l’ordine ch’io dico sono accline
tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro e men vicine;onde si muovono a diversi porti
per lo gran mar de l’essere, e ciascuna
con istinto a lei dato che la porti.Questi ne porta il foco inver’ la luna;
questi ne’ cor mortali è permotore;
questi la terra in sé stringe e aduna;né pur le creature che son fore
d’intelligenza quest’arco saetta,
ma quelle c’ hanno intelletto e amore.
L’istinto interessa le creature che non hanno intelletto, così come le creature superiori dotate di razionalità e anima. Perciò gli uomini si dirigono naturalmente verso l’Empireo, sede di Dio che fa ‘l ciel sempre quieto perchè sono creati a immagine e somiglianza di Dio. La virtù porta l’uomo verso la Salvezza come la corda di un arco scocca la freccia dritta verso il bersaglio.
La provedenza, che cotanto assetta,
del suo lume fa ’l ciel sempre quïeto
nel qual si volge quel c’ ha maggior fretta;e ora lì, come a sito decreto,
cen porta la virtù di quella corda
che ciò che scocca drizza in segno lieto.
In realtà l’uomo è dotato di libero arbitrio, perciò può sbagliare per effetto del peccato, tanto da dirigere la sua vita verso un altro scopo, pur essendo ben indirizzato (così pinta); allo stesso modo in cui il fulmine (che per la scienza medievale è composto di fuoco) si allontana dalla sua sede, l’anima è diretta verso terra (lontano da Dio e verso l’Inferno) da un falso piacere.
Vero è che, come forma non s’accorda
molte fïate a l’intenzion de l’arte,
perch’a risponder la materia è sorda,così da questo corso si diparte
talor la creatura, c’ ha podere
di piegar, così pinta, in altra parte;e sì come veder si può cadere
foco di nube, sì l’impeto primo
l’atterra torto da falso piacere.Non dei più ammirar, se bene stimo,
lo tuo salir, se non come d’un rivo
se d’alto monte scende giuso ad imo.Maraviglia sarebbe in te se, privo
d’impedimento, giù ti fossi assiso,
com’a terra quïete in foco vivo”.Quinci rivolse inver’ lo cielo il viso.
La spiegazione termina con la constatazione dell’assurdità della meraviglia di Dante, il quale non deve stupirsi di salire verso il Paradiso, perché il suo percorso lo ha purificato dal peccato. Al contrario dovrebbe stupirsi se, in questa condizione, fosse rimasto a terra.
Nonostante in apparentemente la spiegazione di Beatrice sull’ordine dell’universo, iniziata in risposta alle domande di Dante in appagamento del suo desiderio di conoscere sia di carattere scolastico, essa non rovina l’unità poetica del canto. Infatti, in questa spiegazione c’è un vivo sentimento religioso, l’entusiasmo di chi percepisce e ammira un ordine che appaga e pacifica l’anima, l’entusiasmo di chi supera i suoi stessi limiti. Inoltre la perfezione della creazione rende l’ascesa di Dante, liberato dal peso del peccato, appare come rispondente alla regola universale, non l’eccezione. Dunque appare chiaro che l’ordine universale della gloria di colui che tutto move è il motivo chiave di tutta la cantica, poiché il creato esprime la perfezione del suo Creatore.